La lente della fantascienza ci permette di parlare di questioni delicate e attuali come migranti e profughi, mettendoci di fronte a migrazioni estreme
e come abbiamo sostenuto molte volte la fantascienza è uno strumento che ci può aiutare a interpretare il presente, più che prevedere il futuro, è naturale che tematiche complesse come quella delle migrazioni siano state affrontate da storie declinate in ogni forma, dal romanzo al cinema, dal fumetto alla serie tv. In un pianeta sempre più sovrappopolato, in cui le disparità sociali ed economiche continuano ad acuirsi, la questione di profughi e migranti si fa sempre più attuale e forse la fantascienza ci può aiutare a osservare il problema da una prospettiva diversa.
Profughi dello spazio
L’origine della fantascienza come genere popolare risale alle riviste pulp su cui venivano pubblicate storie avventurose, classificabili tra planetary romance, sword and planet e science fantasy. Molte di queste opere erano riproposizioni del mito della frontiera in space, con una pennellata di futuribilità che le rendevano più accattivanti. Il modello tipico di questi racconti era quello dell’eroe wasp che conquistava i popoli nativi di pianeti alieni con i muscoli, l’ingegno… e all’occorrenza il fascino, se c’erano principesse in giro. Personaggi come Adam Reith e John Carter nella narrativa, o Flash Gordon e Buck Rogers nei fumetti, in genere non si preoccupavano più di tanto di integrarsi nella cultura dei pianeti che visitavano. Eppure proprio dai fumetti ci viene uno degli esempi più famosi di migranti della fantascienza: Superman, unico sopravvissuto del suo pianeta, che vive tra gli umani come Clark Kent nascondendo la sua vera natura di alieno.
Forse Kal-El è stato il primo profugo dello spazio protagonista di una storia, ma dopo di lui il trope del pianeta annientato i cui sopravvissuti vagano tra le stelle in cerca di una nuova casa è stato riproposto molte volte, e in numerosi casi quel pianeta distrutto è proprio la Terra. Viaggiando a volte su astronavi generazionali e a volte balzando casualmente nell’iperspazio, troviamo molti casi in cui l’intera umanità si è trovata a essere un unico gruppo di migranti disperati, la cui sopravvivenza e serenità dipende dalla possibilità di trovare un luogo che li accolga. Uno degli esempi più noti è la serie Battlestar Galactica, in cui la guerra con i cylon ha quasi annientato tutta la popolazione delle colonie umane, e i superstiti sono confinati su una piccola flotta di astronavi braccate dai robot. Nel corso della serie emergono più volte le tensioni derivanti da una condizione di incertezza e transitorietà, così come il desiderio di stabilirsi finalmente su una New Caprica che possa finalmente farli sentire sicuri.
Ma una sorte simile avviene anche in circostanze meno drammatiche nel caso della Guida Galattica per Autostoppisti. Forse le battute e le assurdità non ci fanno concentrare troppo su questo aspetto, ma in effetti Arthur Dent e Trillian sono gli ultimi sopravvissuti dell’intera razza umana, dopo la rimozione della Terra da parte dei Vogon. In effetti negli ultimi volumi della trilogia in cinque parti questa condizione inizierà a pesare su Arthur, che sentirà il bisogno di ritrovare la sua casa e, possibilmente, riportare la Terra al suo posto. Questo tipo di storie ci parla del profondo bisogno di appartenenza che accomuna tutte le persone, e che una volta strappato può provocare profondi traumi che può essere sanato solo con il ritorno a una situazione di serenità e l’integrazione all’interno di mondo nuovo e diverso.
Alieni tra noi
Ma in altri casi la Terra rimane al suo posto, e diventa invece la destinazione di migranti interstellari. L’esempio più popolare in questo caso è il ciclo di Men in Black, dove troviamo un’organizzazione governativa che si occupa proprio di regolare l’immigrazione di alieni sul pianeta. Si scopre così che tra di noi vivono in incognito migliaia di extraterrestri, che sotto sembianze umane cercano una nuova vita su un pianeta alieno (per loro) e vivono per lo più in condizioni umili, con occupazioni di basso profilo, spesso al limite della legalità. Il reparto dei MIB agisce secondo strette leggi burocratiche, e gli ospiti sulla Terra devono sottostare a numerose regole, pena l’annullamento dei loro permessi. Pur essendo il tono dei film rivolto alla commedia, è facile individuare in questa situazione una rappresentazione della condizione a cui i migranti sono costretti, e nel caso specifico si possono riscontrare spesso riferimenti agli immigrati messicani che cercano di accedere agli USA.
Nel romanzo The best of all possible worlds, l’autrice Karen Lord immagina che la Terra sia oggetto di una massiccia migrazione di alieni (i Sadiri) provenienti da un pianeta sfollato dopo un cataclisma. La popolazione sadiriana si stabilisce tra di noi, e le differenze tra le specie sono abbastanza superficiali da consentire l’ibridazione. Eppure i Sadiri stessi resistono a questa forma di integrazione, e tendono invece a mantenere chiuse le loro comunità, riflettendo un fenomeno che viene riscontrato spesso anche nelle migrazioni tra una nazione e l’altra. Nel romanzo la questione è giustificata dal fatto che i Sadiri condividono una profonda connessione telepatica coi loro simili, ma i loro poteri psichici si affievoliscono incrociandosi con gli umani. Conservare la propria fisologia è quindi fondamentale per mantenere viva l’identità e la cultura della specie, ma allo stesso tempo impedisce agli alieni di integrarsi nella comunità umana.
Una situazione simile, ma vista dalla prospettiva opposta, è quella del film Teste di cono, che anche se utilizza il taglio comico e satirico (tra i protagonisti troviamo Dan Aykroyd e altre star del momento del Saturday Night Live), rappresenta un buon esempio del tema dei migranti nella fantascienza. La coppia di alieni protagonisti sono naufragati sulla Terra, e poiché non potranno essere tratti in salvo prima di sedici anni sono costretti a vivere tra i terrestri per tutto questo tempo, con l’ulteriore complicazione di una figlia in arrivo. In questo caso quindi viene rappresentata la difficoltà per i migranti di seconda generazione, nati e cresciuti in una cultura estranea, che da un parte si vedono negato il riconoscimento della loro appartenenza, e dall’altra si trovano a scontrarsi con la generazione precedente che ostacola la loro integrazione.
Rimanendo nel cinema, un altro esempio lampante di allegoria arriva da District 9, che mostra una condizione di vera e propria segregazione contro i “gamberoni”, alieni artropodi arrivati senza spiegazione sulla Terra, con i quali è impossibile comunicare e che finiscono confinati con la forza in campi nomadi dove vivono in condizioni disumane (ma anche disgamberoniane). Impostato inizialmente come un finto documentario, per evidenziare la brutale noncuranza con cui i profughi sono trattati, il film poi forza il protagonista nella prospettiva mentale e fisica dei gamberoni, finché non si trova lui stesso a combattere per i loro diritti che a quel punto sono anche i suoi.
Chi parte e chi resta
Altre volte le storie di fantascienza ci pongono nella prospettiva dei migranti che vogliono andarsene. Quando le condizioni nella propria terra di origine si fanno intollerabili e la prospettiva di un mondo sconosciuto è più incoraggiante del presente che stiamo vivendo, siamo disposti ad affrontare il rischio di una migrazione in cambio della speranza di trovare un posto migliore. Salvo poi scoprire, di solito, che quello che ci aspetta dall’altra parte non è così idilliaco come pensavamo.
È quello che succede ai coloni della serie Foreigner di C.J. Cherryh, dove i coloni di una stazione spaziale fuggono da un regime autoritario che sta prendendo il potere e si rifugiano sul pianeta degli atevi, umanoidi con i quali non si rivela così facile convivere. Lo stesso proposito lo hanno nel ciclo del Vuoto di Peter F. Hamilton i miliardi di seguaci del Sognatore, che credono alle visioni della vita all’interno del Vuoto, l’anomalia al centro della galassia in cui tutto è possibile: si prepara quindi una migrazione di massa per raggiungere questa utopia, che però viene ostacolata dal resto del Commonwealth che teme che il Vuoto possa consumare il resto dell’universo.
Anche negli ultimi libri del ciclo originale di Dune, una parte notevole della popolazione umana è fuggita dopo i millenni di tirannia dell’Imperatore-Dio Leto II, espandendosi oltre i confini dell’universo conosciuto. Millecinquecento anni dopo, i discendenti di questa diaspora tornano indietro, mutati e irriconoscibili, in fuga da una minaccia oscura e sconosciuta, e si scontrano con ciò che è rimasto dell’umanità originale. Eppure tutto questo faceva parte del Sentiero Dorato previsto da Leto II, che ha volutamente diretto l’umanità su un percorso di sofferenza e rinascita, dimostrando che la difficile prova della migrazione e dell’accoglienza fosse ciò di cui c’era bisogno per superare la stagnazione della specie.
Ne I figli degli uomini, la distopia senza futuro di P.D. James in cui non nascono più bambini, i migranti dai paesi più poveri sono “accolti” dal governo autarchico del Guardiano d’Inghilterra, affinché possano occuparsi della popolazione che invecchia e ha bisogno di vivere nel massimo agio possibile i pochi anni che gli restano: una situazione molto simile a quella che l’occidente sta attraversando proprio adesso con la natalità in costante calo, che prospetta un futuro sempre meno sostenibile per lo squilibrio tra giovani e anziani. Mentre invece Qaanaaq, la città galleggiante di Sam J. Miller, è nata proprio raccogliendo i migranti da ogni parte del mondo, confluiti qui per sfuggire dal cambiamento climatico che ha reso inabitabili le latitudini più basse. La città dell’orca costruisce la sua identità proprio dal crogiolo di culture e di storie che ognuno di questi gruppi porta con sé nel suo viaggio di speranza.
Così diversi, così simili
Quello che la fantascienza cerca di dirci sui migranti è quanto essi siano soltanto una versione differente di ciò che siamo noi, e spesso lo fa mettendoci a confronto diretto con persone differenti ma in cui non possiamo non riconoscerci. A ben guardare anche i replicanti a cui dà la caccia il Deckard Cain di Philip K. Dick in Ma gli androidi sognano pecore elettriche (e nella sua versione cinematografica Blade Runner) sono migranti in cerca di condizioni migliori: individui a cui è stata negata la possibilità di una vita autonoma, costretti ad affermare i propri diritti con la violenza, e per questo criminalizzati.
Altri quasi-umani sono quelli della serie Neanderthal Parallax di Robert J. Sawyer: uomini di Neanderthal provenienti da una dimensione parallela in cui sono loro, invece dei Sapiens, a essersi diffusi su tutto il pianeta. Dopo un primo incidente in cui un Neanderthal “moderno” arriva sul nostro mondo, si pone il problema della convivenza tra due specie diverse, ma abbastanza simili da aver condiviso per molto tempo lo stesso mondo. In questo caso l’integrazione culturale è resa ancora più complessa dal fatto che la società Neanderthal è per certi versi più civilizzata di quella Sapiens, mettendoci di fronte ai limiti e alle contraddizioni della nostra.
Ma nella fantascienza ci sono anche migranti che non arrivano dallo spazio o da dimensioni parallele, ma dal tempo: è questo il punto di partenza di Beforeigners, la serie tv norvegese di cui è da poco uscita la seconda stagione in cui gli “stranieri del passato” vengono proiettati nel nostro presente: uomini e donne che appaiono casualmente viaggiando dalla preistoria, dall’epoca vichinga e dal XIX secolo per approdare nel mondo contemporaneo. Le istituzioni si sforzano di inserire i timegrants nella collettività, ma non è facile far convivere culture così diverse rispettando le tradizioni, i culti e le abitudini di tutti. I goffi tentativi di usare un linguaggio politicamente corretto si scontrano con le necessità ben più immediate di riconoscimento dei profughi temporali. E non dobbiamo sottovalutare nemmeno il trauma di Philip J. Fry, che in Futurama si trova proiettato mille anni nel futuro e deve fare i conti con un’epoca popolata di alieni, robot e teste rianimate: nel suo caso, l’adattamento al mondo del futuro procede di pari passo con l’accettazione della sua estraneità al mondo da cui proveniva, in cui non è mai riuscito a trovare quell’appartenenza di cui tutti hanno bisogno. È solo accettando i paradossi dell’anno 3000 che riesce finalmente a riconciliarsi anche con il suo passato.
Come spesso accade, anche nel caso di migrazioni, profughi e migranti la fantascienza non ci offre risposte. Quello che però riesce a fare è offrirci prospettive diverse, aiutarci a immaginare situazioni diverse, estreme e forse impossibili, che ci permettono però di considerare il problema in maniera diversa da come lo fa l’attualità a cui siamo abituati, e forse anche anestetizzati. Metterci nei panni dell’alieno isolato, del profugo spaziale o del migrante temporale può forse aiutarci a sviluppare quell’empatia di cui ancora oggi c’è fin troppo bisogno.