And while I can think, while I can talk
While I can stand, while I can walk
While I can dream, please let my dream
Come true, right now”
(Elvis Presley – If i can Dream)
La Terra Promessa in senso biblico è Israele, il posto dove il popolo ebraico potrà tornare ed essere finalmente “libero e padrone di se stesso”. Allo stesso modo gli attuali Stati Uniti sono stati la terra promessa per migliaia di europei, che lì hanno trovato la possibilità di autodeterminarsi creando uno stato effettivamente democratico, tanto che Toqueville viaggiò negli States e poi realizzò la sua opera più importante, in cui rifletteva sulla situazione politica americana nel periodo caldo della Restaurazione, quando in Europa si cercava di mettere un freno alle idee portate dalla Rivoluzione Francese.
Ogni Terra Promessa è contemporaneamente figlia e portatrice di un sogno, e nel nostro caso si parla di quello americano, la chimera inseguita da molti e allo stesso tempo venduta all’estero dagli Stati Uniti stessi per mostrare il loro primato a tutti: “World’s highest standard of living”, recitava un cartello in una celebre foto, che ritraeva anche una massa di persone di colore in fila per la mensa per i poveri.
Perché questa premessa? Se avete cercato su internet Promised Land, vi sarete accorti che si tratta fondamentalmente di un documentario su Elvis Presley. In realtà il Re c’entra, ma è una metafora. Il documentario viene infatti girato durante le ultime presidenziali americane, quelle che vedranno poi Trump uscire vincitore. La parabola discendente di Elvis è messa in parallelo con la storia americana, soprattutto contemporanea. Perché Elvis è l’allegoria del sogno americano, è qualcuno che c’è riuscito: povero, proveniente dal nulla, è stato infine incoronato. Secondo alcuni interventi all’interno del film, scopriamo che per alcuni personaggi di colore, la musica di Elvis era soltanto un calcolo economico di chi credeva che la black music, il blues, avrebbero potuto essere “the next big thing” della musica americana, ma allo stesso tempo negli anni ’50 era difficile venderla per motivi razziali. Elvis era bianco, ha preso il blues e lo ha mischiato al rock ‘n roll. Fondamentalmente alcuni esponenti della comunità nera sostengono che si sia fatto grande appropriandosi del lavoro altrui. E appropriarsi del lavoro altrui senza dargli nulla in cambio si chiama schiavitù. Vi ricorda qualcosa, nella storia degli Stati Uniti?
Ho portato l’esempio della musica di matrice nera solo per mostrarvi i binari entro cui il film si muove: si tratta quindi di una grande metafora, di un parallelismo, tra la vita di Elvis, dal nulla delle periferie a Hollywood, mosso da un sogno – quello americano – che permette (in teoria) a chiunque di diventare qualsiasi cosa, con la giusta voglia di fare. Ma dai sogni ci si sveglia, e spesso il sonno è anche agitato, a dirla tutta. Elvis muore giovane e Trump viene eletto, questo è il discorso del film, ma anche il percorso non è che sia stato tutto rose e fiori. Elvis non è il Re, è una persona normale con le sue debolezze, così come l’America stessa.
Ma Promised Land è anche tanto altro. È un road movie a bordo della Rolls Royce di Elvis, una macchina che non è neanche americana, e che quindi citando il film stonava nelle mani del Re degli States. Un’opera che ripercorre le varie tappe della vita di Elvis, città dopo città, puntellata di ospiti illustri, di attori, musicisti, di persone che l’hanno conosciuto o che ne hanno studiato il fenomeno. Intriso di filmati di repertorio, di visite ai luoghi sacri dove ha vissuto il cantante, di riprese di performance dal vivo e da spezzoni di film. Un lavoro con un’opera di montaggio immensa, grazie alla quale inseguiamo la Rolls lungo la Route ’66 con riprese aeree incredibili in cui assistiamo a questa strada che taglia le distese desolate americane, per poi passare con un salto ad un’intervista, tornare a qualche frammento di qualche brano interpretato da Presley o dai musicisti che occupano i sedili posteriori dell’automobile, per giungere infine a qualche commento sparso di passanti affascinati da una macchina d’epoca così ben tenuta.
C’è tanta America, in Promised Land, e ci sono tanti punti di vista, soprattutto sulla carriera di Elvis Presley, grazie ai quali non vediamo solo glitter e pallette, ma anche e soprattutto un uomo che non era la sua immagine pubblica. Esattamente come la fotografia di cui vi parlavo in apertura, d’altronde.
Eugene Jarecki, il regista, porta la Rolls e invita le persone a salirci sopra, a volte domanda cosa ne pensano di Trump, cosa pensano della direzione che sta prendendo la situazione americana, mentre metaforicamente guida l’automobile. Quello che emerge è una presa di posizione dura sul sogno americano: è l’illusione che tiene in piedi il paese, ma comunque è (ed è sempre stata) un’illusione.
Verdetto:
Eugene Jarecki confeziona una pellicola atipica, un documentario che parte dalla storia di una delle icone della musica rock internazionale, ma intrinsecamente americana, per raccontare la parabola statunitense sotto il profilo politico, sociale e umano. Si accosta ad un’idea ottima una realizzazione tecnica impeccabile, che non potrà che tenere lo spettatore incollato allo schermo per tutte le quasi due ore di proiezione.