N.E.O – La caduta del sole di ferro è solo l’ultimo di una lunga serie di romanzi senza adulti, che mettono alla prova i ragazzi e sembrano suggerirci che forse i giovani non sono così male
In origine fu Il signore delle mosche, il più famoso romanzo del premio Nobel per la letteratura William Golding. Poi arrivarono gli assassini – loro malgrado – di Battle Royale e Hunger Games, ma anche i bimbi sperduti di peterpanesca memoria di Berlin, Millennials, di uno dei più recenti romanzi di Niccolò Ammaniti (prossimamente sui piccoli schermi) e, novità editoriale di cui si è parlato troppo poco, i ragazzi del teepee e i ragazzi del castello della Parigi postapocalittica di Michel Bussi, che con il suo N.E.O. La caduta del sole di ferro abbandona i romanzi gialli per tuffarsi in una trilogia che sfrutta con abilità il trope del mondo senza adulti.
Male di miele
Partiamo proprio dall’inizio: nel 1954 (1958 in Italia) viene pubblicato il primo romanzo del poeta William Golding; un romanzo crudo, ferale, pessimista, misantropo. Il signore delle mosche è il racconto di un incidente aereo che coinvolge un gruppo di bambini e ragazzi preadolescenti, sopravvissuti e rifugiatisi su un’isola deserta mentre nel mondo infuria un guerra nucleare di cui sappiamo ben poco poiché – pare – l’editore di Golding lo convinse a sfoltire la backstory e ad ammorbidire i riferimenti alla religione cristiana (lo stesso titolo – del resto – è una traduzione letterale del nome del demone Belzebù, citato nel Secondo libro dei Re). Ma da dove nasce l’idea di raggruppare un determinato numero di ragazzini di buona famiglia in uno spazio ben confinato seguendo la loro discesa nella follia e nel caos?
Golding non ha mai fatto mistero di aver scritto Il signore delle mosche come critica – quasi parodia, potremmo dire – di un romanzo per ragazzi – juvenile, si chiamavano, quando non esisteva ancora la sezione young adult nelle librerie – del 1857. The Coral Island: A Tale of the Pacific Ocean, di R. M. Ballantyne, è una robinsonade (termine che racchiude quelle narrazioni ispirate appunto al Robinson Crusoe di Daniel Defoe) che racconta le disavventure di tre ragazzi naufragati su un’isola polinesiana, alle prese con cannibali e temibili pirati. Sia l’isola descritta da Ballantyne che quella che accoglierà i ragazzi di Golding sono piccoli paradisi terrestri in cui non mancano acqua potabile, frutta, pesci e cacciagione di cui nutrirsi. Ciò in cui si discostano i due testi, il ribaltamento della tesi, è dato dall’incarnazione del male: mentre per Ballantyne il pericolo viene dall’esterno – dai selvaggi, dai pirati -, per Golding il male è dentro ai ragazzi stessi, che lo producono “come le api producono il miele”.
Il mondo prima
Ciò che Kant chiamava male radicale, ovvero una propensione al male insita nella natura umana, costringe i protagonisti de Il signore delle mosche a fare la guerra, così come i loro genitori dall’altra parte del mare. Da una stessa concezione di violenza e radicamento del male nell’esistenza dell’uomo si sviluppano le trame di Battle Royale – romanzo del 1999 dell’autore giapponese Koushun Takami – e – in maniera molto più lasca – la trilogia di Hunger Games, scritta dall’autrice statunitense Suzanne Collins.
In entrambe le narrazioni, un gruppo selezionato di adolescenti viene rinchiuso in un’arena da cui solo uno di loro – il vincitore – uscirà vivo, dopo aver eliminato gli avversari. A differenza de Il signore delle mosche, qua gli adulti sono presenti e sono – anzi – i fautori di questi giochi di guerra e odio. Oltre al male radicale kantiano, però, sia in Battle Royale che in Hunger Games viene sottolineata la predisposizione al bene che guida i ragazzi: per Kant, infatti, opposto al male radicale troviamo la bontà originaria, più forte e profonda del primo, in grado di sconfiggere una visione del mondo à la homo homini lupus, eppure quasi sempre incapace di prevalere.
Finora abbiamo parlato di ragazzi isolati dagli adulti, ma nel corso degli anni un sottogenere ancora più specifico si è fatto strada, quello che vede bambini e ragazzi unici sopravvissuti al mondo. Di solito inizia tutto con una vaga epidemia che colpisce tutti coloro che hanno passato la pubertà e si arriva a scenari postapocalittici; possiamo riassumere così la trama di Anna – romanzo di Niccolò Ammaniti ambientato nel 2020, che nel 2020 sarebbe dovuto diventare una serie tv che è stata ritardata dalla pandemia che ha avuto luogo nel 2020, ma anche quella della saga di Berlin di Fabio Geda e Marco Magnone – ambientata in una Berlino ucronica in cui i ragazzi sopravvissuti sono divisi in bande rivali – e, in un format un po’ più fantasioso e tecnologico, quella di Millennials, il romanzo del collettivo La Buoncostume che immagina la trasformazione in statue, per un periodo limitato di tempo, di tutte le persone maggiorenni.
La caduta del sole di ferro
Ultimo del suo genere arrivato nelle librerie italiane è N.E.O. La caduta del sole di ferro, primo di una trilogia scritta da Michel Bussi e pubblicata da edizioni e/o. Il worldbuilding, qua, è meno vago che in altri dei titoli già citati: siamo a Parigi, città che anche dopo aver superato un’apocalisse pandemica mantiene la sua geografia urbana, in cui la Tour Eiffel – detta il teepee – svetta nel cielo, oscurato da un misterioso sole di ferro e un clan avversario vive barricato nel castello conosciuto una volta con il nome di Louvre.
La caduta del sole di ferro – da buon romanzo di autore francese – sembra riuscire a restituire con una narrazione coinvolgente il concetto di selvaggio espresso ben cinquecento anni fa dal filoso Michel de Montaigne, per il quale “ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo.”
Bussi mette in scena lo scontro tra natura e cultura, un’apparente dicotomia rappresentata dai selvaggi del teepee, che sopravvivono di caccia e raccolta dei frutti della terra, e i cannibali del castello, dotati dei comfort dell’elettricità e dell’insegnamento di una figura materna che non li ha abbandonati neanche dopo la morte, continuando a insegnar loro dagli schermi. Natura e cultura, sì, ma anche privilegio: “i ragazzi del castello sono generosi, pacifici, colti, possono permetterselo perché sono dei privilegiati, un po’ come i ricchi che facevano la carità ai poveri […]. Ma appena sentono che il privilegio viene minacciato tutto il gruppo fa blocco compatto contro la minaccia”, riflette Ogenor, il consigliere della regina, all’alba dello scontro finale tra i due clan.
Prendendo in prestito le parole di Amos Burton nel sesto episodio dell’ultima stagione della serie Amazon The Expanse, “l’umanità è tribale, più le cose sono tranquille, più grandi sono le tribù. Se arriva il caos, le tribù ritornano piccole”, e se questo è vero per la civiltà come la conosciamo noi, immaginatevi cosa può significare per dei ragazzi di dodici anni, cresciuti senza figure genitoriali, costretti a immaginare la società del passato – nel migliore dei casi – o a inventarsi ex novo il futuro. Una sfida senza precedenti, una provocazione, quella della letteratura senza adulti, che sembra sfidarci a dare un po’ di fiducia alle nuove generazioni. Del resto, non sarà mica la fine del mondo.