La casa di produzione di Elijah Wood e Ubisoft danno i natali a un trip che difficilmente può lasciare indifferenti
Quando qualche anno fa durante l’E3 venne presentato Transference rimasi colpito, un po’ perché non mi aspettavo che Elijah Wood si occupasse di videogiochi, un po’ perché quelle che vedemmo era contemporaneamente così criptico e visionario da far viaggiare la fantasia, facendomi immaginare quali strade avrebbero battuto SpectreVision e Ubisoft, in cosa si sarebbe risolto quello che immaginavo essere un esperimento in grado di far fare un passo avanti all’utilizzo della realtà virtuale. Perché mi feci questo trip non lo saprei neanche dire (forse perché il trailer faceva a sua volta immaginare un bel trip), certo è che rimasi con grandi aspettative per questo Transference.
Il nodo che sembra non si riesca a sbrogliare è in fondo banale, fisiologico dopo qualsiasi introduzione tecnologica potenzialmente in grado di cambiare i paradigmi attraverso i quali si esprime un medium: i giochi per realtà virtuale sono spesso e volentieri una versione a 360 dei videogiochi classici. Anche prendendo ad esempio Farpoint, certamente uno degli esempi virtuosi di come utilizzare le peculiarità della VR, non si può non constatare che altro non sia che un FPS tradizionale, nelle sue basi. Questo non significa ovviamente che la situazione sia stantia e che non si cerchi di sperimentare o di dire qualcosa di nuovo, ma la VR è ancora qualcosa di giovane e poco diffuso, e ne paga le conseguenze. Tutto questo per dire che da Transference mi aspettavo qualcosa di più di quello che ho avuto per le mani, e badate bene, questo non significa assolutamente che Transference sia un brutto gioco, anzi, semplicemente da quanto si era visto mi aspettavo qualcosa di più avanguardistico.
Una famiglia complessa
Transference inizierebbe di fronte a un palazzo qualsiasi, se non fosse che attorno all’edificio c’è il nulla. L’atmosfera è alienante, i colori al neon danno un tono fortemente surreale e già da subito il gioco punta a disorientare. Appena entrati infatti ci si ritrova di fronte a un enigma che fa intendere che non stiamo camminando nella realtà, per poi perdersi in un loop di scale infinite e in un appartamento che farà da teatro dell’avventura per tutte le due ore necessarie a portarla a compimento. La storia è volutamente confusa e frammentata, scelta giustificata da quello che SpectreVision vuole raccontare, ovvero una realtà familiare tutt’altro che rosea, vista e vissuta attraverso i punti di vista interni ed esterni dei diversi membri del nucleo, ognuno con i propri sogni e ambizioni, stressati fino a diventare paranoia e poi mescolati e sovrapposti tra loro nella realtà in cui si muove il giocatore.
La casa diventa un organismo vivo che muta con i suoi abitanti, non solo come mezzo del racconto ma anche come meccanica ludica: passare da una versione all’altra dell’appartamento è spesso la soluzione ai puzzle che il gioco propone, non sempre brillanti e a volte pretestuosi, ma coerenti con il racconto che si vuole portare avanti. I puzzle riguardano spesso gli interessi, le passioni e le ossessioni, concetti in Transference spesso sovrapposti, di un singolo membro della famiglia, quasi sempre recintati in singole stanze che sembrano essersi l’estensione di chi le abita, come specchi riflettenti un’interiorità espansa allo spazio circostante, un arcipelago di umanità che vivono sì sotto lo stesso tetto, ma che comunque sono separate da muri, interiori come di mattoni.
A raccontare la storia troviamo inoltre una discreta quantità di FMV – SpectreVision è in primis una casa di produzione cinematografica – che funzionano sia da collezionabili che da filmati utili ad approfondire i personaggi, i loro rapporti e cosa ha portato alla situazione dove il gioco trova ambientazione. Questa scelta aggiunge importanza all’esplorazione della casa, che altrimenti sarebbe fin troppo spesso eccessivamente fine a sé stessa, allungando di un po’ la durata del gioco e offrendo effettivamente approfondimenti utili ad una narrazione che altrimenti sarebbe un po’ troppo asciutta e criptica. Le interpretazioni degli attori in questi FMV sono tra l’altro eccezionali.
Transference ovviamente funziona al suo meglio in realtà virtuale, essendo pensato con questa in testa. L’esperienza ne guadagna molto in immersione, grazie anche all’ottimo utilizzo dei suoni: più volte vi troverete con brividi lungo la schiena per qualche interferenza, accorgendovi di star sporgendo la testa per accertarvi che non ci sia qualcosa dietro l’angolo. Proprio per questo senso di disagio e ansia costante non ho affatto apprezzato l’introduzione di jump scare, che seppure siano pochi appaiono totalmente superflui nell’economia del racconto.
Verdetto
Transference è una buona esperienza VR, su questo non ci piove. Racconta con intelligenza dei personaggi interessanti, se si ha la voglia di scavare e di pensare approfonditamente a quello che si è giocato. Il focus sul racconto si riflette in puzzle coerenti con la narrativa, ed è apprezzabile, ma anche spesso poco stimolanti. Complessivamente ci troviamo di fronte a un gioco che forse avrebbe potuto dire di più, e che avrebbe potuto osare di più. Se gli elementi ludici fossero stati realizzati meglio, o magari più semplicemente ridotti in favore della narrazione, ci saremmo trovati di fronte a un titolo più organico e meno sbilanciato verso una buona componente narrativa con puzzle inseriti un po’ a forza. Si tratta comunque di problemi minori: SpectreVision e Ubisoft Montreal riescono a confezionare un buon titolo, che riesce nel suo obbiettivo principale.