Negli ultimi vent’anni la regia delle serie tv ha subito una rivoluzione, che ha modificato il modo di approcciare il piccolo schermo. Ecco come è cambiata la serialità televisiva!
C’era una volta una serialità televisiva monotematica e priva di guizzi creativi, contraddistinta da una produzione che si muoveva solamente lungo gli assi della verticalità e orizzontalità. Autoconclusiva, rigorosamente settata secondo parametri registici standard e fortemente orientata per un pubblico che non si aspettava e non voleva cambi di registro e copione. La serialità televisiva ha conosciuto una lunga e acerba fase, che sembra ormai sbiadita. Molto è cambiato negli ultimi due decenni: in primis l’approccio al piccolo schermo, da parte dello spettatore e di chi crea il prodotto seriale.
Libera dalle catene dei palinsesti e da vincoli di produzione, la narrazione televisiva ha vissuto un suo Rinascimento, in cui ha intrapreso una nuova fase creativa, che l’ha innalzata ad uno status più elevato, fornendole un linguaggio ed un’anima propria, differente e non qualitativamente inferiore a quello proprio del cinema.
Prima della rivoluzione
Diversi sono stati i fattori che hanno incanalato per un lungo arco di tempo il prodotto televisivo in parametri e forme preconfezionate e limitative dal punto di vista creativo. La rigidità dello schema della programmazione, diviso in fasce e orari sempre uguali che scandivano il tempo quotidiano, costringeva ad un approccio registico che delineasse un ritmo ripetitivo e rassicurante. Le serie riproducevano gli stessi schemi narrativi in loop, conseguenza di una scansione temporale ben distante da quella attuale, difficilmente scardinabile e ancorata ad una massificazione del prodotto televisivo.
Ma si intravedeva già in alcuni studi, tra cui un’analisi sull’opposizione allora imperante tra cultura alta e bassa da parte di Umberto Eco, la voglia di rompere gli schemi cementificati di un modus di fare tv troppo frenato da confini poco plastici. La commistione di genere e linguaggi era vista allora con disprezzo e poco adatta ad un pubblico immaginato come una massa uniforme e indistinta.
Prodromi di un nuovo modo di interpretare la serialità e la regia nelle serie tv si palesano nel Twin Peaks di David Lynch, che rompe gli schemi classici del telefilm, attingendo da più generi e sconvolgendo i rasserenanti binari su cui si erano adagiate le serie anni ottanta, in primis le soap opera. Dallas e le sue sorelle televisive avevano abituato il pubblico ad un ambiente ed una storia circoscritta, in cui muri narrativi racchiudevano storie monodimensionali, dal costante, ma all’epoca rincuorante, retrogusto di deja-vu. Twin Peaks per la prima volta inserisce il doppio, il perturbante, spiazzando lo spettatore con una nuova dimensione, in cui sentirsi spaesati e lontana dai canoni abituali. L’ignoto faceva il suo ingresso nel panorama televisivo e interrompeva un flusso che sino ad allora era stato continuo e privo di interruzioni. Lynch ricrea le nebbie e le poche certezze del mondo dell’inconscio, evocato grazie ad un uso maniacale del sonoro, ed esternalizza poi l’interiorità dei suoi personaggi nella quotidianità.
L’ambiente e la realtà tormentano i personaggi lynchiani in un ribaltamento dell’immaginario surrealista. In Twin Peaks il lessico televisivo subisce quindi uno slittamento e uno stravolgimento che troverà una costanza e un’attuazione solamente nel nuovo millennio. Ma Lynch ha sempre vissuto in anticipo con i tempi. E la sua rivoluzione dovrà attendere qualche anno.
L’alba di un nuovo millennio
Se il grande schermo e la settima arte hanno conosciuto numerose rivoluzioni, registiche e narrative, ricondotte a filoni e stili ben definiti, il mondo delle serie tv sta vivendo negli ultimi anni un cambiamento che ne ha mutato radicalmente l’anima. Una vera e propria rivoluzione culturale, alle cui radici c’è un cambiamento di prospettive dell’uomo, dettato dall’introduzione delle nuove tecnologie, che hanno modificato radicalmente la quotidianità e la percezione spazio-temporale.
Se negli anni Ottanta e Novanta la televisione serviva a mitigare lo spaesamento di un mondo che stava cambiando troppo velocemente, l’ingresso nella scena dell’intrattenimento e dell’informazione di nuovi media ha concesso al piccolo schermo di scrollarsi quel ruolo ben definito all’interno della società. La moltiplicazione dei canali e delle forme di fruizione televisiva ha permesso di abbandonare la staticità e la rigidità dei primi decenni, donando una libertà di linguaggi e stili, che sino ad ora era appannaggio del cinema e della letteratura.
Se prima il lessico televisivo era un abito monocromatico, un variopinto sconvolgimento ha dato nuova linfa creatrice, che ha permesso al piccolo schermo di diventare un mezzo per narrare nuovi mondi.
Fondamentale in questa evoluzione dell’espressione televisiva è il ruolo dello showrunner, che ricalibra e rafforza l’identità e la coerenza stilistica del racconto seriale. La regia delle serie tv trova la precisione e la peculiarità del proprio segno linguistico proprio nel lavoro di questa figura fondamentale del cambiamento televisivo che ha segnato le produzioni dal duemila in poi.
La regia nelle serie tv diventa quindi l’interpretazione di un universo creato dalla sensibilità artistica dello showrunner, che, rispetto al cinema, riunisce in un’unica figura la parte autoriale e quella performativa. La struttura a episodi e la necessità di ricorrere a diversi registi necessitavano di una coralità, diretta da una voce che ne scandisse ritmo e stile.
J.J. Abrams, Damon Lindelof e Jeffrey Lieber nel 2004 hanno dato un vero e proprio scossone al panorama televisivo, creando una serie, che nel bene e nel male, ha cambiato un’epoca: Lost. La serie ha introdotto diverse novità che poi diventeranno un leitmotiv delle produzioni successive. In ogni lavoro dei tre autori e showrunner si intravede la loro firma, una regia matrice per gli sviluppi della serie. Sfuma finalmente la proceduralità, che lascia spazio ad un modo di approcciare la materia narrativa non convenzionale, che scavalca il muro della broadcast television e delle restrizioni che avevano tarpato le ali al piccolo schermo.
Il grande plauso che va dato agli showrunner e registi di questa prima fase della rivoluzione televisiva è quello di aver rivolto lo sguardo ad una platea diversa rispetto a quella generalista. Seppur facente parte di un grosso network, Lost dà il via ad un effetto domino, ancor più travolgente ed evidente nei prodotti legati ai network a pagamento.
I premium network, HBO docet, hanno creato un nuovo ecosistema televisivo, in cui la regia delle serie tv ricalca uno stile tipicamente associato al linguaggio cinematografico. Si ampliano e dilatano i tempi e i ritmi, le performance attoriali vengono esaltate e le scelte registiche, dettate dalla coerenza stilistica dell’intera opera, seguono un continuum autoriale ben delineato.
Numerosi sono gli esempi di serie TV che hanno rafforzato il nuovo ruolo del piccolo schermo nella narrazione contemporanea. Breaking Bad è un esempio lampante di quanto si possa osare nella nuova serialità, sia a livello di scrittura che di regia. La genialità di Vince Gilligan e Peter Gould ha permesso alla scrittura televisiva di compiere un ulteriore ed enorme passo in avanti nel suo processo evolutivo, basti pensare ad alcune peculiarità registiche, come l’uso brillante del PoV (Point of View) applicato agli oggetti o alla fruizione del campo lungo per dare epicità agli eventi più fondamentali della serie.
Proprio il campo lungo viene ripreso in altre serie recenti che fanno della propria regia autoriale un marchio stilistico, come in Handmaid Tale e True Detective, in cui ci si sofferma sul rapporto tra l’instabilità emotiva dei personaggi e l’infinità indistinguibile dell’orrore che devono affrontare.
Non sempre è necessario osare a livello registico per far emergere il proprio stile e la propria firma, Shonda Rhimes da anni è riuscita a monopolizzare e portare avanti l’intera programmazione di ABC Family, conquistando milioni di telespettatori con le sue produzioni, che hanno rivoluzionato aspetti procedurali mutuati dal vecchio approccio televisivo, ma traslati in un nuovo gergo e stile narrativo.
Negli ultimi anni gli showrunner di grandi serie TV hanno poi introdotto la novità del “prestito” dal mondo cinematografico di grandi registi, a cui è stata affidato la direzione del pilot. Martin Scorsese in Boardwalk Empire o David Fincher in House of Cards e Mindhunter (di cui ha diretto diversi episodi) sottolineano l’importanza della delineazione di parametri stilistici da parte di un maestro, una sorta di exemplum virtutis che dovranno poi seguire i vari autori a cui verrà affidata la regia della serie tv.
In The Mandalorian la presenza di grandi firme registiche (Robert Rodriguez per ultimo) ha innalzato ancor di più la qualità di un’opera, in cui Jon Favreau ha saputo dare nuova verve e una nuova direzione al franchise di Star Wars, orientato per stile e scelte autoriali verso una rielaborazione dello space western. Gli echi di Akira Kurosawa e Sergio Leone sono costanti nella serie e rimarcano il confine ormai molto sottile e travalicabile tra cinema e mondo televisivo.
Recentemente la creazione e l’esplosione dell’on-demand ha quindi ingigantito ulteriormente il processo di rivoluzione, che ha cambiato totalmente il paesaggio televisivo in poco più di vent’anni. Lo strumento televisivo è ormai puramente un mezzo e non più l’habitat in cui adeguarsi per far sopravvivere il proprio prodotto. Si osa, pur rispettando la propria platea. Si moltiplicano gli stili e le suggestioni, si mescolano temi e generi, raggiungendo vette che un tempo sembravano appartenere a galassie lontane lontane.