Breve guida al requel, sempre più presente in cinema e TV
crivere è riscrivere. E riscrivere, riscrivere e riscrivere ancora. C’è chi in questo ha trovato una vera fonte di ispirazione, facendo della destrutturazione dei racconti il proprio fulcro così da poter tratteggiare le storie dei suoi protagonisti, spesso attenendosi alle regole del Viaggio dell’eroe e traendo dalla classicità il massimo spunto per opere (all’apparenza) nuove e originali. Quelle basate su archetipi ancestrali, talmente universali da poter fare da tappeto prima di venir circoscritte nel particolare, racchiudendo i personaggi in contesti d’avventura, horror, di fantascienza, romantici o drammatici, dando ogni volta la sensazione di essere davanti a qualcosa di mai visto, ma dalla matrice conosciuta e primordiale.
C’è però chi, dall’altra parte, ha cominciato ad abusare della scioltezza con cui si poteva prendere da un bacino conosciuto di racconti, non riuscendo più a tirarne fuori la stessa verve e passione, rendendo non più “scrivere è riscrivere” un assunto da dover seguire, ma generando soltanto la “copia di una copia di una copia”. A diventare maestra della ripetizione è una Hollywood che non ricerca più la raffinatezza di una scrittura che sa prendere da prototipi prestabiliti, mutandoli però così da renderli opere inedite. Quello che la casa dei sogni sembra continuare ossessivamente a fare è ora adagiarsi su di un algoritmo prestabilito e stilizzato, che ha trovato nella formula dei sequel e dei reboot la propria attuale forma di espressione. Il riportare dal passato un cinema e una televisione che non avrebbero avuto attinenza nel presente, maneggiandoli affinché la nostalgia e l’affetto facciano il resto, arrivando fino alla soluzione degli ormai frequentissimi requel.
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Con la parola requel si va a indicare quelle opere che al loro interno contengono tanto la natura del sequel, quanto quella del revival. Non solo, quindi, filo diretto con un immaginario che ha segnato un particolare periodo storico o una precisa generazione, e nemmeno un far semplicemente “rivivere” delle vecchie glorie (come mal capitato, ad esempio, con il ritorno di 90210), bensì il mescolamento di una retta che unisce passato e contemporaneo attraverso la volontà di rilanciare un prodotto con i suoi iconici personaggi. Sebbene tutti i sequel hanno al loro interno una natura da revival, visto che conducono nuovamente in scena storie e personaggi con i loro interi franchise, l’anima del requel risiede anche nella distanza e nel trascorrere dei decenni. Gli anni passano per il panorama dello spettacolo, si modificano e trasformano, ma Hollywood e le produzioni hanno capito da tempo che il legame col prodotto e la fidelizzazione del pubblico sono, al momento, una delle poche certezze di entrate in sala, finanziando e sostenendo progetti che ricalcano i cult di ieri, cercando il giusto escamotage narrativo per inserirli nel tessuto moderno.
Non a caso, solo tra il 2021 e 2022, i titoli di maggior slancio nei botteghini o, comunque, nella percezione dell’universo cinematografico, sono proprio quei requel che teorizzano il procedimento con cui sono stati assemblati e ne ricavano il proprio racconto. Ed è un film stesso che ne ha analizzato le dinamiche e la composizione, facendo della propria sceneggiatura una riflessione su cosa stava andando mettendo in pratica, stilando il Manifesto di questa scuola di pensiero che ha invaso i corridoi hollywoodiani. È Scream 5 che occupa minuti della propria storia a parlare direttamente con lo spettatore tramite la figura dei suoi nuovi assassini. Che li mette di fronte agli altri personaggi illustrando per filo e per segno quale fosse il loro piano sanguinoso dietro all’uccisione delle vittime, creato partendo dalla volontà di mescolare insieme il cuore pulsante del franchise e, insieme, ciò che di nuovo potrebbe offrire.
Non è affatto un caso che sia una saga che da sempre riflette sul cinema a rendersi fiume in piena sulle contemporanee tecniche di costruzione della sceneggiatura, tratteggiando per filo e per segno il procedimento che avviene nella writer’s room. Il personaggio di Amber (Mikey Madison), nel pieno del proprio delirio tanto omicida quanto, per l’appunto, da fan, espone un piano folle eppure all’apparenza efficace per risollevare le sorti della serie dei film Stab, franchising del mondo di Scream che va di pari passo con le sorti dei cittadini di Woodsboro. La ragazza racconta che il suo piano assieme al proprio complice è quello di coinvolge tanto la novità di inediti personaggi, quanto un collegamento, seppur laterale, con riferimenti agli anni passati. Stessa identica cosa che fa Scream 5 (che è infatti riflesso della saga interna Stab), che non vede solamente Ghostface come elemento costante del filone horror, bensì la parentela della protagonista Samantha (Melissa Barrera) con Billy Loomis e quella dei gemelli Meeks con il loro zio Randy, tutti personaggi del film del 1996.
Un collegamento diretto, ma parziale nel quadro più grande degli assassini. La consapevolezza di dover dare qualcosa di nuovo ai fan, “ricattandoli” però con un’unione a stretto giro con l’opera da cui tutto ha avuto inizio. La necessità di dover andare avanti cambiando volti e storie per non dare l’impressione di rimanere immobili, affiancata da quell’effetto del sentirsi a casa come diceva emozionato Ian Solo al compagno Chewbecca in Star Wars – Il risveglio della forza. E proprio su quella frase vanno modellandosi le produzioni correnti che hanno il bisogno di far “sentire a casa” gli spettatori, i quali credono di bramare qualcosa di mai visto, ma sono i primi a non resistere al ritorno dei loro personaggi preferiti. Che possono eludere il loro desiderio di qualcosa di nuovo facendo in modo che pur rimanendo il setting intorno inedito, ci siano comunque componenti originarie poste come pilastri inamovibili.
Un principio applicato anche alle saghe già riavviate con il metodo dei reboot, ma che sulla scia del maggior grado di apprezzamento decidono comunque di inserire al proprio interno un aggancio sicuro con cui non perdere il pubblico, come il Jurassic World: Dominio che al suo terzo ritorno chiama al rapporto il primo cast di Jurassic Park composto da Sam Neill, Laura Dern e Jeff Goldblum. Asso da calare per assicurarsi un rientro economico e di risonanza che non potrà che andare a colpire lì dove i fan sono più scoperti, i quali dovranno scendere a patti con il gradimento o meno del franchise dei dinosauri con Chris Pratt e Bryce Dallas Howard partito nel 2015, cadendo nei meandri dell’affezione e della rimembranza.
Le tecniche possono perciò risultare varie, ma l’obiettivo da raggiungere è sempre il medesimo. Può trattarsi di Ghostbusters: Legacy, la cui eredità risiede anche in questo caso in un legame di sangue. Nella promessa – anche se nelle ultime sequenze del film – del ritorno dei primi Acchiappafantasmi e nello stupore di reinserirli tutti in un solo racconto. Con protagonisti due giovani che si approcciano a una realtà sovrannaturale a loro inizialmente sconosciuta, è poi la nostalgia l’arma che viene puntata contro gli spettatori e che permette alla narrazione di presentarsi come recente, pur avendo in verità dietro un bagaglio di strumenti datati ma sorprendentemente utili.
E se Ghostbusters: Legacy è il brevetto standard del requel, meno si rivela esserlo un Matrix Resurrections che destruttura il proprio universo (Matrix in sé), andando anche lui ad usufruire della propria struttura cervellotica per raccontarsi direttamente al pubblico. Vedendo soprattutto nella prima parte del film come si mette insieme il “videogioco” Matrix e, a propria volta, andando a spiegare come è possibile il ritorno del franchise con Keanu Reeves a quasi vent’anni di distanza. Esattamente quello che Cip e Ciop Agenti Speciali fa invece con la bolla dello show business, aggiungendo l’evoluzione di un’animazione che non può restare a guardare mentre il tempo scorre, facendo di uno scoiattolino la versione in 2D e, dell’altro, il suo sviluppo in CGI.
Anche il mito, il quale per antonomasia rimane fisso nella propria ideologia, deve dunque obbligatoriamente rimodellarsi per continuare a sopravvivere, se vuole farlo nel presente. Così dal 1986 Tom Cruise accetta di compiere un salto per un requel che riporta in auge il cult Top Gun e, insieme, inserisce in questo ritorno delle unità che facevano parte del racconto originale per vederle rispecchiarsi nel sequel. Top Gun: Maverick è l’apoteosi del blockbuster che fa librare il protagonista Pete “Maverick” Mitchell in un cielo in cui deve accettare di essere “l’ultimo della sua specie” e che dimostra come di lui, in fondo, abbiamo ancora bisogno.
Cerca di non essere più il miglior pilota di sempre, ma di rimanere con i piedi piantati a terra quando si tratta di fare da padre al figlio del compianto amico Goose, mentre l’epoca del passato entra prepotentemente nel presente e si mette in discussione, così come i giovani fanno con la loro sicurezza e spavalderia. E non è un caso che è un vecchio F-14 a salvare i protagonisti. La “preistoria”, come viene definita dagli alunni di Maverick, che ha ancora qualcosa da insegnare. Senza cui non riusciremmo a toccare le nuvole. Tecnologico o metaforico che sia, è questo lo scheletro senza cui i racconti, ad oggi, sembrano non riuscire a camminare. Figurarsi a saper volare per arrivare vicino al sole.