Resident Evil VIllage: l’action horror tra tradizione e modernità di Capcom
Ci sono diversi motivi per cui ho temuto fino all’ultimo un passo falso da parte di Capcom con il suo Resident Evil Village, e tutti legati alla tanto paventa deriva action. Grazie alle sapienti mani di Nakanishi, con Resident Evil 7 si riuscì a trovare dopo tanti anni la quadra giusta per un rinnovato ritorno alle origini di una serie nata con un preciso mood compassato, incredibilmente sul pezzo per quanto riguardava capacità di destabilizzare il giocatore attraverso la vulnerabilità del suo avatar in un contesto horror claustrofobico e intrigante. Resident Evil 7 era molto curato sul piano artistico e capace di mettere in primo piano l’esplorazione attraverso tutta una serie di istanze vecchie e nuove basate sul concetto di “sopravvivenza”. Una nuova identità per il brand ma allo stesso tempo il ritorno di quell’innegabile feeling intimo e terrificante che il gioco creava con i giocatori nelle sue prime iterazioni.
Non è un caso che lo stesso Nakanishi fu al timone di Resident Evil Revelation e seppur costretto a seguire la politica di mercato di quegli anni che voleva i capitoli della serie ben più “movimentati” dei classici, riuscì con l’avventura in alto mare di Jill ad avvicinarsi in qualche modo al flavour degli episodi più amati. L’uomo giusto al momento giusto, che riportò appunto la serie dove i fan avevano chiesto a gran voce. Con Village però tutto lasciava presagire un passo indietro. Niente più Nakanishi, nemmeno Kadoi o Anpo che con il Remake del 2 avevano fatto un lavoro magistrale. Tutto affidato all’esordiente Morimasa Sato, tutto pubblicizzato ed esibito come il ritorno di un’altra tra le varie personalità della schizofrenica saga Resident Evil, quella più rinunciataria sul piano horror e votata interamente all’azione più stordente.
Una deriva appartenente a capitoli della saga comunque divertenti ma che nessuno direbbe mai tra i più riusciti in assoluto. E poco importavano le mille ispirazioni al virtuoso Resident Evil 4 odorate in fase di marketing e più che confermate pad alla mano. Impossibile –mi dicevo- veder riproposto l’equilibrio perfetto, certosino, intoccabile della formula del quarto capitolo di Mikami, in grado di imprimere vagonate di atmosfera e tensione in un gameplay smaccatamente shooter, grazie a mille espedienti sonori, visivi, e ludici. Eppure ve lo dico già Resident Evil Village, seppur forse in maniera meno omogenea, riesce nell’intento. Village in un certo senso è un “minestrone” di diverse atmosfere, e diversi ritmi di gioco. Ma non un minestrone anonimo e inconsistente. Tutt’altro.
E come per Resident Evil 2 Remake, tutto questo è particolarmente evidente giocando a difficoltà estrema, modalità in cui il gioco esprime tutte le sue reali potenzialità, in cui acquista un valore inestimabile cercare ogni proiettile, ogni oggetto utile alla fondamentale possibilità di creare le risorse necessarie per tirare avanti di volta in volta. In Village il concetto più arcade di gioco survivor, in realtà presente nel DNA della saga dall’inizio, viene applicato in contesti totalmente nuovi che pescano dall’immaginario del cinema e della letteratura horror dell’ultimo secolo un sacco di idee per scenari e situazioni. I lycan sono un’ottima aggiunta, sono ferali, aggressivi, incutono timore, sono diversi da quanto visto finora e funzionano alla grande come variabile destabilizzante e imprevedibile lungo la lunga esplorazione del villaggio che non rinuncia a niente di quelli che sono gli stilemi ludici della serie.
Resident Evil Village è un gioco densissimo: enigmi, segreti, tesori, upgrade, talvolta anche mappe da studiare a tavolino in location più articolate come il castello di Dimitrescu (ma non solo) e innumerevoli situazioni pericolose in cui le imboscate dei nostri uomini lupo sono sempre messe in scena in maniera efficace tenendo alta la tensione. Il level design è molto efficace nel favorire questo cocktail di ansia, adrenalina e divertimento.
Ethan è molto resistente, in maniera surreale talvolta, e la sua propensione a ficcarsi in situazioni che testano la sua soglia del dolore oltre ogni limite è un tocco di classe per gli amanti del genere, ma rimane un umano in mezzo a bestialità dall’agilità sovraumana. Ecco quindi che barricare un portone con una libreria, sfuggire da una finestra mentre dall’altro lato della stanza i lycan ne sfondano un’altra, sgattaiolare sotto un passaggio stretto, compiacersi di quella mina o quella preziosa granata innescata nel punto giusto, o ancora di un headshot particolarmente rischioso sparato a bruciapelo nel marasma, riporta alla mente il motivo per cui Resident Evil 4 è cosi bello, e dimostra come Village abbia preso da esso ben più di marginali elementi caratteristici come la valigia per gli oggetti, il mercante sopra le righe, o più banalmente una certa somiglianza paesaggistica.
Nossignore Village ripropone in maniera convincente quel connubio tra azione shooter e dinamiche di sopravvivenza, che rendono il coinvolgimento per la vena grottesca ed horror del titolo qualcosa di dinamico, interattivo, e non scriptato. Giuocando ad estremo le munizioni non mancano, ma non vanno sprecate, l’arsenale può essere ricco, ma il nemico rimane sempre temibile. E ogni volta che il senso di familiarità rischia di insinuarsi troppo nel giocatore, Village ci ficca dentro una situazione totalmente diversa servendosi dei suoi 4 Lord principali (tutti ottimamente caratterizzati) e del loro habitat sempre diverso, sperimentando soluzioni estetiche e ludiche che in qualche modo, seppur non rivoluzionano mai un gameplay cementato nel codice da svariati capitoli della saga, danno comunque interpretazioni diverse del genere horror, passando da quello più carnale, viscerale gore, a quello più esoterico, psicologico, fino a derive addirittura da cyberpunk body horror.
Certo, tutto è filtrato sempre dallo stile di Resident Evil, che non si spinge mai troppo in là e preferisce non estremizzare eccessivamente l’orrore in virtù di un sottile mood surreale e sopra le righe. In tal senso, l’esperienza raggiunge raramente i picchi di Resident Evil 7 per quel che riguarda la tensione. Ma non mancano zone terrificanti e claustrofobiche, non mancano sezioni che giocano molto sull’oscurità e l’ignoto, non manca il brivido lungo la schiena che ti corre quando sei braccato da entità letali, come Dimitrescu e la sua progenie durante l’esplorazione del suo castello, una delle ambientazioni sicuramente più articolate e affascinati del pacchetto. Non manca in generale la direzione artistica capace di presentare, spesso attraverso regia e frangente narrativo, (nonché banalmente un comparto grafico convincente) ogni nuovo scenario come un vero e proprio inferno in terra con cui dovremmo fare i conti nelle ore successive.
Ovviamente tante istanze eterogenee devono essere compatibili con un prodotto che sia invece complessivamente omogeneo nell’esperienza. Questo significa che in ogni caso Resident Evil Village rimane un survival horror arcade action, la nostra deambulazione è inferiore alle bestie che ci assalgono ma è più rapida del normale, le bocche di fuoco si scaricano in fretta ma sono numerose, l’energia ha bisogno di medikit per ripristinarsi ma sotto una certa soglia si rigenera. Tutto questo significa, di nuovo, che il gioco è molto più improntato al lato offensivo che difensivo del gameplay. Quindi avere “paura” è più difficile, e ove la nostra vulnerabilità è arbitrariamente alzata in maniera anomala, con scenari che con qualche espediente ci disarmano o ci pongono di fronte a nemici invincibili e mortali, essa torna a fare capolino come “ai vecchi tempi” solo per brevi parentesi, non potendo scardinare le fondamenta della formula village.
Ma si tratta sempre di parentesi entusiasmanti che mandano in brodo di giuggiole gli amanti del genere horror. Menzione d’onore poi alle boss fight principali, (ma anche alcune secondarie) sempre divertentissime e ben diversificata tra loro, capaci talvolta di rendere protagonista l’ambiente circostante.
Village aspira alla grazia del quarto capitolo celando una ben più sottile volontà di intenti che abbiamo ravvisato in Resident Evil 6 anni fa. Resident Evil Village infatti ha tanta carne al fuoco, e non nasconde la volontà di accontentare tanti palati diversi, conscio di essere l’ultimo esponente che negli anni ha presentato sul piatto dei giocatori molti sapori diversi e spesso contrastanti tra loro.
Il punto è che lo fa in maniera molto più puntuale e focalizzata rispetto a Resident Evil 6, e anche intelligente oserei dire, consapevole che se deve far sparare molto e divertire il giocatore lo deve fare bene, e se vuole creare altri tipi di coinvolgimento più emotivi e sottopelle deve farlo con altrettanta convinzione. E ci riesce, Village è un prodotto che si sviluppa davanti agli occhi del giocatore con la sua coerenza stilistica e ludica. Una coerenza che si estende anche al lato narrativo, in grado di tirare le fila sulla saga di Ethan e su tutto il corollario di criminosi eventi parascientifici che aveva aperto con il settimo capitolo, trovando anche un anello di congiunzione con le origini della serie, dando l’impressione in fine di essere un tassello meno estemporaneo di quello che sembrava nel generale tessuto narrativo imbastito dal 1996 ad oggi.
Come poi ce ne fosse realmente bisogno di una prova di “inclusività tematica”. Resident Evil 7, cosi come Village, nel bene e nel male sono Resident Evil a tutti gli effetti, da sempre. Con i propri topoi ludonarrativi, talvolta più o meno esasperati a seconda dei capitoli, ma immancabili (come il classico epilogo dirompente e per certi versi, liberatorio).
Cosa distingue a questo punto un ottimo Resident Evil da uno meno riuscito? L’ispirazione, la personalità, la cura ai dettagli, la capacità di creare una ricetta dai sapori bilanciati, che essa abbia come ingrediente principale l’azione piuttosto che l’esplorazione o l’elemento survivor. Qualunque sia l’ingrediente portante infatti, ha bisogno di essere esaltato, equilibrato, contrastato, rafforzato ed accompagnato da tantissimi altri per valorizzarlo al meglio. E Village possiede tutto questo, prendendo il meglio di quanto ha offerto la saga in tutte le sue derive. Facendo questo addirittura nelle sue modalità extra, visto che i Mercenari è un divertente incrocio di meccaniche della classica modalità bonus vista in tanti capitoli della serie e la modalità Raid introdotta da Revelations.
Eppure, non siamo di fronte al Resident Evil perfetto, la prospettiva del bicchiere mezzo vuoto, è sempre dietro l’angolo quando si cerca di avere una visione analitica e oggettiva (che però poco importa se ci si innamora semplicemente del gioco e ci si diverte, cosa che ve lo dico francamente, mi è successa). Inevitabilmente un ottovolante del genere come si è dimostrato Village nelle sue 14 ore impiegate a sviscerarlo, qualche volta inciampa, quantomeno solo parzialmente, nell’antipatico concetto che “il troppo stroppia”. Se i Resident Evil migliori in assoluto sono quelli più focalizzati e meno propensi ad estendere il proprio territorio in termini di level e game design, un motivo c’è. Più infili roba, più ti allontani dalla rotondità perfetta. In Village ci sono momenti alti e momenti più bassini, scelte artistiche indovinatissime e altre meno suggestive, il livello rimane mediamente alto sempre (se no non avrei incensato il gioco fino ad ora), ma rimane una generale impressione che per ovvi limiti di tempo e risorse nello sviluppo del titolo da parte di Capcom, quasi ogni macro location non esprima completamente tutto il suo potenziale.
Da un lato c’è una certa sinteticità nella progressione che fa benissimo al ritmo e alla varietà dell’esperienza, dall’altro, è un peccato non ravvisare picchi di reale eccellenza in nessuna delle invenzioni ambientali di questo Village. Poco male se si considera che guardando il viaggio da un po’ più distante e nel complesso, quell’eccellenza si fa un po’ più concreta. C’è però un problema ben più “terra terra” e prettamente tecnico legato all’intelligenza artificiale dei nemici che limita un po’ troppo il loro agro nelle zone che pattugliano o in cui compaiono.
Se da un lato è spesso giustificato da banali quanto legittime scelte di gameplay, dall’altro risulta un limite fastidioso e troppo evidente in tutte quelle situazioni in cui siamo puntati fino ad un certo punto dello scenario oltre il quale i lycan (o altri esseri del nutrito bestiario di Village) si girano di 180 gradi ignorandoci bellamente non potendo sconfinare. Gioie e dolori di un gioco open-map articolato il quale presenta una struttura su cui forse Capcom non è abituata a lavorare all’interno delle dinamiche tipiche di questa serie di giochi. In sostanza però, nulla che comprometta eccessivamente un’esperienza forse non memorabile sotto tutti i punti di vista, (per certi versi il settimo capitolo si avvicinava maggiormente alla rotondità di cui sopra) ma senza dubbio degna di chiamarsi Resident Evil a testa alta.