Un volo d’uccello sulle suggestioni di Archive 81 – Universi paralleli, nuova serie TV su Netflix
uando è uscita lo scorso 14 gennaio su Netflix, nel parlare di Archive 81 – Universi paralleli qualcuno ha tirato fuori The Empty Man. Cos’è The Empty Man? Un film horror che dura parecchio, quasi due ore e un quarto, un’opera sbilanciata e anarcoide che prende un po’ tutto dalle intuizioni dell’horror contemporaneo e le usa per imboccare più traiettorie contemporaneamente. Parte sulle orme del folklore e delle credenze locali, svolta nell’occultismo religioso e infine chiude sulle note abissali del cosmo. Nel mezzo si perde un po’ per strada il punto narrativo, ma cambia tono con così tanta naturalezza da non smarrire nemmeno per un istante il brivido che è tutto nervo e pelle d’oca. Lo scrive e dirige David Prior nel 2020, lo trovate comodamente dal vostro divano pure su Disney Plus, quindi guardatelo che ne vale la pena.
Bene, Archive 81 in qualche maniera ne intercetta il mood, il suo incedere in suggestioni differenti, è vero. Viaggia su quei toni dove il male non puzza di zolfo e dove non è ombra assassina, ma piuttosto forma indecifrabile, incontenibile, non rappresentabile. Ci assomiglia soprattutto perché decide di mettere nel calderone una sfumatura d’ogni cosa, vestendosi di un mystery-horror dove ordini di streghe fronteggiano sette occulte il cui fine ultimo è evocare potenti entità da un’altra dimensione accessibile solamente durante il passaggio di una cometa visibile dalla Terra.
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Messa così sembra una matassa indistricabile, e invece la serie creata da Rebecca Sonnenshine ha le idee molto chiare su cosa vuole fare e sul come vuole farlo. A partire dal suo allineamento nei confronti dello spettatore e degli eventi che narra, anzi assembla pezzo dopo pezzo. Li assembla per davvero, ricostruisce un puzzle di testimonianze attraverso lo scomodo lavoro al quale è chiamato Dan (Mamoudou Athie), relegato in una misteriosa struttura dove deve convertire in digitale vecchi nastri di videocassette registrati dalla giovane studentessa Melody (Dina Shihabi).
Pare quasi una delicata operazione di found footage, di creazione della storia stessa sotto le mani di un operatore che dona senso e significato nell’azione di convertire, ordinare, aggiungere un nuovo elemento alla striscia degli eventi. Archive 81 è stimolante perché pare ragionare su più fronti differenti, o meglio fa la spola tra piani dentro e fuori la sua narrazione. Da una parte ci sono le meticolose operazioni da camera oscura, una sovrastruttura dove la retromania incrocia il feticismo per l’analogico e raccoglie assieme le cellule contenenti ombre, tracce, le superstizioni impresse su pellicola e lì rimaste innocue ad appassire. L’atto del collezionismo, di un attaccamento e di una conservazione tangibile della memoria inteso come pro-attivo e non sterile solo se messo in relazione alla volontà di creazione di nuovo contenuto tramite le nuove forme dell’espressione artistica, e di conseguenza tecnologica.
Dall’altra parte della serie, infatti, le numerosissime soggettive e semi-soggettive di Dan – un demiurgo-archivista – arrivano a suscitarne rinnovate emozioni (terrore, gioia, stupore) nel momento in cui l’analogico, ovvero il forziere di un tesoro culturale forse inesauribile, non collide ma si risolve nel passaggio alla conversione tecnologica. Qua Archive 81 gioca con estrema astuzia nello sviluppare l’elemento orrorifico negli interstizi della smaterializzazione, dove le ombre sigillate sull’oggetto fisico arrivano ad animarsi nuovamente nel digitale e ad aprire le porte a nuovi demoni (in qualche maniera e con le dovute distanze tutto questo ricorda una piccola perla del mondo videoludico indipendente, Oxenfree).
Insomma, Archive 81 sembra andare a suggerire come le nuove traiettorie del presente debbano necessariamente passare per l’esperienza e gli archetipi del passato e, allo stesso tempo, come il culto dell’analogico sia poco più di una bolla di sapone se non messo in dialogo con le implicazioni dell’oggi. E se vogliamo suggerisce, quindi, come l’esperienza del catalogo e dell’algoritmo che smista e indirizza sia un antesignano della costruzione della nuova esperienza culturale contemporanea. Un pensiero non così azzardato e anzi sempre di più sotto la luce del sole, ma non bisogna mai dimenticare che dietro discorsi come questi c’è il colosso della grande N rossa e quindi il cortocircuito è per alcuni versi sempre dietro l’angolo, il terreno sempre scivoloso e l’iperinterpretazione un’arma a doppio taglio.
I propositi sono lucidi e forse anche entusiasmanti, in parte raccolti effettivamente da nuovi sentieri che proprio in chiave horror vedono autori come Mike Flanagan esplorare e sperimentare con apprezzatissimi prodotti quali The Haunting o la recente Midnight Mass (che del classico fanno tesoro eccome). Chissà che le creature che si muovono sugli schermi di Archive 81 non facciano però anche da ennesimo monito sullo statuto delle immagini dell’era che viviamo.
Una discussione, questa, complessa e radicata nella percezione quotidiana di ciò che ci circonda, che eppure la serie infiamma con una scintilla nell’inquadratura finale dove riflette su un vetro – uno schermo! – una delle vertigini più spaventose del XXI secolo tesa tra la spettacolarizzazione e il turning point epocale: le Torri gemelle. Sicuramente non è tutto ora quel che luccica e di certo Archive 81 ha i propri punti deboli e di cedimento nella capacità di andare a convogliare nella chiusura l’horror vacui di cui si incarica di parlare, ma di certo resta stimolante la maniera con cui riflette (e fa riflettere) sulla visione, sullo storytelling e il generare nuovi pericolosi idoli.