Mors tua, vita mea
Il primo film italiano originale Netflix (sulla piattaforma di streaming dal 4 maggio) è Rimetti a noi i nostri debiti, affidato alla direzione di Antonio Morabito e con Marco Giallini e Claudio Santamaria protagonisti.
La storia di svolge a Roma, partendo dai disagi di Guido (Claudio Santamaria), un ex tecnico informatico ora magazziniere in una fabbrica, che – già sommerso dai debiti – perde nuovamente il lavoro, trovandosi sotto scacco dei creditori. Il suo piano per la sopravvivenza prevede pertanto un compromesso con la società che gli ha prestato i soldi, per la quale lavorerà gratis nel recupero crediti, affiancato da Franco (Marco Giallini), un vero squalo del settore che insegnerà a Guido come muoversi in queste pericolose acque.
L’idea di base obiettivamente funziona, quantomeno nel catturare l’interesse dello spettatore, nonostante siamo costretti a sorvolare sulla credibilità di alcune sequenze, ma il confronto tra due personalità così diverse, come quella di Franco e quella di Guido (o Willy, come lo chiama il collega) è senza dubbio l’elemento di maggiore attrattiva, soprattutto per i meriti di Marco Giallini, che ci regala l’ennesima grande interpretazione, con un personaggio forse sempre troppo simile ai suoi standard ma che sa comunicare bene al pubblico le emozioni che il film è in grado di donare.
Troppo presto tuttavia Rimetti a noi i nostri debiti perde d’intensità e di personalità.
Salvo qualche picco iniziale, in cui la particolare ma brevissima “formazione professionale” di Guido e il comportamento bieco e scorretto di Franco con il prossimo tengono sull’attenti lo spettatore, per il resto il confronto caratteriale tra i due personaggi stanca in fretta e ci abbandona in balia di una narrazione non sufficientemente fluida.
Il modo repentino in cui Morabito ci mostra il cambiamento di Guido, da burbero col cuore tenero (sai che novità, per un personaggio di Santamaria…) a spietato asso del recupero crediti, nonché arrogante e maleducato con tutti, ci lascia molti dubbi ma soprattutto non ci consente di apprezzare la vivacità del momento di passaggio, che solitamente è il migliore della narrazione.
Questo è un vero peccato perché la caratterizzazione dei personaggi, di per sé, aveva preso sentiero giusto. I loro tormenti, le notti insonni di Franco, affacciato a fumare mentre osserva pensieroso i tetti di Roma, e quelle di Guido, nell’oscurità della sua stanza priva di corrente o al bar sotto casa, a bere whisky, delineano la loro personalità ed entrambi si trovano di fronte ai fantasmi che albergano nelle loro menti, ai dubbi dell’uno e alle frustrazioni dell’altro. Ognuno fa quello che deve per raggiungere il proprio obiettivo, che nei fatti è comunque il medesimo: sopravvivere, in un modo di “morti viventi”.
Se Franco accetta il “mors tua vita mea” con una consapevolezza data probabilmente dai tanti anni di lavoro, Guido non è pronto ed ha numerosi cedimenti, nonostante – come abbiamo accennato prima – ottenga buoni risultati sin da subito, plasmando il suo carattere in modo repentino.
Coloro che invece non sono caratterizzati per nulla sono i personaggi secondari, come il folle e macchiettistico professore (Jerzy Stuhr), vicino di casa di Guido o la barista Rina (Flonja Kodheli), scialba e piatta, incapace di rendere frizzante la sottotrama legata al personaggio di Santamaria.
Sullo sfondo compare, in maniera pressante e cupa, una città che vive quotidianamente il dramma della crisi, del dover mantenere alcuni standard di vita troppo alti per la piega che ha preso il nostro paese. È bravo qui Morabito, anche attraverso l’accurata fotografia di Duccio Cimatti, a rappresentare quel sottobosco patinato, i campi da golf, i ristoranti stellati, quegli ambienti che fanno gola a tutti e dove tutti vorrebbero arrivare, indebitandosi, umiliandosi, diventando cannibali, sposando quel “mors tua, vita mea” a cui accennavamo prima; un’ abitudine sulla quale glissiamo, tappandoci gli occhi e facendo spallucce.
Eppure, se Morabito è un abile colorista e un bravo disegnatore, non si rivela altrettanto perfetto nella scrittura. Il suo film sembra infatti cedere improvvisamente, ci fa arrivare sin troppo presto ad una morale ovvia e condivisa ma che giunge al termine di una narrazione eccessivamente veloce e lineare, e soprattutto priva di guizzi. Si aprono diverse domande a cui Morabito non sa o non vuole dare una vera e propria risposta, atteggiamento forse in linea con le sfumature cupe e negative del dramma che rappresenta, ma il problema principale dell’opera è la netta mancanza di una chiusura. La direzione che prende è un viaggio a velocità massima contro un muro che si staglia improvvisamente davanti ai nostri occhi, senza che il regista provi ad evitare lo schianto.
Le gag, divertenti e audaci restano impresse, così come la rappresentazione dello sfondo sul quale si anima il racconto e l’ottima interpretazione dei protagonisti (soprattutto Giallini), ma tutto pare rimanere sospeso, ammantato da un’aerea di negatività che diviene l’unico vero pretesto della narrazione.
Verdetto
Rimetti a noi i nostri debiti è il primo film italiano targato Netflix. Con un’idea di base apparentemente buona, e una partenza frizzante, dettata dall’ottima interpretazione di Giallini e da quella compassata ma efficace di Santamaria, la pellicola pare incanalarsi sui giusti binari, tuttavia ben presto questa strada si rivela un vicolo cieco in cui il regista Morabito agisce con troppa fretta verso un obiettivo che non ci è peraltro molto chiaro. Un vero peccato, considerando il modo invece sapiente in cui cerca di caratterizzare i personaggi principali e il contesto in cui operano.
Manca la vera sostanza, però, e si ha la netta sensazione di assistere ad un prodotto incompleto.