Roar è la nuova serie tv antologica tratta dai racconti di Cecelia Ahern targata Apple, un prodotto raffinato e, di conseguenza, complesso, disponibile dal 15 aprile 2022
tto donne che affrontano otto mondi diversi, con otto condizioni famigliari differenti e una strisciante voglia di urlare. Urlare per farsi valere, per dire no, sì, perché. Roar è difficile da spiegare, perché è tante, troppe cose tutte insieme. Di una cosa, al momento, sembra ne siano certi tutti: parla di femminismo, dell’essenza delle donne.
Sarà per il fatto che le protagoniste sono tutte donne, con i loro essere madri, essere figlie, essere donne in carriera, e tanto altro. Donna moglie, donna/ragazza costretta, di colpo, a crescere, e anche donna di colore che affronta in ogni singolo momento della sua vita il razzismo imperante nelle società.
O anche perché è fatto da donne. La già citata autrice della raccolta di racconti Roar e le creatrici Liz Flahivee Carly Mensch, con una produzione tutta al femminile che annovera anche una delle protagoniste degli episodi, Nicole Kidman. Già da questi primi indizi si sente che Roar sta facendo di tutto per rendersi speciale, al punto, però, da emarginarsi completamente.
Ogni episodio di Roar ha, inoltre, un fondamento surreale, quasi onirico. Tra donne che sembrano diventare invisibili, che si ritrovano marchiate sulla pelle per i morsi dei sensi di colpa, che riescono a vivere, come in una favola, su uno scaffale, per volere di un fantomatico principe. Delle bellissime allegorie, non c’è che dire: pungenti metafore che fanno soffrire, a pensare a tutti quei tratti simili alla nostra società. Ma sono solo piccoli riferimenti.
La quasi totalità di distacco dal mondo reale continua a perseguire un filone che si basa solo sul fare inorridire tramite la fantasia e la fantascienza senza dare possibilità di svolta nel futuro. Tutte quelle donne hanno quella condizione, e, di base, non riescono a uscirne. Serve sempre l’aiuto di qualcun altro per poterlo fare. Ed è brutto dirlo, ma in tutto questo femminismo, in pochi casi questi aiutanti sono donne.
Nel primo episodio, La donna che scompariva, Wanda – Issa Rae è una scrittrice nera, chiamata a Hollywood per creare un prodotto dal suo ultimo romanzo autobiografico. Tende a scomparire dalla vista dei produttori bianchi, rappresentati come insensibili interessati solo al successo. Le sue volontà non valgono, non sono ascoltate. Tutta la sua vita sarà legata a una creazione di realtà aumentata che rappresenterà gli episodi di razzismo subiti dal suo papà. Lei comincerà a esistere solo tramite AR glasses, che hanno proprio lei come punto di vista. Lei fugge, è terrorizzata. Ad aiutarla ci sta solo un altro ragazzo nero, sempre parte della produzione che, alla fine, le ha fatto solo da autista. Solo dopo un suo consiglio lei avrà la forza per affrontare i magnati di Hollywood.
È davvero questo ciò che si intende come femminismo? Si è solo al primo episodio, e la convinzione sembra già vacillare.
Nicole Kidman è protagonista di La donna che mangiava fotografie, e cerca di aiutare la madre malata di demenza senile accogliendola a casa sua. Mangia fotografie perché riesce a rivivere i ricordi che, prima o poi, la madre dimenticherà. Quando prova a parlarne col marito, sfogandosi, lui, senza alcun motivo, cambia argomento.
La donna che era tenuta su uno scaffale è una toccante critica all’oggettivazione della donna, con un’aura favolistica condita addirittura dall’iniziale “C’era una volta…”, in cui Amelia, Betty Gilpin, è talmente amata da un uomo che quello vuole ammirarla ogni giorno e averla davanti a sé, su uno scaffale. Lei non è molto convinta, ma accetta. E resiste per diversi anni, sotto l’ala protettiva del marito, fin quando questo non le dà più attenzioni. Solo allora lei scende, e sembra riprendersi in mano la sua vita. Va in città, sale su una vespa, balla in spiaggia come in un musical. E poi il mare la risveglia da questo sogno. La fine è emblematica: apre una nuova boutique, l’ha aperta proprio lei, e ne è orgogliosa. Ma è rimasta su uno scaffale. Non davanti al suo uomo, ma è comunque uno scaffale.
Cosa significa questo? Che è stata lei a decidere di rimanere su uno scaffale? O, forse, che quello scaffale le ha dato una sicurezza tale da non saperne più fare a meno? Niente, tutto questo non convince, non sotto l’ottica femminista.
Ma non è tutto. Cynthia Erivo è La donna con i morsi sulla pelle, quelli dei sensi di colpa, li ha per essere una madre ma anche una donna in carriera, con suo marito a tenere i figli. Il morso più grande arriva quando lui le rinfaccia di essere a lavoro piuttosto che aiutarlo a curare il figlio neonato con la febbre. Qui sono altre mamme a consolarla, ed è, in tutto ciò, un confronto bellissimo. Ma non si sa se lei sarà in grado di essere sé stessa. Lei, semplicemente, alla fine si riappacifica col marito.
Quello più triste, però, è La donna che ha restituito suo marito. Grazie a una garanzia, i mariti possono essere rimandati indietro. E Anu – Meera Syal MBE lo fa: lui è troppo egoista, non la ama, non ha alcuna cura di sé e della moglie. Quindi lei ne prova uno, poi un altro, ma nessuno la convince. Poi, vede che la sua vicina ha acquistato il suo “ex” marito, e la protagonista si accorge che lui è cambiato. Lo incontra di nuovo al negozio, e se lo riprende. Nel senso che commette un furto. E, alla fine, forse il gesto più rivoluzionario è quello. È tornata da lui, e questo basta.
L’assurdità tocca il culmine con La donna nutrita da un’anatra, perché qui si realizza una storia d’amore tossico tra una donna e un’anatra parlante. Lui è l’unico che la capisce, all’inizio, e Elisa, Merritt Wever, sente di amarlo. Ma, ricordiamolo, lui è un animale, ed è cattivo. La porta a isolarsi completamente da quella che era la sua vita, in sostanza sua sorella e un test per entrare a medicina. Lei chiama un’associazione di volontariato per la salvaguardia degli animali per portarlo via. E a farlo è, ahimè, un uomo.
Ne La donna che ha risolto il suo omicidio abbiamo un piccolo sospiro di sollievo. In questo chiarissimo riferimento a Ghost, lo spirito di una ragazza uccisa vuole capire com’è morta, e vuole aiutare le indagini, gestite da due detective uomini e un’agente donna dell’ufficio dello sceriffo. Beckie (Alison Brie) riesce a scoprire di essere stata uccisa dal fratello adolescente della sua migliore amica, amante dei videogame online ed entrato in un giro orribile, fatto di misoginia e odio. La cosa bella è che lei si fa aiutare dall’agente, e non dai detective, che sembrano non essere recettivi ai suoi indizi. Questo barlume di rivendicazione sfuma quasi alla fine, quando la ragazza, poco prima di salire in cielo, tenta ancora di avere un contatto col più avvenente degli agenti.
Anche nell’ultimo episodio, con ambientazione western, c’è qualcosa che non quadra. La donna che amava i cavalli per vendicare l’omicidio di suo padre si finge un uomo. Una sorta di Mulan cavallerizza che, invece di essere determinata nella vendetta, si piega alla volontà della figlia del pastore, sua conoscente, nel non macchiarsi di un delitto e recuperare solo il cavallo del padre. Che non sia la figlia del pastore la vera protagonista…?
Da tempo cinema e serie tv stanno cercando il linguaggio giusto per rappresentare al meglio tematiche così delicate. Si rischia spesso di cadere nelle solite logiche che tendono a mettere la donna in secondo piano, come non capace di agire per proprio volere o perché, semplicemente, non le è concesso farlo. Roar è un altro tentativo di scardinare queste pratiche, ma su molti fronti, purtroppo, è fallace.
Produzione e cast tutto al femminile non basta. Essere madre, figlia, amica, compagna, moglie, è solo la base da cui partire per esprimere al meglio una complessità che, sì, può avere tratti favolistici, ma non deve rimanere rinchiusa in una fantasia di poco più di trenta minuti.
Roar, ci hai provato. Essere donna è vivere tutte queste cose, è vero. Ma la vera rivoluzione ancora non l’avete fatta. Solo quando anche il minimo riferimento alla dipendenza dall’uomo – meglio sottolinearlo: la dipendenza da esso, non la sua presenza – sarà eliminato, allora si potrà parlare in modo femminista delle donne.