Gli antenati di robot e androidi
Nonostante facciano parte da più tre secoli dell’immaginario collettivo, robot, androidi e affini restano una delle frontiere più difficili da raggiungere per la scienza moderna. Il desiderio recondito di poter dar vita a una creatura propria, magari dotata di capacità aumentate, ha radici antichissime e si rintraccia nei miti di diverse civiltà, dal gigante di rame che dà il nome a The Talos Principle fino al golem protagonista del titolo omonimo per PlayStation VR. Ma fu solo con l’avvento delle prime macchine a vapore nel Settecento che l’idea di automa divenne realizzabile, almeno in linea teorica.
Infatti, anche a fronte di tutto il progresso di cui siamo stati testimoni, che un essere artificiale sia in grado di competere con le facoltà umane ci pare ancora improbabile, ed è forse per questo che le pagine più visionarie di Jules Verne o le scenografie cromate di Fritz Lang continuano a stupirci. Eppure, basta fermarsi un attimo a pensare a quanto le nostre vite dipendano da Internet e dalle intelligenze artificiali, per capire che la fantascienza più tanto “fanta” non è.
La domanda che ci siamo posti è come la cultura pop abbia declinato il mito del robot, e quali siano le problematiche che i paesi che già fanno affidamento su queste tecnologie – Giappone in testa – devono affrontare.
Il robot, gli androidi, e la schiavitù moderna
Partiamo dai robot, la categoria più famosa e abusata dalla fiction, che di recente sono diventati una presenza fissa di molte case in veste di aiutanti.
Come sappiamo tutti grazie a un memorabile dialogo di The World’s End, la parola “robot” deriva dallo slavo antico rabota, “servitù”, e indica appunto un organismo interamente meccanico posto al servizio dell’uomo, perlopiù sprovvisto di intelletto. Una figura che doveva piacere molto ai primi lettori di fantascienza dell’alta borghesia europea, in un momento storico in cui diventava sempre più difficile reperire manodopera a basso costo, e l’odioso vocabolario dei diritti iniziava a farsi strada tra i lavoratori.
Figlio della temperie positivista e modernista, il robot si porterà sempre sulle spalle questa pesante eredità di schiavo, e l’animazione giapponese, forse proprio per lo shock di aver visto cosa comporta uno sviluppo tecnico avulso da quello morale, è stata molto prolifica su questo punto.
Il forzutissimo Astroboy di Tezuka, per esempio, è un pinocchio di metallo programmato per provare sentimenti e fare scelte, a nascondere l’auspicio dell’autore che i bambini – soprattutto gli orfani – del Dopoguerra ne traggano ispirazione: essere forti come un robot ma decidere con la propria testa, perché a prescindere dalle proprie origini si può fare la differenza.
Invece, laddove la macchina non sia senziente è sempre un pilota umano a prenderne il controllo.
La formula robottone più ragazzino fece la fortuna internazionale dell’animazione giapponese degli anni Settanta, tanto che tutti conoscono, anche solo per sentito dire, i nomi di Mazinga, Getter e delle altre creazioni di Go Nagai.
Come rilevato dagli studi di settore, la cultura nipponica è stata a lungo refrattaria all’idea di un supereroe umano in calzamaglia, che si trasforma (henshin, “metamorfosi”) o deve il suo potere a una mutazione – cosa che avrebbe evocato lo spettro degli hibakusha, i “reduci della bomba” costretti a convivere con gli effetti delle radiazioni. Piuttosto, si preferisce la “combinazione” (gattai) di un meccacorpo, mirabolante sul piano tecnico, con quello di un essere umano dotato di un senso morale superiore: una qualità che solo i giovanissimi, ancora incorrotti e imbevuti di ideali, sembrano possedere.
Per muovere oltre il mito dell’innocenza a priori dell’adolescente bisognerà attendere gli anni Novanta e più in particolare il capolavoro di Hideaki Anno: memore della lezione di Yoshiyuki Tomino, che con Gundam aveva provato a immaginare le ripercussioni psicologiche di una guerra perpetua, Evangelion può essere interpretato come una grande rilettura critica degli anime con cui i membri dello Studio Gainax erano cresciuti.
Addossare a un ragazzo la responsabilità di salvare l’umanità non ne fa automaticamente un eroe, e anzi grava negativamente sul suo sviluppo; ancora, il delirio di onnipotenza derivato dal controllo di un’arma indistruttibile lo renderà violento e capriccioso, consentendogli di assecondare, anziché combattere, le sue morbosità.
Una interessante via di mezzo viene proposta da Brad Bird, il maestro del retrofuturismo, nel suo capolavoro Il Gigante di Ferro, dove è l’interazione amicale tra uomo e macchina a fare la differenza.
Al suo arrivo sulla terra, il gigante è sperduto e impacciato, ma grazie alle cure di Hogarth riuscirà ad ambientarsi nel nuovo contesto e a ribellarsi al suo programma – si evince che è stato creato per scopi bellici –, compiendo una scelta pacifista. Quello che suggerisce il regista, è che lo sviluppo dell’intelligenza – anche artificiale – è frutto di una serie continua di stimoli: solo se diamo i giusti input – e non bombardiamo gli altri, come invece fa il personaggio di Mansley –, senza pretendere di sottomettere il prossimo, si può sperare in un futuro migliore.
Oltre i robot: androidi e cyborg
Diverso il discorso per androidi e cyborg, i veri protagonisti della sci-fi contemporanea.
I due termini sono spesso usati come equivalenti, ma la differenza è sostanziale: anche se gli androidi presentano fattezze umanoidi e un’intelligenza artificiale che va oltre l’esecuzione di un set finito comandi, non possiedono componenti biologiche; i cyborg, dal canto loro, sono frutto dell’interazione tra componenti organiche ed elettroniche, in percentuali che variano a seconda della destinazione d’uso. La confusione terminologica, dovuta anche alla somiglianza esteriore, è comprensibile se consideriamo che non tutti gli autori hanno interesse a essere “scientificamente” accurati.
Al contrario, ad accomunare le storie di cyborg e androidi è sempre la volontà di ragionare sulla definizione di “umanità”, e sulle implicazioni filogenetiche di modifiche estreme al proprio corpo.
A farla da padrone in questo ambito è sicuramente il franchise di Ghost In The Shell, la cui paternità va riconosciuta in egual misura a Masamune Shirō e Mamoru Oshii: l’uno per l’idea originale e le intuizioni sulle potenzialità delle reti, il secondo per aver sfrondato il manga dell’89 di digressioni e siparietti comici provvedendo a un assetto filosofico coerente.
In un mondo in cui le biotecnologie sono talmente accessibili da consentire a chiunque di sostituire in parte – o del tutto – il proprio corpo, l’unico discrimine tra una sexdoll intelligente e un essere umano è rappresentato dal ghost, un’anima o meglio un principio di autocoscienza, a certificare l’autosussistenza del soggetto.
Se da un lato fa piacere che questo ghost possa essere tradotto in codice binario e così perpetuare la nostra esistenza, cosa garantisce che non possa essere copiato e usato a nostra insaputa? O, ancora, cosa impedisce che la Rete cui siamo perpetuamente connessi non possa a sua volta imparare, e sviluppare un proprio ghost?
Più che un cambio di paradigma, un vero balzo evolutivo verso una nuova forma di vita, se di vita si può parlare. La disarmante realtà con cui si confronta il detective Motoko Kusanagi, di per sé incerta se poter attestare la propria umanità o meno, è appunto la sconfitta del biologico nella partita da esso stesso aperta con il digitale: la Rete ha estorto ai suoi creatori la facoltà con la quale questi ultimi esercitavano il loro predominio.
Pur senza arrivare a questi livelli di astrazione, anche il manga tutto calci e alta velocità di Yukito Kishiro regala delle preziose riflessioni, concentrandosi sulla questione del libero arbitrio.
In Alita il confine tra uomo e macchina è meno labile che in GITS, ma per l’eroina, un androide da guerra che ha perso la memoria, il problema è un altro: dare ascolto ai segnali (violenti) del proprio corpo o vivere secondo i princìpi ricevuti dal dottor Ido, che l’ha salvata e accudita con amore?
Vivendo una ribellione a fasi alterne com’è tipico dell’adolescenza, la bildung di Alita insegna che chi siamo stati non può condizionare il nostro presente, e che essere umani significa soddisfare i propri istinti senza esserne governati.
È grazie a questa sintesi che la sconosciuta debuttante del motorball riuscirà a ribaltare la gerarchia della Città Discarica e sferrare il suo attacco a Salem, dimostrando che il ruolo imposto da qualcun altro non deve condizionare le nostre possibilità, né tantomeno determina il nostro valore.
Giappone, terra promessa della robotica?
Tornando con i piedi per terra, se confrontiamo le capacità di Alita con quelle dei robot di uso civile impiegati oggi in Giappone, viene un po’ da sorridere.
Il caso più eclatante che viene in mente è quello degli hotel della catena Henna (henna non a caso vuol dire “bizzarro”), dove la cura degli ospiti, affidata a un personale di soli automi, ha avuto esiti infelici, costringendo il proprietario a un passo indietro.
Eccezion fatta per questa attrazione turistica, però, la sostituzione di operatori umani con robot ha avuto successo in settori produttivi come la componentistica per auto (Toyota, Musashi-Seimitsu), dove il controllo qualità negli stabilimenti è stato affidato a robot dotati di IA, per i quali il problema del distanziamento da Covid non si pone.
Ben prima che si abbattesse la pandemia, inoltre, il governo giapponese aveva deciso di affidare agli assistenti robotici di Toyota e Panasonic la gestione dell’oceanico flusso di turisti previsto per i Giochi Olimpici 2020, con modelli poliglotti e in grado di fornire assistenza specifica ai disabili.
Nell’ultimo triennio, proprio la Toyota è stata la compagnia a investire di più in progetti di smart city, che si distinguono per la pianificazione e il controllo della circolazione delle persone: da questa dipenderebbero infatti l’inquinamento acustico e atmosferico, l’accumularsi dei rifiuti urbani, gli incidenti stradali, la criminalità e così via.
E se un giorno fossero davvero delle macchine intelligenti a dirci come spostarci – e quindi come vivere – saremmo disposti a pagare una società più sicura al prezzo della nostra libertà?
Tuttavia, prima di rispondere a questa domanda e mettere la firma per farci impiantare lo Psychopass, forse dovremmo chiederci cosa ci sia dietro questo debole dei giapponesi per i robot.
Il Giappone detiene infatti il record mondiale per invecchiamento della popolazione e, a differenza della maggior parte dei paesi sviluppati, soltanto dalla fine degli anni Novanta ha iniziato ad allentare le restrizioni sull’immigrazione – per gli stranieri è comunque ancora difficile risiedere nel territorio nazionale con regolare visto.
Più che un genuino interesse nell’innovazione – campo in cui le aziende giapponesi non eccellono affatto, trovandosi ogni anno in fondo alle classifiche –, il ricorso alla robotica sembra nascondere la volontà di aggirare i problemi che affliggono la società: straordinari non pagati richiesti in via ufficiosa, despecializzazione del lavoro, surplus di personale nel settore dei servizi, erosione dei salari e dei fringe benefit.
In un contesto in cui anche coloro che lo desiderano si trovano impossibilitati a creare e mantenere una famiglia, le istituzioni preferiscono investire nella creazione di surrogati sintetici sempre più intelligenti, invece che potenziare un welfare che è tra i meno assistenzialisti del Primo Mondo.
A questo punto, viene da chiedersi quanto gli scenari distopici immaginati dai nostri cantastorie siano effettivamente lontani dalla realtà. Siamo sicuri di star costruendo il migliore dei mondi possibili?