Rocky Joe: una lotta per il domani.
Nello sport c’è una componente vitale che spesso dimentichiamo, distratti come siamo dal desiderio di vittoria. C’è la costanza, l’impegno, la dedizione e il sacrificio ma, soprattutto, c’è il desiderio di riscatto personale. Tutto questo è l’essenza degli spokon, i manga sportivi, un genere che trova in Ikki Kajiwara il suo più grande interprete. Attraverso la competizione sportiva Kajiwara era riuscito un pezzo alla volta a rappresentare uno spaccato del suo Giappone, quello del dopoguerra, quello che si vivevano nelle periferie abitate da orfani, da piccoli criminali, dai diseredati. Dagli ultimi. Tra le opere del maestro Kajiwara un posto speciale è occupato da un manga che ha per protagonista un giovane pugile, Ashita no Joe, disegnato da Tetsuya Chiba, quello che in Italia conosciamo come Rocky Joe, nome che gli fu dato per sfruttare la grande popolarità del pugile italo-americano Rocky Marciano e dei film di Stallone. La storia di Joe Yabuki potrebbe sembrare, a prima vista, molto simile ad altre create dal celebre mangaka.
Il protagonista è un orfano come tanti che vive alla giornata nel Giappone del dopoguerra, quando il boom economico aveva creato una forbice molto ampia tra chi era riuscito a partecipare al processo di ripresa e chi ne era rimasto ai margini. In fondo non è molto diversa da quella di Hoshi (La stella dei Giants) o di Naoto (L’Uomo Tigre). Ciò che però traspare in Joe non è solo la necessità di conquistare un obiettivo; bisogna prima di tutto desiderarlo quell’obiettivo, volere qualcosa di diverso nel proprio domani da una vita fatta solo di piccoli crimini e campare alla giornata.
E, perché ciò avvenga, è necessario un lungo processo di maturazione che inizia in un giorno come tanti, passato a vagabondare come sempre per le strade sporche dei quartieri più degradati del Giappone. Joe incontra il proprio destino sotto forma del vecchio Danpei Tange, un ex pugile e allenatore fallito, disilluso dalla vita e ormai alcolizzato. Il primo incontro tra mentore e allievo è burrascoso, visto che Joe e Danpei si prendono a pugni per un futile pretesto. Eppure proprio quello scambio di colpi riaccende nel vecchio la vecchia fiamma per la boxe. Finito lo scontro Joe si vede proporre da Danpei di diventare un pugile professionista, cosa che il giovane rifiuta categoricamente.
La cosa appare quasi paradossale: la vita concede a Joe la possibilità di cambiare, di avere una casa e uno scopo, eppure il giovane rifiuta per continuare la sua vita in mezzo alle strade sporche e degradate della periferia. Joe non ha alcuna intenzione di cambiare, adattato com’è alla miseria che considera come unica realtà possibile per se stesso. Un atteggiamento nichilista, che tuttavia trova una spiegazione solo se visto nel contesto della società giapponese di quegli anni.
Il cambiamento in Joe, la necessità di avere uno scopo e maturare, è qualcosa di graduale e che avverrà in maniera traumatica. Il messaggio di Kajiwara in questo sembra chiaro: per voler cambiare si deve prima di tutto avere la consapevolezza di dover cambiare.
Joe arriverà a comprendere questo stato di cose solo con un lungo e difficile processo di maturazione. Il giovane in un primo tempo cederà alle richieste di Danpei solo per sfruttare il vecchio, il quale non esita a fare lavori da manovale estremamente pesanti pur di poter mantenere quel ragazzo che lui ama come un figlio. Nonostante questo Joe continuerà con la sua vita fatta di piccoli furti, fino a che non tenterà una truffa ai danni di una giovane ereditiera, Yoko Shiraki. Sarà lo stesso Danpei a consegnarlo alla polizia, un gesto di amore severo e doloroso per entrambi, ma senza il quale Joe sarebbe rimasto solo un ladruncolo. Arrivato in carcere inizierà a cambiare e smussare i lati più aspri del suo carattere, proprio attraverso la boxe, disciplina che lui aveva inizialmente snobbato.
Il personaggio di Joe è un’efficace rappresentazione di tanti giovani giapponesi di quegli anni tormentati. Nati in un paese devastato e privo di speranze, hanno rinunciato ad avere ambizioni e sogni, perdendo fiducia nel domani. Kajiwara riesce a creare una summa di tutta la disillusione di una generazione, priva della possibilità di crearsi un futuro o anche solo di desiderarlo. Una spirale autodistruttiva che oggi può quasi sembrarci strana, ma che allora era qualcosa di fin troppo comune per quanti non erano in grado di integrarsi in una società rigida e sempre più frenetica.
Questo sentimento di disperazione emerge e trova corpo nell’altra grande protagonista della vicenda, la periferia. Un luogo dove le persone che non ce l’hanno fatta si sono ritirate, scegliendo di vivere alla giornata, rifiutati da quella società civile che cerca di tornare alla grandezza perduta con la guerra. Alle baraccopoli seguiranno quindi riformatori e prigioni, luoghi dove il Giappone per bene relegava gli scarti, una soluzione che il mangaka sembra suggerire come un inutile palliativo di un male ben peggiore, che dovrebbe essere curato dalle istituzioni. Povertà, alcolismo e criminalità fanno da sfondo alla vicenda di Joe, in un ritratto realistico come mai si era visto prima di allora in un manga.
Kajiwara fu a modo suo un pioniere nella realizzazione di Ashita no Joe, non esitando a veicolare al fumetto un messaggio di denuncia sociale molto forte, cosa che si tradusse in un vasto apprezzamento del pubblico oggi come allora. Il Domani di Joe non è solo un’opera sul pugilato e sulla necessità di costruirsi un futuro. È un manga che sceglie di mostrare contro cosa si deve lottare per emergere, esponendo le difficoltà di una nutrita fetta della popolazione giapponese. Ashita no Joe è reale, vicino alle persone, un rimprovero verso la società e un accorato richiamo al cambiamento.
Il domani in gioco non è solo quello di Joe Yabuki: è quello dell’intero Giappone, messo alle corde dalla guerra e dalla politica che non è stata capace di estendere a tutti la ripresa economica. E il Giappone rispose con entusiasmo al messaggio di Joe.
L’impatto che tutto ciò ebbe sulla società giapponese dell’epoca fu enorme. Compagini politiche di ogni colore si riconobbero in Joe Yabuki ed elessero l’opera di Kajiwara ora come manifesto della rivoluzione, ora come quello della restaurazione. Da un lato i rivoluzionari della Sekigun-ha, un gruppo di estrema sinistra che dirottò un volo in Corea del Nord, dall’altro l’autore nazionalista Yukio Mishima, il quale occupò il ministero della difesa giapponese prima di darsi la morte per seppuku.
Ma non erano solo gli estremisti ad apprezzare il messaggio di Ashita no Joe. Persone di ogni estrazione leggevano delle privazioni della periferia rappresentate nel manga, si indignavano, piangevano e sognavano un futuro migliore. Per capire quanto fossero apprezzati i personaggi basterà ricordare come alla morte di Tooru Rikishi, il primo grande rivale sul ring di Joe, centinaia di ragazzi si unirono per una veglia funebre, con tanto di bara e ritratto del “defunto”.
Il manga si sviluppa in maniera realistica con un climax costante che attraversa le vittorie e le sconfitte di Joe, nella boxe come nella vita. Il tutto culmina nello splendido finale, un momento di lirismo che ha pochissimi eguali nell’intera storia del fumetto, non solo giapponese.
Joe, giunto con molti sforzi a farsi una fama come pugile, riesce finalmente a sfidare il campione del mondo, il messicano José Mendoza. Il match sembra senza speranza per il giovane Joe, affetto dalla “sindrome del pugile ubriaco” e provato nel fisico fino al punto di non ritorno. Nonostante il parere contrario dei medici il giovane sceglie comunque di affrontare il match contro il “pugile definitivo” in quello che sembra un incontro senza speranza. Nonostante questo Joe riesce a mettere tutto se stesso nell’affrontare Mendoza, boxando quasi in uno stato di trance e tenendo testa al formidabile campione, il quale terrorizzato dalla tenacia dell’avversario concluderà l’incontro con i capelli del tutto bianchi.
Nonostante i durissimi colpi ricevuti da Mendoza Joe non demorde e riesce a resistere fino all’ultimo round senza andare KO. Mentre i giudici esprimono il loro verdetto, Joe torna all’angolo, accudito da Danpei. «Non c’è più niente da bruciare, solo le bianche ceneri» afferma, poco prima di consegnare a Yoko i suoi guantoni, il suo stesso domani, e spirare.
In Italia il finale di Rocky Joe fu pesantemente censurato. Nel corso della prima trasmissione il protagonista sveniva per la fatica, dopo aver espresso il desiderio di passare il resto della sua vita accanto a Yoko. Una scelta fatta per edulcorare il momento traumatico, ma colpevole di aver azzoppato l’epica conclusione scelta da Kajiwara per la sua opera.
Il fatto che Kajiwara non concluda l’opera con un lieto fine non deve ingannare. Il messaggio resta forte e potente: Joe, affrontando Mendoza al costo della vita, si fa carico di quanti sono stati costretti a lottare contro la loro estrazione, la società e il rifiuto stesso delle istituzioni. In questo la sua morte diventa quasi un sacrificio, un tentativo di mostrare agli ultimi delle sue periferie che il domani può arrivare e per cui è bene lottare. Un messaggio che arriva al lettore forte e chiaro, colpendolo in pieno volto. Il domani arriverà, ma solo se tutti saranno disposti a lottare e sacrificarsi per esso.