Saint Seiya è morto: lunga vita ai Cavalieri dello Zodiaco!
A partire dagli anni ’70 l’Italia è stata invasa dal Giappone. O, per meglio dire, da uno dei prodotti più importanti della cultura nipponica, gli anime. Da quella terra lontana, sia per tradizioni che per pensiero, giunsero nel Belpaese una serie di cartoni animati completamente diversi a quelli a cui eravamo abituati fino a quel momento. Noi italiani avevamo Carosello, le mitiche tendine la cui chiusura rappresentava per i bambini il momento di andare a dormire, e la TV dei ragazzi. Lo stesso modo di intendere qualsiasi prodotto per il piccolo schermo che prevedesse animazioni di vario genere, equivaleva a un prodotto esclusivo per le fasce più giovani di pubblico. Possiamo perciò solo immaginare il turbamento dei nostri nonni e genitori quando, per la prima volta, si trovarono di fronte a cartoni animati con tematiche spesso molto adulte, dove anche quelli pensati per i più piccoli si lasciavano andare, talvolta, a qualche piccola divagazione di maggiore importanza e solennità. Fu uno spartiacque generazionale. Per la prima volta i genitori si videro “costretti” a vietare ai propri pargoli la visione di certi cartoni animati con tematiche che consideravano scabrose o inadatte. Qualcuno dei più anziani tra noi potrà persino ricordarsi qualche epico duello verbale con gli amati mamma e papà, sulla possibilità di guardare un episodio di Devilman o di Ken il Guerriero.
La censura e l’adattamento si rendevano quindi necessari, per la diversa concezione del cartone animato tra il nostro paese e il Giappone. Per noi i cartoni erano soprattutto prodotti destinati a fasce estremamente giovani, a cavallo dei dieci anni, mentre per i giapponesi gli anime erano fatti per tutte le età. Una volta giunti in Italia, prodotti molto diversi finivano per essere gettati nella terrificante categoria-calderone “per ragazzi”, piaga che annullava inevitabilmente ogni distinzione tra cartoni/anime molto diversi tra loro.
La trasposizione di Ken il Guerriero, ad esempia, veniva trasmessa a orari in cui erano soprattutto bambini delle elementari a guardare la televisione. La soluzione logica avrebbe voluto uno stravolgimento dei palinsesti e la loro disposizione studiata per rispondere a fasce di pubblico più adatte. La soluzione alternativa era quella di adattare e censurare. Così venivano modificate le cose più disparate all’interno dei nostri adattamenti, da piccole adattamenti a veri e propri stravolgimenti. Joe si addormentava pacificamente sul ring e Ryo Saeba era un assiduo frequentatore di un ristorante vegetariano.
Era anche da considerare la distanza della cultura giapponese rispetto a quella italiana. Se oggi molti di noi si sono avvicinati alle tradizioni e alla cultura nipponica, molto più difficile era, all’inizio degli anni ’80, trovare qualcuno in Italia che potesse conoscere e spiegare le tradizioni del Sol Levante agli adattatori e ai doppiatori, che perciò si trovarono costretti, molto spesso, a improvvisare. Il risultato erano opere che poco avevano a che fare con quelle originali, diventando prodotti completamente nuovi. Questo non vuol certo dire che l’opera in sé fosse disprezzabile. Anzi, in alcuni casi, l’adattamento per il pubblico italiano si rivelava migliore della versione originale e finiva per suscitare maggiore interesse fuori dalla madrepatria.
È proprio il caso di Saint Seiya, divenuto in Italia i Cavalieri dello Zodiaco. Per molti nati a metà anni ’80 le corse contro il tempo di Pegasus e compagni per salvare Atena, perennemente intrappolata in qualche situazione a rischio della vita, sono divenute cardini della giovinezza. Recentemente anche Zerocalcare, il quale non ne ha mai fatto mistero, ha avuto modo di spiegare quale impatto abbiano avuto i Cavalieri sulla sua (e nostra) formazione generazionale. Ma ciò è altrettanto interessante, ovvero l’argomento di cui vogliamo parlare oggi, è come esattamente sia avvenuta la trasformazione da “Saint Seiya” a “I Cavalieri dello Zodiaco”.
Dal mito a Ugo Foscolo
Il manga di Masami Kurumada compare, per la prima volta, sulla rivista settimanale Shōnen Jump verso la fine del 1985. Il successo dell’opera fu buono e portò alla pubblicazione dei volumi nel gennaio del 1986 e, successivamente, a una trasposizione animata nell’ottobre di quello stesso anno, la quale poté contare da subito su un vero maestro dell’animazione giapponese, Shingo Araki, in coppia con Michi Himeno. Il manga di Kurumada mostrava alcuni difetti, specie nella resa dei personaggi.
Il character design non è mai stato il forte del maestro ma la storia, per contro, si rivelava affascinante, strutturata bene e con avversari che si rivelavano ben più di un gruppo di macchiette monodimensionali (d’accordo, escluso Jamian, lui era un caso a parte). La sceneggiatura, aiutata da un buon uso della mitologia classica, rese immediatamente Saint Seiya un prodotto diverso rispetto a molti altri shonen dello stesso periodo. La trasposizione animata portò il tutto a un livello superiore. Con il character design affidato a due esperti come Araki e Himeno, il successo fu rapido e, in breve tempo, il prodotto venne esportato anche fuori dal Giappone.
Come italianizzare un prodotto del genere?
In Italia Saint Seiya arrivò a inizio anni ’90. Il 26 marzo 1990 andò in onda il primo episodio dell’anime, “Pegasus l’invincibile”. Nel caso qualcuno nutrisse dubbi sulla raccomandazione del nostro protagonista. Il lavoro svolto dietro questa trasposizione fu però diverso da ogni altro prodotto dello stesso periodo. Come sempre si doveva affrontare lo scoglio dell’adattamento italiano, rendere un prodotto alieno alla mentalità del nostro paese qualcosa di più facile da accettare e digerire.
I precedenti erano pochi: c’erano stati Ken il Guerriero e Dragon Ball, ed entrambi, a modo loro, avevano dovuto subire diversi attacchi e tagli. Con Saint Seya, però, il fatto che si parlasse di mitologia classica, uno dei nostri retaggi culturali più importanti, era sicuramente un punto di partenza. L’allora direttore del doppiaggio, il compianto Enrico Carabelli, che molti di noi ricorderanno per aver dato la voce a numerosi personaggi della serie tra i quali spicca il Maestro dei Cinque Picchi, scelse di osare. Dando carta bianca all’adattatore Stefano Cerioni, sfruttarono il loro amore per la letteratura italiana e classica decisero di intraprendere una strada che, ancora oggi, rende i Cavalieri dello Zodiaco un prodotto completamente differente rispetto non solo a Ken e Dragon Ball, ma anche rispetto allo stesso Saint Seiya.
Si decise che, all’interno della serie, i personaggi avrebbero parlato utilizzando un linguaggio molto più aulico e complesso rispetto a quello utilizzato solitamente per le trasposizioni animate dello stesso periodo, inserendo numerosi riferimenti alla nostra letteratura, che ben si sposavano con l’ambientazione classicheggiante del cartone e i vari riferimenti al mito greco presenti in esso. Si realizzò così qualcosa di nuovo. Il lavoro non fu particolare solo per la scelta, ma anche per le modalità del doppiaggio. All’epoca i copioni arrivavano dalla madrepatria col contagocce, e conoscere i dieci episodi successivi era il massimo lusso a cui potessero ambire gli adattatori. In un certo senso si procedeva a tentoni, sperando di non sbagliare. Oltre a questo, si era subordinati alle ferree leggi del merchandising. Oltre ai diritti di trasmissione della serie, giungevano in Italia anche quelli di sfruttamento dell’immagine, a cui ci si doveva spesso piegare per logiche di freddo mercato. Se, a distanza di anni, vi domandata per quale motivo Pegasus fosse cavaliere di Pegasus, Andromeda cavaliere di Andromeda e Phoenix cavaliere della Fenice, la responsabilità possiamo attribuirla a Giochi Preziosi, che per commercializzare i giocattoli legati alla serie decise di utilizzare un approccio molto diretto nei confronti del mercato. Alla faccia della logica.
Nel frattempo, mentre da un lato si pensava alla parte economica, Carabelli e Cerioni lavoravano alla parte più ingrata, l’adattamento dei dialoghi. Rispetto a molti lavori cui avevano partecipato in passato, il cartone si mostrava più crudo e, a fronte dell’impossibilità di tagliare per colpa dello stretto margine di tempo in cui potevano operare gli addetti ai lavori, si cercava di trovare un compromesso per mantenere l’originalità della serie ed eliminare le asperità del linguaggio. Bisogna ricordare che, nella versione giapponese, Seiya e soci sono ragazzi giovani, spesso sboccati e aggressivi nei confronti di avversari più grandi e maturi di loro. Oltre a questo non bisogna dimenticare che le reti italiane mai avrebbero accettato un prodotto con un linguaggio inadatto alla televisione (gli spogliarelli di Colpo Grosso sì, ma quando si parla di prendere a pugni l’avversario, mai nella vita).
Il taglio epico e aulico scelto da Carabelli e Cerioni per l’adattamento dei Cavalieri riuscì così a sopperire a questo problema. Per quanto il cartone animato mantenesse scene violente, le parole dei protagonisti trasportavano tutto su una dimensione cavalleresca, dando un taglio completamente differente al prodotto. C’era la battaglia, c’era lo scontro, ma c’era anche il tentativo di comprendere l’avversario, la sua storia e le motivazioni dietro i suoi gesti. C’era, insomma, la “cavalleria”, che ben si adattava al titolo del cartone.
Pegasus ha appena fatto sputare sangue al suo avversario? Poco male, prima ha citato Ugo Foscolo, quindi è tutto a posto, mamme e papà. I vostri figli stanno imparando la letteratura! Questo tipo di impostazione fu portata al massimo da Cerioni al momento della scalata delle Dodici Case, durante la quale l’adattatore lavorava spesso da solo, trovando poi l’approvazione di Carabelli ai dialoghi scelti.
In cerca di voci
Una volta scelta l’impostazione generale della serie, si doveva pensare alle voci dei personaggi. All’epoca il circuito dei doppiatori italiani specializzati negli anime era piuttosto ristretto. Anche per questo motivo, Carabelli scelse di mettere insieme dei giovani doppiatori con cui aveva già avuto modo di lavorare.
Ivo De Palma, storica voce di Pegasus, fu chiamato direttamente, conoscendo a malapena il personaggio che avrebbe interpretato, iniziando così a fare il pendolare tra le stazioni di Torino Porta Nuova e Milano Centrale per prestare le corde vocali a quello che sarebbe diventato il suo personaggio iconico. Lui e Carabelli avevano già lavorato in Merak al cartone animato Kiss Me Licia, così instaurare un rapporto di lavoro fu piuttosto semplice.
Fu così anche per la doppiatrice di Lady Isabel/Atena, Dania Cericola. Conosceva bene Enrico, avendo doppiato sotto la sua supervisione alcune opere come Pollyanna e Piccole Donne. La fiducia nutrita nei suoi confronti da Carabelli fu tale da convincerla ad accettare un ruolo che si preannunciava più adulto rispetto a quelli interpretati in passato, dandole così l’occasione di mettere a frutto i suoi talenti su una parte impegnativa.
Altre scelte dirette di Carabelli furono Luigi Rosa, la voce di Crystal il Cigno e Andrea De Nisco, voce di Andromeda. Diverso discorso per Tony Fuochi il quale pare, con buona pace dei numerosi estimatori del personaggio, non fosse per niente entusiasta all’idea di doppiare Phoenix. Carabelli, conoscendo il valore di Fuochi, lo scelse senza provini, affidandogli non solo il ruolo del cavaliere immortale, ma anche diversi ruoli minori nel corso della serie (tra tutti ricordiamo Toro, Thor e Acquarius).
L’intera sessione di doppiaggio fu piuttosto travagliata. Iniziata sotto l’egida dello studio PV, gli studi furono successivamente spostati col conseguente cambio di molti doppiatori. Tra le new entry più importanti è da segnalare quella di Marco Balzarotti, il quale si unì in questo periodo al cast, ottenendo la parte di Sirio il Dragone.
Nel ricordo del cast di doppiatori, Carabelli mostrava di credere in questa serie come in poche altre. Per lui, uno dei nomi più importanti nel panorama italiano del doppiaggio degli anime, quella dei Cavalieri dello Zodiaco era una battaglia che andava vinta ad ogni costo. Da subito dimostrò una serietà e una passione, nei confronti di questo cartone, che coinvolse tutto il cast, riuscendo a spazzare vie le iniziali reticenze dei doppiatori. Il prodotto, a modo suo, era completamente nuovo. La mitologia e la letteratura non erano mai state sfruttate in questo modo per un cartone, che si rivelava molto diverso dai prodotti coevi dell’epoca. Oltre a questo, il taglio psicologico scelto da Carabelli e Cericola comportava anche una maggiore difficoltà dal punto di vista interpretativo. I ragazzi a cui erano state affidate le voci dei Cavalieri si resero conto di quanto fossero complesse le scelte compiute dal direttore, ma la sua passione li spinse a dare il meglio nella fase di doppiaggio. C’era partecipazione, c’era coinvolgimento e, in un certo senso, fu gettato in quello studio il seme da cui nacque l’approccio moderno nei confronti del doppiaggio degli anime in Italia.
Le successive riprese dei lavori per il capitolo dedicato ad Hades prima e per il film in CGI poi hanno ricomposto il cast originario, pur privato della guida di Enrico Carabelli. Sono cambiati i tempi e cresciuti i doppiatori che, a distanza di vent’anni, sono tornati a dare le voci a quei “semplici ragazzi” divenuti eroi per un capriccio del destino. Anche le modalità di lavoro sono cambiate, col doppiaggio ormai subordinato alle leggi dell’informatica e della tecnologia, ma non è cambiato ciò che ha costituito quest’opera per il doppiaggio italiano.
In un momento in cui l’audience italiana non poteva crescere per adattarsi ai prodotti provenienti dall’estero, viene da pensare che I Cavalieri dello Zodiaco sia riuscito a cambiare qualcosa, dando al pubblico un’opera capace sia di venire incontro alla sua cultura che di fargli conoscere e apprezzare qualcosa di diverso, sfruttando al meglio lo splendido retaggio della letteratura italiana. E scusate se è poco.