La rinascita di Saint Seiya su Netflix
Annunciato da Netflix nel corso di una conferenza stampa nell’agosto del 2017, dopo quasi due anni di lavorazione, arrivano sulla piattaforma i primi sei episodi di Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco, nuovo remake, targato Toei Animation, della celebre serie animata realizzata nel 1986.
Dopo l’entusiasmo dei fan scaturito dall’annuncio e la valanga di critiche nata dopo la pubblicazione del primo trailer, è ora giunto il momento di tirare le somme, di guardarci in faccia e, come Jules Winnfield fece con Vincent Vega in Pulp Fiction, chiederci: “Siamo contenti?”
La riposta breve è “no, non siamo contenti” ma, come spesso accade, è una risposta incompleta e forse non del tutto corretta. Perché esattamente come tra il bianco e il nero esistono infinite sfumature di grigio, allo stesso modo tra il giudicare qualcosa bello o brutto, si nascondono infinite vie di mezzo, quelle che danno vita a risposte come “nì” “no, però…” “si, ma…” e via dicendo, ed è proprio tra queste che si trova la nostra risposta: i Cavalieri dello Zodiaco di Netflix non convincono del tutto, ma…
Maneggiare con cura
Prima di tutto gettiamo qualche base. Ci troviamo davanti a un vero e proprio remake, quindi tutto ciò che abbiamo visto finora relativo alla storia originale dei Cavalieri – dunque la serie anime dell’86 e il film in CGI del 2015 – va preso e messo da parte perché Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco nasce come una nuova versione dell’opera originale creata da Masami Kurumada.
Una volta assodato questo, c’è da considerare anche un altro fattore: quante e quali libertà può prendersi uno sceneggiatore nel rielaborare un’opera. E qui potremmo stare ore e ore a discutere di cose come deontologia, professionalità, libertà d’espressione, libertà artistica ecc. argomenti affascinanti, ma che svierebbero troppo dal motivo per il quale siamo qui, quindi sorvoliamo e torniamo al lavoro svolto da Eugene Son, sceneggiatore della serie e, dunque, principale responsabile delle varie “modifiche” apportate all’opera originale di Kurumada.
Innanzitutto togliamo di mezzo tutto ciò che riguarda i 100 piccoli orfani, nati – o adottati a seconda della versione – dal vecchio Mitsumasa Kido/Alman di Thule e addestrati per diventare Cavalieri della dea Atena. Nella serie Netflix, tutto questo non sembra esistere. Gli eventi vengono messi in moto da un flashback che vede Seiya/Pegasus e la sorella Patricia attaccati da un gruppo paramilitare, attacco dal quale riescono a salvarsi grazie all’intervento di un misterioso personaggio in armatura dorata (leggasi Aiolia/Ioria del Leone) che sconfigge i nemici e si porta via la ragazza, poiché dotata del potere di controllare una misteriosa forza interiore nota come cosmo.
Il giovane Seiya – che per la prima volta nella storia mantiene il proprio nome anche nell’adattamento italiano, grazie al lavoro svolto da Ivo de Palma in persona – si ritrova così a crescere da solo in un orfanotrofio che tuttavia non è la celebre Fondazione Thule, che ospitava i cento piccoli destinati a diventare cavalieri nel manga/anime originale, ma un semplice orfanotrofio. Qui, il giovane destinato a diventare cavaliere di Atena trascorre le proprie giornate come tutti gli altri, finché non viene aggredito da un piccolo gruppo di bulli, risveglia il proprio cosmo e viene ripreso in un video che – visto che siamo pur sempre nell’epoca moderna – finisce ben presto online, diventando virale ed esponendolo alla pubblica gogna.
Isolato dagli altri orfani che, vedendo il filmato, lo descrivono come un “mutante” il nostro protagonista viene rapito dai soldati del vecchio Mitsumasa, che gli illustra tutta la storia facendo raggiungere al comparto narrativo di Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco un picco nel livello di “WTF” non indifferente, nonostante le sequenze vengano rappresentate tramite l’utilizzo di splendide tavole che sembrano veri e propri dipinti.
Per farla breve ogni centinaia di anni la dea Atena ritorna sul pianeta Terra e stavolta è destinata a farlo portandosi dietro una nefasta profezia che la vede come perdente nella guerra contro gli dei Poseidone e Ade, e dunque causa dell’estinzione della razza umana.
Oltre a Mitsumasa Kido, il morente Aiolos/Micene Cavaliere d’Oro del Sagittario – che come nella serie classica gli affidò la propria armatura e la vita della piccola Saori/Lady Isabel – raccontò tutta la storia anche a Vander Guraad, ex socio in affari di Kido, nonché new entry tra i main villain della saga. A differenza del barbuto vecchietto che conosciamo tutti, Guraad deciderà d’investire le proprie fortune per formare un piccolo esercito paramilitare, accumulare potere e continuare a svolgere ricerche sui Saint, al fine di opporsi in prima persona contro gli dei e dar vita a una propria fazione di cavalieri.
Aggiornato sulla questione, Seiya viene spedito in Grecia dove è destinato a diventare il nuovo Cavaliere di Pegasus, il principale paladino che, da millenni, si erge in difesa della dea Atena.
Da qui in poi la storia di Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco tenta di riallinearsi con l’originale: Seiya finisce sotto l’ala protettrice di Marin/Castalia dell’Aquila, impara a controllare il cosmo, si batte contro Cassios e porta a casa il cloth di Pegasus. Tutti contenti, se non fosse che, ogni tanto, il delirio torna a farsi vedere e quelle che sembrano, almeno sulla carta, innovazioni, assumono ben presto un aspetto quasi parodistico.
Come ben ricorderete, una volta ottenuta l’armatura, Seiya viene mandato a combattere nelle Guerre Galattiche, lo speciale evento organizzato dalla fondazione Kido che vedeva dei giovani quindicenni pestarsi a sangue gli uni con gli altri, al fine di ottenere il prezioso cloth dorato. Ecco, tutto ciò viene parzialmente modificato e ci ritroviamo con un cavaliere di Pegasus che cammina nel deserto (con tanto di sombrero) e che finisce in un bunker sotterraneo (il cui accesso in superficie è un tombino-robot parlante) dove il mega evento di lotta, viene trasformato in una serie di banali scontri 1vs1 combattuti alla stregua di incontri di boxe illegali, per giunta senza alcun tipo di pubblico – tranne Saori e il fido Tatsumi/Mylock. In questo contesto conosciamo (finalmente) tutti gli altri bronzini ed è così che ritroviamo facce note come Shiryu/Sirio del Dragone, Hyoga/Crystal del Cigno, Jabu/Asher dell’Unicorno, Ichi/Aspides dell’Idra… e Shaun di Andromeda.
Politicamente corretto o inutile forzatura?
No, non si tratta di un refuso e non dovrebbe neanche essere una sorpresa se avete visto i trailer pubblicati. Nel Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco di Netflix, Shun diventa Shaun e da uomo diventa donna.
Perché? Citando Eugene Son in persona nelle dichiarazioni che rilasciò sul proprio profilo Twitter (che potete leggere in questo post di reddit) “una delle mie preoccupazioni era che tutti i Cavalieri di Bronzo fossero uomini. La serie ha sempre avuto dei personaggi femminili molto forti e lo si vede anche dal gran numero di donne appassionate all’anime e al manga. Tuttavia, trent’anni fa, un gruppo di ragazzi che combattevano tra loro per salvare il mondo, non era niente di sensazionale. Era quasi la normalità. Oggi il mondo è cambiato. È normale vedere ragazzi e ragazze che lavorano insieme. La gente è abituata a vedere questa dinamica e, giusto o meno che sia, creare un team composto da soli uomini può far passare un certo tipo di messaggio. Forse 30 anni fa vedere delle donne che combattevano tra loro non era normale, ma oggi? Le cose sono cambiate.”
Insomma il tempo passa, la società si evolve e oggi come oggi vedere un gruppo composto da soli maschi che combatte in difesa della giustizia e del bene non va più di moda e può far passare il messaggio che le donne siano, cosa? Il sesso debole? Non in grado di combattere per dei giusti ideali? Eppure tutti i fan dei Cavalieri sanno perfettamente che così non è. Anzi, nell’opera originale ci sono donne molto più forti di tanti uomini. Vogliamo parlare di Shaina/Tisifone? Di Marin/Castalia? Qualcuno si sente di considerarle personaggi deboli? Sicuramente no, poiché sarebbe un’eresia.
Se avessero scelto di cambiare il sesso di Hyoga o di Ikki già la situazione sarebbe differente, ma andare a modificare il sesso di Shun, il più sensibile dei Saint, colui che lo stesso Kurumada, nel manga, fa spesso descrivere dai propri compagni come non adatto al combattimento perché troppo gentile d’animo – tanto che, nei numeri delle Dodici Case, Seiya e Shiryu, uscendo dalla casa di Libra, avanzano l’ipotesi di convincerlo ad accantonare il ruolo di cavaliere, dopo aver vinto la battaglia contro il Grande Sacerdote, poiché lo obbligava ad arrecare del danno ad altri individui – rischia di far passare un messaggio che, nel 2019, può provocare più danni dell’assenza di una donna dal gruppo dei protagonisti.
Shun di Andromeda non è mai stato il classico macho tutto muscoli e non ha neanche mai avuto bisogno di esserlo. È vero, ha sempre indossato un’armatura rosa e appartiene a una costellazione legata a una figura mitologica femminile. E quindi? L’essenza del cloth e della stessa costellazione di Andromeda è il sacrifico, un nobile sentimento che si è sempre rispecchiato nel personaggio di Shun, sin dai tempi del Grande Tempio, quando salvò la vita di Hyoga trasferendo nel suo corpo parte della propria essenza vitale e del proprio cosmo.
Tutti i fan di Saint Seiya sanno quanto vale Shun e quanto il suo essere d’animo gentile non abbia mai avuto alcuna rilevanza sul campo di battaglia, se non nel tentare fino allo stremo delle forze di ragionare con il proprio avversario e convincerlo a deporre le armi o nel limitare il potere del proprio cosmo per non rischiare di ucciderlo.
Negli anni se ne sono lette di tutti i colori su Shun, eppure di cavalieri androgini ne abbiamo visti più di uno. Basti pensare al Silver Saint Misty/Eris della Lucertola, al God Warrior (Cavaliere di Asgard) Mime di Benetnasch oppure ancora ad Aphrodite/Fish Cavaliere d’Oro dei Pesci, descritto nel manga come “dotato di una bellezza non paragonabile a quella di nessuno degli altri 88 Saint”. Di Shun, invece, viene solo e sempre evidenziato il carattere, un carattere più compassionevole, gentile, misericordioso, tutte qualità che vanno a rendere un Cavaliere di Atena degno di questo nome e, fortunatamente, qualità che vengono riproposte anche in questa versione femminile del personaggio.
La scelta di Son è stata quindi ben ragionata? No, semplicemente perché la scelta non ha alcun senso. Il personaggio non è stato toccato in nessun modo, non vi sono modifiche caratteriali di rilievo né altro. A conti fatti ci troviamo davanti a Shun in tutto e per tutto, solo che viene raffigurato come una donna, una modifica della quale, sinceramente, potevamo fare tranquillamente a meno.
Tra l’altro, se vogliamo introdurre anche la lore, la scelta fatta non è del tutto superficiale, perché va a intaccare tanti piccoli dettagli narrativi, primo fra tutti l’obbligo che avevano i Saint donna d’indossare una maschera che ne celasse il volto.
Nell’anime di Netflix è una caratteristica che troviamo solo in Marin – per ovvie ragioni – mentre Shaun e Shaina ne sono del tutto prive. La differenza tra le due sta che, mentre nel caso di Shaun non vi sono mai state sottotrame legate al suo essere donna, in quello di Shaina viene intaccato pesantemente il rapporto che si viene a creare tra lei e Seiya, colpevole di averle spezzato la maschera, scoprendone il volto e costringendola ad amarlo per sempre o ad ucciderlo. Una delle storie più romantiche e poetiche ideate e narrate nell’opera di Kurumada, che, nel Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco di casa Netflix, non può trovare spazio, lasciando molto amaro in bocca visto che si va anche a snaturare un importante aspetto della caratterizzazione di Shaina.
“Vuolsì così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare”
Facciamo un passo indietro e torniamo alla nuova versione delle Guerre Galattiche – chiedendo il permesso al tombino-robot parlante ovviamente. Come dicevamo, a differenza dell’opera originale, è in questo frangente che i bronzini si conoscono tra loro e, a suon di mazzate, si fanno strada scalando i ranghi del torneo per tentare di portare a casa la vittoria e l’armatura. Scordatevi, però, l’epicità del passato. In questa nuova versione dell’opera di Kurumada, alcune battaglie si riducono a una manciata di minuti, se non addirittura secondi, come nel caso di Seiya contro Geki o di Hyoga contro Ichi, scontri storici tagliuzzati talmente tanto da apparire, tristemente, ridicoli. È in questo momento che si vede la volontà di Toei nel voler realizzare un prodotto adatto ad un pubblico ben mirato: i bambini.
Ricordate la morsa stritolante di Geki dell’Orsa, che nel corso del suo allenamento passava le giornate “a stritolare orsi con la sola forza delle braccia” e che tenta di far fare a Seiya la medesima fine? Rimossa. Gli artigli di Ichi dell’Idra, che si conficcavano in ogni parte del corpo di Hyoga e spuntavano anche dalle ginocchia? Rimossi. La scena più violenta la vediamo in Seiya che colpisce – laddove colpire significa lanciare una palla luminosa – la schiena di Shiryu per fargli ripartire il cuore, ma anche in questo caso, il tutto viene messo in atto in maniera molto soft rispetto al passato, rendendo lampante che l’intento della produzione è quello di realizzare si uno shonen, ma adatto a un pubblico di fascia molto giovane.
Al di là delle opinioni personali sulla questione, fare un paragone con il passato è quasi del tutto inevitabile. Stiamo pur sempre parlando di uno degli anime e manga più amati da tutti gli appassionati del settore ed è impensabile che non si faccia un confronto tra quanto visto su Netflix e l’opera originale. Perché scegliere di realizzare una versione più fanciullesca dei Cavalieri? Parliamo di un prodotto violento, lo è sempre stato e sempre lo sarà, come tutti gli shonen, quindi perché snaturarlo così tanto, andando a intaccare – anche in questo caso – la caratterizzazione di personaggi che, seppur secondari, avevano la loro importanza?
Non possiamo neanche dar la colpa al ridotto minutaggio a disposizione – visto che in soli 6 episodi viene racchiuso quanto narrato nei primi 15 della serie originale – perché molte sequenze potevano esser nettamente cancellate, senza andare a intaccare né il comparto narrativo, né la qualità finale del prodotto.
Ridurre un’epica battaglia tra due Saint a uno scontro di manciata di secondi, per lasciare 2 minuti di Seiya che litiga con il tombino-robot parlante, è una scelta che lascia un po’ interdetti, così come i 10 minuti riservati allo scontro tra quattro Saint e una moltitudine di elicotteri, aerei e carri armati appartenenti all’esercito di Guraad, una scena che poteva chiudersi in metà tempo, senza ripetere ogni 5 secondi le stesse identiche sequenze.
Dulcis in fundo, al termine della prima grande battaglia tra le forze del bene e del male, facciamo la nostra conoscenza del quinto bronzino, uno dei cavalieri più amati dai fan di tutto il mondo e sfido chiunque a sostenere il contrario: il Cavaliere della Fenice, fratello di Shaun, Nero. No, anche in questo caso non si tratta di un errore ma di una scelta ben precisa, e tra l’altro non sarà neanche la prima volta che assisteremo a un cambio di nome nella serie di casa Netflix. Sempre stando alle parole di Eugene Son – che tuttavia in questo caso non ha potuto far niente visto che la decisione era stata già presa prima del suo ingresso nel progetto – la produzione (leggasi Toei Animation in accordo con Masami Kurumada in persona) “aveva dei dubbi sul fatto che dei personaggi provenienti dalla Cina, dall’Europa e dal Sud America, avessero dei nomi nipponici e dunque decisero di cambiare qualche nome.”
A differenza di quanto visto in precedenza, in questo caso ci troviamo davanti a una modifica che non va in alcun modo ad intaccare né il comparto narrativo, né la caratterizzazione o la natura dei personaggi, quindi l’impatto con la qualità dell’opera è quasi del tutto irrilevante. Certo, il fattore nostalgia ne risente parecchio, ma non è di certo uno dei problemi più grandi.
“Sai che ognuno ha tante qualità ed un’armatura fantastica”
I fan di vecchia data, leggendo il titolo del paragrafo, avranno riconosciuto un frammento di una delle strofe che compongono la versione italiana di Pegasus Fantasy realizzata da Giorgio Vanni, e non è un caso se è stata scelta proprio quella.
Non si può parlare dei Saint, senza parlare di loro: le armature, o cloth come vengono chiamate nella terra del sol levante. Nessuno dei Saint, neanche il più infimo e bieco, può definirsi tale se non è in possesso di un’armatura ed è proprio il loro design che ha fatto innamorare della serie molta gente. Davanti all’annuncio di dell’inizio dei lavori su in Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco, dunque, era chiaro che si guardasse con curiosità verso il design che avrebbero potuto avere le iconiche armature, soprattutto dopo le (discusse) versioni viste nel lungometraggio 2014, giudicate da molti eccessivamente fantascientifiche per il franchise.
Fortunatamente – e di questo ne siamo tutti grati – il designer, pur snobbando la prima storica versione dei cinque cloth di bronzo, ha deciso di non prendere spunto da “La Leggenda del Grande Tempio” realizzando delle armature che ricordano molto lo stile della seconda versione, seppur con qualche modifica. Ciò che lascia un po’ perplessi è l’assenza degli elmi. Al di là della sigla iniziale, nella quale i bronzini indossano gli elmi, nella serie non ve ne è alcuna traccia, fatta eccezione per quello di Aiolia.
Nonostante questo piccolo dettaglio, il design delle armature convince sotto ogni punto di vista, soprattutto sui dettagli. Vedere le cloth che tendono a usurarsi man mano che si va avanti con la battaglia, aggiunge quel tocco in più di realismo che non guasta e che strizza l’occhio (finalmente!) alla serie originale, dove le cloth risentono pesantemente dei danni ricevuti in combattimento, tanto da necessitare spesso di riparazioni o estinguere completamente la propria forza vitale. Unica pecca in tutto questo? Gli scrigni nelle quali vengono custodite le armature, che si trasformano (di nuovo) nelle maledette piastrine viste sia nel lungometraggio in CGI che in Saint Seiya Omega.
Sempre per la gioia dei fan di vecchia data, anche il character design richiama quello storico e tutti i personaggi visti finora, incluso il vecchio maestro Dohko di Libra – che finalmente abbandona il viola ecchimosi in favore di un incarnato più rosato, pur mantenendo lo stesso le orecchie a punta – Fiore di Luna ed Esmeralda, sono la versione in CGI di quanto visto nella serie animata originale. Una caratteristica più che ben accetta, soprattutto a fronte di effetti luce non sempre convincenti – che in diverse occasioni danno l’impressione di guardare dei Myth Cloth più che dei personaggi di un anime – e, soprattutto, delle animazioni che risultano spesso troppo legnose o surreali.
Leggendo in giro, molti fan hanno avuto la sensazione di vedere delle sequenze tratte dai picchiaduro usciti in epoca PS2, ed effettivamente buona parte della colpa è proprio delle animazioni. Sebbene alcuni colpi – come il Rozan Shoryuha/Drago Nascente o il Diamond Dust/Polvere di Diamanti – convincano nell’effetto grafico, l’animazione del lancio del colpo viene riciclata più e più volte, spesso a una distanza troppo breve, e si ha l’impressione di assistere sempre alla stessa scena, cosa che in effetti è visto che si tratta di un’animazione ripetuta, ma c’è da chiedersi se, forse, non fosse il caso di aggiungere un po’ di varietà.
Quale sarà il futuro dei Cavalieri di Netflix?
Ci avviciniamo alla fine di questa lunga analisi svolta su Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco di Netflix, eppure ci sarebbero ancora molte cose da dire e argomenti da trattare.
Potremmo parlare di quanto faccia piacere, per noi italiani nostalgici almeno, tornare a sentire Seiya con la voce del grande Ivo de Palma, Shiryu con quella di Marco Balzarotti e Hyoga con quella di Luigi Rosa; potremmo dire quanto ci manca l’Ikki di Tony Fuochi, nonostante l’ottimo lavoro svolto da Mattia Bressan con Nero; potremmo parlare di quanto sia matura la Saori di Dania Cericola e di quanto, sin dalle prime sequenze che la vedono molto giovane, sembri avere uno sguardo molto più severo e consapevole del passato; potremmo parlare della nuova opening, che di nuovo non ha nulla visto che è solo la versione inglese della storica “Pegasus Fantasy” riarrangiata dalla band The Struts; insomma, potremmo stare ore e ore a parlare del nuovo adattamento dell’opera di Kurumada e ritrovarci, comunque, con tanti interrogativi ancora senza una risposta.
Primo fra tutti: la serie avrà una sua continuazione o verrà chiusa prima del tempo? Vedremo mai i restanti 6 episodi che dovrebbero chiudere la prima stagione, andando ad affrontare l’arco narrativo dei Cavalieri d’Argento? Quanti e quali personaggi saranno stati modificati, magari non solo nel nome? Come s’intersecherà nella storia originale, Guraad e il suo esercito? Domande che, al momento, restano prive di una risposta.
A questo punto, in molti si chiederanno: ma alla fine vale la pena spendere tempo a guardare la serie? E qui torniamo all’inizio di tutto e, personalmente, vi direi che no, non ne vale la pena, o meglio va vista tenendo ben presente che non è, né vuole essere, un clone della serie animata che ha fatto la storia negli anni ’80. È una nuova versione, sotto i molti aspetti che abbiamo analizzato e, soprattutto, è una versione adatta prettamente a un pubblico molto giovane.
I messaggi che tentava di trasmettere l’opera originale – riuscendoci in pieno – ci sono anche in in Saint Seiya: I Cavalieri dello Zodiaco, ma vengono spesso rimarcati in maniera troppo eccessiva. Anche la decisione presa nel voler di limitare le scene di violenza, o il voler infilare a forza un personaggio femminile in un gruppo composto da soli maschi, snaturandone altri, si sono rivelate scelte non troppo felici e, anche in vista di futuri episodi, non si può che avere un po’ di timore per ciò che ci aspetta.