Il valore simbolico dell’incidente di Fukushima
Da quel fatidico giorno sono passati dieci anni, eppure gli eventi di Fukushima continuano a essere ancora incredibilmente vividi nella nostra memoria. Sarà perché di quei centomila e passa sfollati che hanno dovuto abbandonare la propria casa nessuno vi ha più fatto ritorno, né potrà farlo in futuro. Sarà perché i casi di cancro e di malformazione genetica si manifestano con sempre più frequenza tra gli abitanti della prefettura, disegnando un trend che, secondo gli esperti, impiegherà circa mezzo secolo per scomparire. Sarà perché il governo giapponese, nonostante i miliardi spesi per “risanare” l’area esposta alle radiazioni del Dai-Ichi – un’area di circa 50 chilometri di raggio – e risarcire gli abitanti del danno subito, continua a finanziare generosamente la compagnia elettrica responsabile del disastro, e con lei l’intero cartello dei subcontractor.
Sarà quel che sarà, il 3 Marzo 2011 i giapponesi e il mondo intero assistettero impotenti a una catastrofe senza precedenti nella storia del Paese. Abituato da secoli a convivere con terremoti, tifoni, inondazioni, arrivando persino a sfiorare l’olocausto atomico nell’età moderna, il popolo nipponico ha costruito la propria identità post-bellica sulla pietra angolare del pacifismo: un pacifismo a tratti di sola facciata – basti pensare ai giochi ermeneutici messi in campo per aggirare l’Art.9 e ricostituire le forze armate – e a volte traducentesi in disimpegno sul piano internazionale – così come sotteso alla Dottrina Yoshida –, ma nondimeno portatore di benessere e serenità per una nazione che aveva voglia di tornare a essere grande.
Non diversamente da quella terribile mattina d’Agosto del ’45, per la seconda volta i cittadini dell’Arcipelago si erano lasciati raggirare da un sistema che, in cambio della loro fiducia incondizionata, aveva promesso pace e crescita.
Da qui, la gravità dell’incidente di Fukushima nella memoria collettiva: allo shock di vedere un’intera città sprofondare in uno scenario post-apocalittico e alla consapevolezza che migliaia di morti avrebbero potuto essere evitate, si aggiunge il livore nei confronti di una classe dirigente che, pur beneficiando di un consenso praticamente assoluto dalla fine dell’autoritarismo, aveva segretamente pensato solo al proprio tornaconto.
Il contributo della letteratura nell’elaborazione del trauma
Come reagire a questa rivelazione? Cosa possono fare i cittadini per superare il trauma e riappropriarsi del proprio futuro? Se da un lato la politica ancora non è stata in grado di formulare una risposta soddisfacente, altrettanto non si può dire della scena letteraria, i cui maggiori esponenti hanno subito fatto fronte comune per elaborare questo lutto nazionale e muovere i primi passi per riappropriarsi del presente.
Scrivere per Fukushima infatti non è solo il titolo di questo pezzo, ma soprattutto quello di una preziosa raccolta di racconti – edita in Italia da Atmosphere – in cui i migliori nipponisti nostrani si sono cimentati nella traduzione del volume Shinsai to fikushon no ‘kyori’ (lett. La distanza tra ‘catastrofe’ e fiction, 2012), pubblicata sulla rivista letteraria della prestigiosa università Waseda nell’ambito del progetto Japan Earthquake Charity Literature.
Ben lontana dall’essere una pubblicazione d’occasione per fare beneficenza, il volume – a cui i redattori italiani hanno voluto aggiungere due contributi addizionali rispetto all’originale – nasce dall’esigenza di scrittori e scrittrici giapponesi di raccontare e raccontarsi, ragionando sulla (im)potenza del mezzo letterario – e più in generale delle facoltà immaginative – dinanzi alla catastrofe, la cui tangibilità bruta rischia di stroncare sul nascere ogni tentativo di descrizione, e quindi di possibile superamento. L’evento del meltdown del Dai-Ichi, vuoi citato esplicitamente o alluso alla lontana, è l’unico denominatore comune dei racconti di Scrivere per Fukushima, in cui gli autori tentano di superarsi l’un l’altra nel colmare il divario (apparentemente) insanabile tra finzione e memoria.
Partiamo da una nostra vecchia conoscenza, con Silverpoint di Enjō Tō. Difficile riassumere questo divertissement postmodernista in cui il narratore, rompendo a più riprese la quarta parete, si rivolge direttamente al lettore chiedendogli di impugnare una mina da disegno e tracciare sul foglio l’orizzonte delle sue avventure. Volenti o nolenti, assecondiamo l’estro creativo del nostro alter ego che, imbarcatosi in un’avventura spaziale, si trova a un certo punto al cospetto di qualcosa di indescrivibile:
«Capitano, c’è un buco nero davanti a noi».
Un membro del tuo fidato equipaggio ti porta questa informazione con il pallido volto tirato. Pirati dello spazio. Mostri sconosciuti. Alieni ostili. Mar dei Sargassi. Kraken. Vampiri extraterrestri.
«E allora?» rispondi.
La tua mano torna a prendere fuoco, cerchi di controllare la mina d’argento che pare sul punto di liberarsi, scoppi in una risata violenta. Stringi la mina più forte che puoi e prolunghi la linea tremante.
Sei proprio convinto che queste parole ci servano a qualcosa, non è vero?
Il capitano – e per traslato chi legge – preferisce non affrontare la sua nemesi ineffabile: poco importa cosa il vaso di pandora contenga al suo interno (pirati, vampiri?), se non lo si scoperchia si può continuare a immaginare il mondo così come sì è sempre fatto. A noi al di qua della pagina, viene spontaneo riconoscere in quel buco nero l’onda anomala, il reattore, le radiazioni invisibili, un vocabolario da fantascienza che però, all’improvviso, è diventato parte integrante del nostro lessico quotidiano. Forse è proprio questa soluzione di comodo che Enjō rigetta, perché per quanto possa far piacere crederlo, le parole non hanno in sé il potere di cambiare la realtà, e a forza di usare quelle sbagliate si rischia di perderla di vista completamente.
In Scrivere per Fukushima c’è anche una splendida storia breve di Kawakami Mieko. L’autrice di Seni e uova dà un’ulteriore prova – come se ce ne fosse bisogno – della propria capacità di immedesimazione, adottando la prospettiva di un insegnante che a breve diventerà padre. Per scacciare i brutti pensieri, propone alla compagna incinta di recarsi a Kyoto in villeggiatura, ma le sue ambizioni di carriera, unitamente a un certo disgusto per il corpo sempre meno attraente della partner, gli impediscono di rilassarsi. L’unica che dopo il giro turistico riesce a farsi un buon sonno è proprio quest’ultima, che al risveglio riferisce quanto segue:
«Ho sognato che nasceva il bambino».
«Ah sì?» annuii.
«Sì, ho sognato che nasceva il nostro bambino. Era di lana» disse.
«Di lana?»
«Sì» rispose tranquilla.
«Era un mondo dove tutto era fatto di lana. L’acqua, gli uomini, i binari del treno, il mare, tutto era fatto di lana. Il terreno, i bicchieri, i vestiti, le agende, tutto era tessuto di lana soffice e resistente. Tutto fatto di lana. Tutto…».
[…]
«Quando avvengono cose spiacevoli o se ci sono pericoli, tutto si slega all’istante; e le cose lasciano trascorrere quel determinato lasso di tempo come semplici fili di lana».
Poco più tardi un collega chiamerà il protagonista, dandogli notizia del terremoto che, fuori dal microcosmo ovattato della camera d’albergo, ha già mietuto le prime vittime. Velatamente politico, il sogno della futura mamma di Marzo è di lana – questo il titolo del racconto – allude a quel benessere diffuso, indeperibile che gran parte giapponesi era stato indotto a dare per scontato.
Il Giappone del sogno ricalca l’immagine propinata dalla propaganda Liberal-democratica: un posto dove niente e nessuno può farti del male, dove ciò che è “spiacevole” scorre via più in fretta, in modo che nessuno abbia a ricordarlo. Ma per quanto possiamo rinchiuderci nel nostro bozzolo, la realtà trova sempre un pertugio da cui filtrare e disturbare la nostra pace. Pace che forse, sembra suggerire Kawakami, tale non è, più simile alla narcolessia o viceversa all’insonnia torpida di cui soffrono rispettivamente i due coniugi.
Chiudiamo questa panoramica con un brano del poliedrico Furukawa Hideo, che a Fukushima è nato e cresciuto. A prima vista indecifrabili, le due pagine scarse di Alberi genealogici e altre conversazioni costituiscono un sottile gioco metaletterario in cui è possibile scorgere in filigrana un autoritratto dello scrittore: la devozione al teatro d’avanguardia, l’amore per i generi narrativi popolari (fantascienza, thriller) e i videogiochi, e non da ultimo il legame sofferto con la terra natia – l’autore si è attivato in prima persona per far ripartire le attività culturali sul territorio – scaturiscono dal pretesto narrativo di mettere in scena una pièce minimalista, accanto alle tombe di famiglia:
Tutti gli indici del cimitero, tutte quelle liste di nomi scolpite nella pietra si librano nell’aria a formare tanti alberi genealogici e partecipano al dibattito, concordando, dissentendo e palesando nuove opinioni. Il nostro drammaturgo si rende perfettamente conto di ciò che sta accadendo. Poi si sentono pronunciare le seguenti parole, con voce densa di emozione: «Ehi, perché non diciamo che un meteorite è caduto sulla Terra?»
«Un meteorite?»
«Sì! E potremmo aggiungere» dice l’attore – l’attore dotato del suo corpo fisico «che l’impatto non è stato così disastroso come al tempo dei dinosauri».
Ah, se il mondo fosse fatto unicamente dei dialoghi degli attori. Tutto potrebbe confluire nell’amore. Perfino le lapidi fatiscenti converserebbero tra loro. E poi? Nessuna risposta.
A una prima lettura – ma anche alle successive in realtà – Furukawa riesce spesso criptico, con le sue elucubrazioni circa l’origine dell’enunciatario e la natura del mezzo letterario. Qui però il riferimento è puntuale, nonché autocritico: Furukawa cioè si chiede – certo con meno pragmaticità di Enjō – qual è il contributo che un “professionista dell’immaginazione” può dare a una terra annientata, dove è impossibile rimettere radici se non risalendo a qualche muffita genealogia. La rappresentazione rarefatta messa in piedi dal nostro drammaturgo vuole quindi rompere il silenzio conseguente alla catastrofe, cercando di limitare al minimo l’artificio, in modo da udire le nuove voci che avranno di levarsi e ripartire da zero.
Speriamo che quest’ultimo estratto vi abbia incuriosito – e magari confuso – abbastanza per convincervi ad affondare il naso nelle pagine di Scrivere per Fukushima, un’antologia che merita di essere riscoperta e diffusa, a maggior ragione vista la ricorrenza odierna.