Una profonda analisi sul sessismo nei videogiochi
Nel libretto di Haunting Ground, survival horror del 2005 per PlayStation 2, c’è un messaggio dell’autore (non si fa riferimento a chi di preciso): “Voglio che tu ti connetta con Fiona [la protagonista n.d.r.] e la protegga, la salvi. Ci sono alcuni orrori davvero innominabili e inimmaginabili che ti aspettano, ma ho fede in te. Puoi farcela.”
Il gioco, assecondando la richiesta dell’autore, ci chiede di aiutare la protagonista, risvegliatasi sostanzialmente nuda in una gabbia nel seminterrato di un’enorme magione gotica. Incontrata prima una domestica dallo sguardo e dai modi gelidi che le consegna degli abiti (ovviamente succinti, che mettano in risalto il seno), fa quindi la conoscenza del giardiniere: un essere enorme dall’aspetto deforme e dai modi infantili. L’uomo nota la somiglianza tra l’abbigliamento di Fiona e la bambola che adora, e riversa immediatamente sulla donna tutte le attenzioni che fino a quel momento dedicava all’oggetto.
Non occorre compiere grandi balzi d’immaginazione per cogliere il punto. Viene introdotta così la meccanica principale del gioco: la necessità di sfuggire al proprio inseguitore. Se questo (o questa, nel momento in cui la carnefice diventa la domestica) rimane troppo a lungo vicino a Fiona, lei perde il controllo e chi gioca lo perde con lei, ritrovandosi impossibilitato a guidare con precisione i suoi movimenti attraverso il controller, a causa della corsa incontrollata e automatica della ragazza e della violenta sfocatura che riempie lo schermo per tutta la durata dell’attacco di panico.
Nella storia raccontata dal gioco riusciamo presto a riconoscere Debilitas, l’enorme e terribile giardiniere, come un bambino inconsapevole della sua mole e assolutamente ignaro del dolore che può causare a Fiona scagliandola per terra, strappandole i vestiti o mordendola. Pur senza rendersene conto, l’enorme uomo tratta la piccola donna come un oggetto di cui disporre liberamente, un passatempo da usare a proprio piacimento. Il momento in cui la vicenda culmina in un vecchio decrepito che insegue l’immortalità e, per ottenerla, necessita di ingravidare Fiona, è orrendo e terrificante, ma anziché tramite la narrazione e le sequenze cinematografiche, è attraverso l’interazione che Haunting Ground veicola il suo messaggio e rivela un potenziale notevole, all’epoca trascurato per via di una struttura ancora troppo didascalica e tradizionale delle recensioni.
La prima volta che ho giocato al gioco, qualche anno fa, ho finito col metterlo da parte dopo pochissimo, infastidito dal suo sessismo e da una componente voyeuristica che non sapevo se interpretare come diegetica e critica, o come mero fanservice erotico: è in realtà entrambe le cose, in una delle moltissime contraddizioni artistico-produttive del medium. Qualche giorno fa, incuriosito dall’analisi della youtuber Valkyrie Aurora, mi sono deciso a ricominciarlo, e il nuovo punto di vista adottato mi ha effettivamente permesso di scorgere ciò che, in un primo momento, non avevo colto minimamente.
Haunting Ground non è l’unico horror capace di parlare del corpo femminile attraverso l’interazione. Lo aveva fatto, due anni prima, Silent Hill 3. In questo caso la vicenda ruota attorno a un culto che auspica la fine del mondo per poterlo ricreare nuovo, epurato dalla violenza, dalla malattia e dalla sofferenza. Per fare questo è necessario, nuovamente, l’utero della protagonista, predestinata in questo caso a generare Dio. Nelle battute finali, prossima al parto, in una delle scene più forti e disturbanti mai raccontate dal medium, la ragazza riesce a vomitare il feto che porta dentro e sua sorella, leader fanatica e radicale del culto, per rimediare all’irrimediabile lo ingerisce lei stessa, così da generare attraverso quell’unione di carne la divinità tanto attesa.
Di nuovo: non occorre cercare interpretazioni originali, è già tutto lì. Se l’orrore del suo dovere imposto di donna, dalla società e dalla religione e alimentato significativamente in questo caso da un’altra donna, viene raccontato tramite dei filmati, Silent Hill 3 va ben oltre facendosi anche lui portatore di inquietudine e nervi a pezzi attraverso le fasi interattive: la ragazza è infatti costantemente braccata da creature deformi le cui braccia culminano in enormi borse attaccate alla pelle – rappresentanti forse il suo bisogno di fuga e svago attraverso pratiche consumistiche –, l’inquadratura è spesso aggrappata alle sue cosce nei momenti in cui è impegnata a salire o scendere delle scale, e il primo “boss” (il primo avversario da cui non è possibile fuggire) è un enorme organo sessuale.
Silent Hill 4: The Room, capitolo ingiustamente sminuito e snobbato, compie una scelta ancora più coraggiosa e radicale. Il protagonista, un giovane uomo introverso e poco socievole, si ritrova prigioniero nel suo stesso appartamento. La porta è stata sigillata con delle catene, sui muri compaiono e scompaiono delle scritte, in una parete è apparso un buco di cui non si scorge la fine.
Vicino a un tavolino del soggiorno, in basso, una piccola cavità permette di curiosare nella camera da letto dell’appartamento a fianco. Là vive una giovane donna, vicina di casa, intenta a trascorrere le proprie giornate all’insegna della quotidianità. Gli sviluppatori sul libretto non ci chiedono di tornare spesso a curiosare attraverso quella fessura, né lo fa il gioco con qualche indicazione su schermo: lo facciamo noi perché man mano che il gioco prosegue (e con lui la storia) potrebbero accadere altre cose in quella stanza, perché siamo curiosi, perché stiamo giocando a un videogioco ed è questo che solitamente si fa, si curiosa in giro, si cercano novità, si fa tutto quello che il gioco ci consente di fare.
Non è un ruolo scritto in fase di sceneggiatura e necessario al proseguimento del gioco, poiché tornando di tanto in tanto a sbirciare la vita della ragazza non si colgono altro che piccoli inutili frammenti di quotidianità: a violare la sua intimità quando parla al telefono, mette lo smalto alle unghie o depila le ascelle non è quindi il personaggio, ma chi impugna il controller.
Su Lara Croft, personaggio pop capace di scavalcare i confini del medium di appartenenza fin dalla sua nascita nel 1996, si è detto e scritto tantissimo. Icona femminile forte e indipendente, avventuriera aristocratica snob e assolutamente egoista, oggetto sessualizzato costruito da maschi per maschi, modello di riferimento per la costruzione di decine di eroine apparse negli anni successivi al cinema e nel videogioco: tutto e il contrario di tutto.
Impossibile decidersi davvero, Lara Croft è (stata) tutto questo. Fino al 2013, anno in cui Square Enix, dopo aver inglobato nel 2009 Eidos Interactive (l’azienda che deteneva i diritti del franchise), decide di ripartire da capo. Crystal Dynamics, responsabile dello sviluppo delle avventure di Lara dal 2006, si occupa quindi di tirare su una storia intenzionata non solo a raccontare le origini della razziatrice di tombe, fino a quel momento mero rumore di sottofondo, ma anche a riscriverne la personalità, con il fine ultimo di renderla più umana e vulnerabile.
È un disastro totale. Non di critica e vendite, che vanno invece benissimo, ma di intenti. Non solo la dimensione umana di Lara è assente (o, se preferite, si limita ai primi dieci minuti della storia: poi scompare in favore di un tiro al bersaglio divertente e ripetitivo), ma la fragilità e la fallibilità promesse da Crystal Dynamics finiscono invece col creare una discordanza terribile fra la ragazza raccontata nei filmati, spaventata nei gemiti e nella voce, e la guerriera indistruttibile e dalla mira perfetta raccontata con l’interazione, che lascia cumuli di cadaveri e macerie al suo passaggio.
Peraltro, non è andata affatto meglio con il lungometraggio uscito al cinema poco dopo. La diffidenza c’era ed era anche legittima, tutto sommato però sarebbe stato lecito aspettarsi almeno qualcosa in più. Non solo sceneggiatura, regia e ritmo della narrazione sono terribili, ma soprattutto il montaggio compie il peccato mortale di frammentare l’azione al punto da vanificare completamente l’allenamento, il lavoro e gli sforzi della comunque in parte Alicia Vikander, relegando mesi di sudore e fatica a degli addominali scolpiti in un piano americano. Era l’occasione per segnare un punto di svolta rispetto alla versione fumettosa e patinata interpretata da Angelina Jolie nel 2001, invece abbiamo ottenuto lo stesso identico film interpretato però, a questo giro, da un corpo più tonico e snello. Sulle moltissime lamentele di chi, già in partenza, lamentava la presenza di un’attrice dal seno troppo minuto, non intendo nemmeno soffermarmi: testimoniano automaticamente la logica di mercificazione e il valore che si attribuisce a un prodotto culturale.
Nel suo editoriale su Official PlayStation Magazine di luglio 2018, la giornalista Alessandra Contin scrive: “The Last of Us: Part II, Shadow of the Tomb Raider, Battlefield V, Assassin’s Creed: Odyssey, Beyond Good & Evil 2, persino Gears of War 5, l’E3 di quest’anno ha mostrato una carrellata di personaggi femminili da far urlare: Girl Power! Personaggi complessi in cui le videogiocatrici di domani potranno rispecchiarsi. Eroine che rientreranno nel loro immaginario, perché se non sei l’ennesima coprotagonista, la donzella in difficoltà, la principessa da salvare, se sei rappresentata e ti riconosci, magari quel videogame lo giochi. La rappresentazione non è una questione di quote rosa, è piuttosto trovare il personaggio giusto che scavalchi il genere e incarni un discorso universale. Per questo motivo eroine come Rey e Eleven, non me ne voglia, valgono mille interventi di Anita Sarkeesian.”
Mi permetto di essere d’accordo solo in minima parte. C’è un problema comune in tutti i titoli citati, lo stesso che è presente proprio nella riscrittura di Lara Croft: sono tutti enormi blockbuster d’azione in cui la protagonista corre, salta, spara, uccide e ripete. Si tratta di scavalcare il genere per parlare d’altro, come il cinema o il fumetto o la letteratura hanno sempre fatto, certo, ma tranne The Last of Us: Part II (perché già dimostrato dal primo capitolo) possiamo ragionevolmente affermare che tutti gli altri titoli non hanno il minimo interesse ad andare oltre il solo mettere una donna nel ruolo di protagonista o sul fronte della confezione.
Il che non è un problema, intendiamoci; negli ultimi anni il ruolo di protagonista è spettato a una donna in molte grosse produzioni, spesso con una conseguente sessualizzazione, come nel caso di Remember Me (2013), altre volte no, come nel caso di Life is Strange (2015), peraltro realizzati entrambi dalla stessa software house ma prodotti da case differenti. Il fatto è che una protagonista femminile non implica necessariamente una rappresentanza perché, a differenza degli uomini, le donne non si sono mai fatte alcun problema a giocare nei panni di un personaggio maschile fin da quando i videogiochi esistono, esattamente come non si sono mai poste il problema di leggere romanzi con protagonisti maschili, scritti da autori maschili.
Non serve risalire alle critiche rivolte a Charlotte Bronte per il capolavoro Jane Eyre e al tentativo di delegittimare il suo talento e la sua autorialità, fin dalla prima edizione del 1847, affermando che un libro del genere non avrebbe potuto essere scritto da una donna e che, certamente, il vero autore dovesse essere proprio il Currer Bell riportato su carta (pseudonimo maschile della stessa Bronte); né tirare in ballo Virginia Woolf e il suo saggio fondamentale Una stanza tutta per sé; ci sono due esempi molto più attuali che dimostrano questo: J.K. Rowling, spinta dal suo editore a firmarsi con le sole iniziali così da non allontanare i lettori che non avrebbero provato interesse in un fantasy scritto da una donna, e il progetto L’ha scritto una femmina di Carolina Capria, autrice di narrativa per l’infanzia che racconta di non poter contare quante volte, in dieci anni di lavoro, si sia sentita ripetere da bambini e ragazzini che loro non avrebbero letto libri scritti da femmine.
Life is Strange ha segnato un importante punto di svolta in tal senso. Se escludiamo alcuni punta e clicca per computer adorati alla follia da una ristretta cerchia di appassionati, è stato uno dei primi videogiochi totalmente privi d’azione e con una donna protagonista ad avere una diffusione e un successo notevolissimi. Al netto di una scrittura non sempre impeccabile e, forse, un po’ troppo ispirata a tanto cinema indipendente statunitense, Life is Strange racconta una vicenda intima e piccola, fondata sui sentimenti e la riflessione anziché sul ritmo vertiginoso della sfida e del movimento. È stata una scelta rischiosa, compiuta però in un momento favorevole, e i traguardi raccolti dagli sviluppatori sono stati ampiamente meritati. Sviluppatori che, proprio in questi mesi, stanno portando avanti il proprio impegno anche sociale e politico lavorando al seguito del gioco, questa volta con protagonisti due giovani immigrati messicani il cui padre, all’inizio della vicenda, viene ucciso da un poliziotto.
Non concordo inoltre nel ritenere dei personaggi di finzione, quali che siano, più importanti del lavoro di un’attivista. Sono entrambi molto importanti. Partendo dall’ovvia condanna condivisa da ogni essere umano decente nei confronti della campagna di odio e violenza che l’ha investita fin dai suoi primi video, e dando per scontato che si può essere o non essere d’accordo su molti dei concetti da lei espressi, Anita Sarkeesian ha avuto il coraggio e il merito di scoperchiare un Vaso di Pandora che troppo a lungo era rimasto sigillato. Non solo ha puntato il dito nei confronti di una rappresentazione femminile spesso scadente (quando non del tutto svilente) nel medium, ma ha anche rivelato, tramite la mole di critiche, insulti, minacce e ingiurie che si è vista rivolgere, l’estrema tossicità dell’ambiente. Sia quello popolato dal pubblico, sia quello professionale, troppo impegnato a chiudersi a riccio e a formulare pietosi articoli di difesa pur di non fermarsi un istante a riflettere seriamente sulla questione.
Possibilità che pare particolarmente difficile soprattutto ad alcune delle maggiori realtà editoriali italiane, impegnate d’altronde fino a poco tempo fa a filmare le cosplayer e le addette alle pubbliche relazioni ritenute più attraenti nel corso dell’E3 (Electronic Entertainment Expo) di Los Angeles (prassi fortemente contestata, fra gli altri, dalla stessa Alessandra Contin e da Francesco Fossetti, responsabile editoriale di Everyeye.it).
Sempre su Official PlayStation Magazine di luglio 2018, intervistata da Andrea Maderna riguardo alla scelta “femminista” di una protagonista femminile, la produttrice esecutiva di Guerrilla Games, Angie Smets, ha risposto: “Ce lo chiedono spesso. Siamo olandesi, abbiamo sede ad Amsterdam e penso che in Olanda ci sia una grande uguaglianza, da parecchio tempo. E credo che questo abbia giocato un ruolo importante, nella cosa. Quando il nostro game director ha proposto Horizon… la protagonista era una donna fin dall’idea iniziale. Non ci abbiamo neanche pensato. A noi interessava solo creare un personaggio che funzionasse.”
Horizon: Zero Dawn è un gioco d’azione che pone un forte accento sull’esplorazione di un mondo gigantesco, e la sua protagonista è una guerriera in una società matriarcale. Probabilmente il fatto non è stato notato da molti videogiocatori, forse perché il contesto post-apocalittico che ha riportato gli esseri umani alla preistoria non ha dato il modo a Guerrilla Games di introdurre tematiche più contemporanee e attuali, o forse perché, semplicemente, l’intenzione originale era quella di creare un ottimo gioco d’azione e basta, proprio come scegliere una protagonista femminile senza un intento preciso dietro.
È questo infatti uno dei pochissimi casi in cui la comunità dei videogiocatori non è insorta sbraitando e inveendo contro i fantomatici SJW (acronimo per Social Justice Warrior), ovvero tutte quelle persone che, chiedendo una corretta e più varia rappresentazione di genere e l’abbattimento degli stereotipi che ancora persistono, si rendono colpevoli di introdurre la politica nei videogiochi.
“Fuori la politica dai videogiochi!” è infatti uno slogan diffusissimo, adottato da chi vuole godersi il suo passatempo preferito senza pensare ai problemi del mondo reale – è legittimo –, tanto quanto da chi relega il sessismo, la misoginia, la violenza e il razzismo a pretesto per attimi di pura, malsana goliardia.
Il caso più recente, in tal senso, ce lo ha fornito il western Red Dead Redemption 2, con la vicenda dello youtuber che in un video massacra di botte la “noiosa femminista” (e poi, in altri video, la lega e la lascia sui binari del treno, la dà in pasto ai maiali, e via dicendo). Ora, capite, è impossibile che la politica rimanga fuori dai videogiochi. Non solo per via del valore economico e sociale immenso ormai raggiunto dal medium, ma anche e soprattutto perché i videogiochi sono pensati, scritti, animati, progettati e programmati da esseri umani, con le loro idee precise, i loro dubbi, le loro riflessioni e i loro tentativi di dire qualcosa. Questo è un caso in cui avremmo potuto essere tutti uniti, ma non è stato così. Dimostrando di non comprendere che uno youtuber sta guadagnando dei soldi con un video in cui aggredisce virtualmente una suffragetta e sta conseguentemente spianando il terreno per una campagna d’odio e violenza nei commenti (c’è stata, ovviamente), moltissimi giocatori e perfino alcuni giornalisti del settore hanno preferito criticare l’articolo che raccontava il fatto e dire la loro su cosa realmente pensano delle femministe.
Perbenismo, scarsa propensione a farsi una risata, visione troppo radicale: i SJW sono le zecche rosse del mondo dei videogiochi. “Sono solo videogiochi” è il leitmotiv più apprezzato. No, non sono solo videogiochi – ci ha già pensato Spec Ops: The Line a dimostrarlo –, esattamente come non erano solo film o solo fumetti o solo romanzi.
I creatori di contenuti e chi fa divulgazione, soprattutto se seguiti da un pubblico giovanissimo, hanno una responsabilità immensa. È il momento che comincino a rendersene conto. Invece l’atto sistematico di fare spallucce di fronte a contenuti discutibili è la prassi.
Custer’s Revenge, videogioco pornografico per Atari del 1982, è noto fin dalla sua pubblicazione come uno dei punti più bassi mai toccati dal medium. Si trattava di un titolo in cui il giocatore, nei panni del generale Custer, aumentava il proprio punteggio violentando una nativa americana legata a un palo. La confezione, con la donna disegnata realistica ed erotica e il generale invece caricaturale e grottesco, dicevano tutto sui toni e le intenzioni del prodotto, nonché sul pensiero e l’intelligenza di chi lo aveva realizzato. Nel linguaggio fumettistico, rappresentare le figure umane in maniera essenziale e semplice è funzionale a garantire l’immedesimazione per più persone possibile; al contrario, caratterizzare nel dettaglio gli ambienti e gli oggetti serve a delineare al meglio il contesto e le forme di tutto ciò che, sullo sfondo, restituisce realismo. La confezione del gioco, quindi, da una parte trattava la nativa come un oggetto da conquistare e di cui abusare, dall’altro delegittimava i giocatori delle loro azioni perché giustificati dal filtro garantito dall’impersonare un omino brutto e cartoonesco che avrebbe potuto essere chiunque.
Oggi Custer’s Revenge viene ricordato per la merda immonda che è, ma la tecnologia arretrata dell’epoca e l’inevitabile filtro del tempo garantito dai pixel giganteschi lo hanno anche trasformato in un oggetto di culto e goliardia. Oltre due anni fa i PLAYERINSIDE, youtuber fra i più seguiti in Italia a occuparsi di videogiochi, in uno dei loro tanti video dedicati ai “titoli per adulti”, hanno parlato del gioco in questi termini: “Sì ma poi Pocahontas sembra più che consenziente, dai, diciamoci la verità. Il femminismo certe volte, fino a un certo punto…”.
E di tutto questo cosa pensano le videogiocatrici? A saperlo. Per ogni Angie Smets, Jane Jensen (autrice di Gabriel Knight), Jade Raymond (produttrice di Assassin’s Creed), Amy Henning (scrittrice e regista di Soul Reaver e Uncharted), Rhianna Pratchett (scrittrice di Tomb Raider e Mirror’s Edge), Kim Swift (game designer di Portal), Roberta Williamson (scrittrice e game designer di King’s Quest e del controverso Phantasmagoria) che ottiene riconoscimenti per il proprio lavoro e che entra nella leggenda del medium, le videogiocatrici continuano ad essere chiamate in causa solo quando qualcosa riguarda esclusivamente loro.
C’è un caso di molestie mentre si è immersi nella realtà virtuale? Nell’articolo si parlerà sicuramente di una giocatrice. Esce la ventesima recensione dell’anno su un gioco perfettamente fruibile da chiunque? Si farà riferimento ai videogiocatori potenzialmente interessati. Intendiamoci, la lingua italiana è quella che è, e le polemiche avvampate dalla volontà di declinare al femminile alcuni termini le conosciamo tutti. Ma “giocatrice” non è nemmeno una parola nuova, semplicemente ci si dimentica di tirarla in ballo più spesso, e fuori dai fatti di cronaca.
Nel corso del suo intervento al PolitiCamp 2018, la scrittrice, giornalista e attivista Giulia Blasi ha affermato: “L’ironia ha ammazzato l’impegno. Il meme sta massacrando il lavoro dell’intellettuale. La semplificazione totale della risata liberatoria sta completamente uccidendo la capacità dell’intellettuale di elaborare il pensiero. Il lavoro dell’intellettuale consiste essenzialmente in due cose: avere le idee, e comunicarle in una maniera che si capisca.”
Trovo che sia profondamente vero. Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty ci parla del meme e dei rischi potenziali dei social network nel 2001. Si tratta di un videogioco eccezionale, con una sceneggiatura che racconta e anticipa tematiche oggi attualissime. Ma non voglio parlare di questo. Voglio parlare del momento della storia in cui il protagonista, Raiden, dopo essere stato torturato si ritrova completamente nudo a gironzolare in territorio nemico per proseguire la sua missione.
Detestato all’epoca dai fan per via del suo aspetto femmineo e per aver rimpiazzato il precedente protagonista (il più virile ed eroico Solid Snake), Raiden corre nudo celando pene e genitali con le mani, facendo (se premiamo il tasto corrispondente) le stesse capriole a mezz’aria che compiva con il corpo nascosto dall’uniforme tattica: è un segmento esilarante e caricaturale della storia, proprio in prossimità delle battute finali, subito dopo una lunga scena di tortura.
Ancora oggi, la scena viene ricordata con grasse risate e sagaci battute inerenti la scarsa mascolinità del protagonista, dal corpo tutt’altro che erotizzato e oggettificato. Materiale da meme, prima che il meme e i social network esistessero. Con una protagonista femminile avremmo avuto tutt’altro materiale e tutt’altre battute.
Il creatore della saga, Hideo Kojima, riconosciuto oggi come un genio assoluto, è un personaggio tanto notevole quanto controverso. È capace di scrivere storie e sceneggiature profonde e struggenti – spesso inserendo un umorismo brillante in alcune trovate di gameplay – e, al tempo stesso, di consentire ai giocatori di muovere indipendentemente, mediante le levette analogiche del controller, i seni della donna che ci offre supporto psicologico sul campo e che ci sta parlando, o di farli ondeggiare se premiamo il tasto per velocizzare il dialogo, riducendola al silenzio (accade in Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots).
Silenzio di cui è consapevole vittima anche Quiet, l’unica donna – fatta eccezione per alcune comparse pressoché invisibili – di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain. Quiet sceglie il silenzio per ragioni di sceneggiatura: è portatrice di un virus delle corde vocali che si diffonde tramite la parola, ma indossa solo un tanga e un minuscolo reggiseno in una zona di guerra unicamente per fare piacere alla vista (l’escamotage narrativo, ad essere precisi, è che il parassita nel corpo della donna le consente di respirare e nutrirsi attraverso la pelle, in un meccanismo di fotosintesi che non vale però per i personaggi maschili infetti allo stesso modo).
Sono scelte discutibili, perfino riprovevoli, che difficilmente verranno riproposte nel prossimo gioco dell’autore. Stavolta non ci sarà una giovanissima e sconosciuta modella olandese trapiantata in Giappone a dare volto e movenze alla protagonista, bensì Léa Seydoux e Lindsay Wagner. Anche perché, al netto delle sceneggiature brillanti e delle bellissime trovate di regia, al momento la poetica di Hideo Kojima che denuncia gli orrori della guerra, di un mondo dominato dalla compagnie militari private e perfino l’utilizzo degli stessi videogiochi come strumento di propaganda, comunica anche tanto altro.
I personaggi maschili vantano una varietà decisamente maggiore, ma le cose potrebbero andare meglio anche per loro. Da loro ci si può aspettare che siano degli adorabili imbranati (il leggendario Guybrush Threepwood di The Secret of Monkey Island) o perfino dei reduci di guerra disperati costretti a delinquere a causa di un sistema economico, politico e sociale che non garantisce altri sbocchi (Niko Bellic in Grand Theft Auto IV), ma non si può immaginare che abbiano la pancia, o non siano atletici, o che non siano sempre pronti a tutto – a meno che non siano degli sfigati comprimari, beninteso –.
Nel 2012 Max Payne 3 ha tentato di proporci un protagonista ingrassato, distrutto dalla depressione e dall’alcol, perfino rasato a zero da un certo punto della vicenda in poi. Non c’è riuscito. Oltre ai frequenti e logorroici monologhi interiori dal taglio post-moderno, il gioco ci ripropone l’omonimo protagonista intento a smascherare una storia di corruzione politica in Brasile. Nonostante gli spunti molto interessanti della sceneggiatura, esattamente come in Tomb Raider il gioco fallisce nell’auspicabile traguardo di coniugare scrittura, intenzioni e interazione. Per tutta la vicenda, Max Payne non fa altro che ripeterci quanto stia compiendo la scelta sbagliata, quanto buttarsi a capofitto in quella pessima situazione sia un suicidio, quanto poco gli importi di vivere o morire purché riesca a rendere peggiore la vita ai responsabili dei suoi problemi, e noi lo guidiamo attraverso gli scenari ammucchiando cadaveri.
Mentre Lara Croft si ritrova suo malgrado a dover combattere e uccidere per sopravvivere, Max Payne si ficca in una storia più grande di lui perché è un eroe già in partenza: non ha niente da perdere, vuole solo fare la cosa giusta. Perfino, a metà della storia, sceglie di smettere di bere e ingerire antidolorifici perché, se anche lo avessero ammazzato, avrebbe almeno visto in faccia il suo assassino: un vero uomo.
La dinamica è quella della mascolinità tossica descritta perfettamente da Violetta Bellocchio. Il taglio hard boiled della produzione è palese fin dalle premesse, ma la scrittura ridondante che costantemente fa annunciare a Max le sue intenzioni e la sua noncuranza per il modo in cui possono andare le cose, finisce per svilire la drammaticità degli eventi e rende la narrazione nient’altro che irritante e quasi tragicomica.
The Cat Lady (2012) è un’avventura grafica dell’autore polacco Remigiusz Michalski. A differenza della maggior parte degli esponenti tradizionali del genere, il gioco mette quasi interamente da parte la risoluzione di enigmi spesso inutilmente astrusi per concentrarsi nel raccontare al meglio una storia che racconta di depressione, suicidio e disturbi mentali. La volontà di affrontare queste tematiche – e, soprattutto, la delicatezza e il rispetto con cui vengono affrontate – nasce dalle esperienze lavorative negli ospedali (prima di tornare in Polonia e dedicarsi allo sviluppo di videogiochi a tempo pieno, lavorava come infermiere in Inghilterra), e dalle viscerali letture sui forum dedicati.
The Cat Lady non solo presenta una protagonista, Susan Ashworth, estremamente umana e reale, ma tenta di dialogare con chi lo gioca grazie alle terribili e inusuali situazioni che propone, diventando un’esperienza catartica potentissima e unica. Se non siete persone che giocano, ma avete la curiosità e le tematiche forti non vi scoraggiano, questo è il titolo da recuperare. Nei periodi di saldi arriva a costare poco più di un euro, e la sua estetica sporca da fumetto e i pochi comandi con cui interfacciarsi lo rendono perfetto per chiunque.
Downfall (2016) è invece un remake del primo gioco di Michalski, riscritto e adattato per andare a incastrarsi in mezzo alle vicende di The Cat Lady. Il protagonista qui è Joe Davis, un uomo costretto a fare i conti con l’anoressia nervosa della moglie Ivy. Pensando di allentare la tensione nel loro rapporto, i due scelgono di passare qualche giorno di vacanza in un hotel, il Quiet Haven. È invece l’inizio di un incubo, una discesa nella follia in cui Joe, convinto della possibilità di salvare la compagna, incontra personaggi grotteschi e surreali e finisce col compiere azioni terribili.
Downfall racconta l’anoressia nervosa e la difficoltà di stare accanto a chi ne soffre con una lucidità che fa paura, dimostrando una maturità ben superiore a tantissimo cinema hollywoodiano che spesso finisce col restituire una sorta di fascino patinato all’argomento. Se è Joe che noi dobbiamo guidare attraverso la maggior parte della vicenda, è però Ivy che ne rappresenta il fulcro ed è su di lei che si concentra maggiormente la scrittura di Michalski. L’autore non si permette mai di giudicare il disagio della donna e i suoi comportamenti, lascia che siamo noi a farlo (o a non farlo) attraverso il consueto sistema di risposte multiple nel corso dei dialoghi. La nostra premura, il nostro risentimento o la nostra condiscendenza determineranno il corso degli eventi e l’epilogo della storia.
Dovrebbe essere chiaro: i videogiochi hanno tanto da dirci sulla società, su temi attuali che sempre più raramente vengono affrontati nel modo giusto, su noi stessi. Eppure tanti problemi ancora permangono, spesso a causa dello spirito conservatore e tradizionalista del pubblico stesso. Mettiamoci l’anima in pace: ci vuole tempo. Intanto, però, è importante continuare a coltivare uno spirito critico nei confronti di un mezzo espressivo e di comunicazione ancora giovanissimo, colpevole di tanti scivoloni forse a causa della sua rapidissima evoluzione strettamente correlata al progresso tecnologico. Fare finta di nulla non serve. Dire che tanto è solo un gioco, non serve.
È ora di smetterla, ogni volta che un giornale o un politico puntano il dito contro il mezzo, di indignarsi e reagire con violenza, odio e rabbia. In questo modo si finisce solo per dare loro ragione. Come persone appassionate del videogioco, riconoscere i propri errori, accettarli e tentare di arginarli in futuro è fondamentale per maturare come community; come sviluppatori, creativi e addetti del settore, fare ciò è necessario per realizzare opere e prodotti migliori. Il mondo dei videogiochi è immensamente vario, più che mai nell’ultimo decennio grazie al definitivo sdoganamento della scena indipendente.
L’arrivo sul mercato di un gioco che affronta tematiche LGBTQ o di un altro con una protagonista afroamericana non sessualizzata non è sintomo dell’inizio di una “dittatura buonista” che brama a strapparvi dalle mani il vostro passatempo preferito. Diamoci tutti una calmata.
È ironico chiamare in causa una presunta censura “politically correct” proprio quando scrittrici, creativi e designer tentano di affrontare tematiche attuali, scomode e politiche. Lasciamo raccontare loro l’attualità attraverso i videogiochi, proprio come romanzi, film, fumetti, musica e serie TV hanno sempre fatto.
Non esiste persona appassionata di videogiochi che voglia essere ricordata per aver causato il ritiro di Madame Bovary dagli scaffali dei negozi.
A cura di Roberto Grussu
Articolo pubblicato originariamente da Deeplay.it