Sex work in Giappone: storia del mestiere più vecchio del mondo
i sente spesso dire che il sex work sia il mestiere più antico del mondo, anche se la fazione delle mamme avrebbe da dissentire. La prostituzione si può trovare in qualsiasi angolo del mondo e in qualsiasi epoca storica, fino ai giorni nostri, e molto probabilmente esisterà fino alla fine dei nostri tempi. Il Giappone non è certo un’eccezione, anzi: forse è uno degli esempi più lampanti di come la prostituzione fosse profondamente integrata nella cultura di un’intera società per secoli e secoli.
Anche in Giappone il sex work è sempre esistito, ma con il passare dei secoli e l’evolversi della cultura questa pratica ha trovato diversi modi per farsi assimilare dalla cultura nativa della penisola. Sorvolando sulla prostituzione nelle zone rurali, poco organizzata e spesso intrapresa da pochi individui per centro abitato, nelle zone più popolose si poteva arrivare alla prostituzione per vari motivi. Alcune sacerdotesse buddhiste e shintoiste si prostituivano per compiere alcune cerimonie (prostituzione rituale), altre per sopravvivere quando i loro templi andavano in bancarotta. Si chiamavano aruki miko, (sacerdotesse viandanti) e, sebbene fornissero principalmente servizi di tipo religioso, furono presto associate con la prostituzione.
Alcune ragazze erano invece scelte sin dalla giovane età per diventare sex workers d’altissimo rango – oiran, forse le avete già sentite? Magari in One Piece? – e ricevevano una rigida educazione per diventare la donna ideale. Venivano ricercate in ogni angolo del paese e selezionate per la loro bellezza ed intelligenza ed educate per approfondire la loro cultura e abilità. Pochissime riuscivano a raggiungere questo rango, talmente prestigioso da renderle più ricche, influenti e rispettate di molti dei samurai dei loro tempi, versate nelle arti dell’intrattenimento, della poesia, della musica e della calligrafia. Purtroppo, la maggior parte delle donne si imbatteva nella prostituzione in circostante sfortunate. Molto spesso per povertà, propria o di un parente che le aveva vendute, magari per ripagare un debito; oppure, se colpevoli di crimini o reati. Questo tipo di sex worker, come potete immaginare, era la più comune e la più economica da “ingaggiare”.
Choose your fighter: le diverse tipologie di sex worker nel Giappone antico
Come qualsiasi cosa giapponese che si rispetti, ci sono diversi nomi per diverse categorie, per le diverse fasi dell’addestramento e la loro mansione. Le più famose, soprattutto qui in occidente, sono le geisha. La concezione comune occidentale, avvelenata da prodotti d’intrattenimento famosi, le vede come semplici prostitute vestite in modo sfarzoso. In realtà le geisha erano le accompagnatrici delle sex worker vere e proprie: il loro compito era quello di intrattenere gli ospiti, ad esempio con canti e balli, e avevano l’esplicito divieto di giacere con i clienti. Per questo motivo si recavano agli appuntamenti in coppia, in modo da controllarsi a vicenda, pena una severa punizione. Erano delle semplici artiste, di rango persino inferiore del delle sex work più basso, ovvero le yūjyo. Le apprendiste geisha, invece, erano chiamate maiko.
Purtroppo, ci fu un periodo in cui le geisha dovettero rivolgersi alla prostituzione come ultima scelta per sopravvivere. Quando il governo implementò una legge che proibiva alle geisha di fare spettacoli, sotto la guisa “donne=promulgatrici di morale indecorosa”, di fatto strappò loro il sostentamento, dal momento che impedì loro di guadagnarsi da vivere con le loro abilità ed arte. Come vedrete numerose volte durante questo articolo, il tentativo di stringere il cappio al collo delle donne e alla loro indipendenza per proteggere un fantomatico ideale di moralità aveva sempre e solo l’effetto contrario, ovvero quello di spingere le donne sempre più ai margini della società, verso la prostituzione, l’illegalità e la povertà.
Gli stabilimenti che fungevano da base operativa e casa per il sex work erano le famose case da tè (chaya): avevano infatti interesse a mantenere viva la competizione tra le proprie dipendenti e promuovevano una ferrea gerarchia. C’erano poi le kamuro, le giovani scelte per intraprendere l’addestramento per diventare oiran, che sarebbero diventate prima furisode shinzō, poi yūjyo e infine oiran. Oiran era il rango più alto che una sex worker potesse sperare di ottenere. Non era vista come una semplice prostituta, ma come la donna ideale: solo gli uomini più benestanti e colti potevano sperare di chiedere i suoi servigi, principalmente per “flexare” la loro ricchezza. Le oiran avevano diritto di veto sui loro pretendenti e, per poterle avvicinare, era necessario un rigido processo di corteggiamento che in totale poteva arrivare a costare l’equivalente odierno di diverse centinaia di migliaia di dollari. Nonostante la loro ricchezza e influenza, le oiran non erano libere e dovevano provvedere a tutte le spese che mantenevano le sue sottoposte e il suo costoso stile di vita.
I kagema, la prostituzione maschile e le differenze con quella femminile
La prostituzione organizzata maschile in Giappone ha fatto la sua comparsa in tempi decisamente più recenti rispetto a quella femminile – circa nel periodo Edo – e fu causata proprio da un veto sulla presenza femminile sui palchi degli spettacoli kabuki. Proprio a questo genere di teatro è legata a doppio filo la nascita dei kagema, ovvero il sex work maschile. L’allontanamento delle donne dai palcoscenici lasciò un vuoto nei ruoli femminili che venne riempito dai loro colleghi, che spesso dedicavano la loro intera carriera a quel genere di ruoli. Si parla dunque di onnagata, mentre di kagema per gli apprendisti. Durante il loro percorso iniziatico, una parte dell’addestramento prevedeva proprio di giacere con un uomo.
Forse proprio in virtù del loro genere, i sex worker uomini avevano una vita decisamente più facile rispetto alle loro colleghe. Generalmente, non erano trattati come schiavi né tantomeno avevano gerarchie. Le sex worker donne avevano clienti di qualsiasi background – l’importante era che pagassero – e potevano essere comprate “in esclusiva”, o addirittura “riscattate” dalla prostituzione ed essere prese in moglie da uno dei loro clienti. In questo caso, si parla di mi-uke. Dal momento che non esisteva il matrimonio gay istituzionalizzato, i kagema non avevano accesso a questa possibilità, ma potevano godere di una clientela più ristretta e, generalmente, più piacevole. Si parla infatti di monaci buddhisti e donne ōoku (che facevano parte dell’harem dello shogun), che venivano a sfogare i loro bisogni sessuali nei quartieri di piacere. Le kagema chaya, la loro versione di case da tè, forniva i servigi dei loro lavoratori sia a domicilio che il loro, al piano superiore del loro stabilimento. Con l’arrivo dell’occidente sul suolo nipponico, questa realtà fu improvvisamente abolita del 1842.
La “ghettizzazione” del sex work: yūkaku, i quartieri a luci rosse
Abbiamo parlato – e sicuramente avrete sentito parlare anche voi – dei quartieri di piacere, o quartiere a luci rosse giapponesi. Ebbene, il loro impero si protrasse per secoli fino ai giorni nostri, sopravvivendo persino alla Seconda guerra mondiale. Toyotomi Hideyoshi, shogun nel 1617, promulgò un’ordinanza il cui effetto fu di restringere le attività di prostituzione in un singolo punto della città per facilitare la riscossione delle tasse, il controllo del traffico e, ovviamente, della morale cittadina. Nacquero così gli yūkaku, che prosperarono e si allargarono fino a diventare quasi delle piccole città a sé stanti, nonché dimore dei teatri kabuki. I più famosi furono quelli di Tokyo, Kyoto ed Osaka.
Come potete immaginare, le condizioni di vita all’interno di questi quartieri a luci rosse erano pessime. Non esisteva alcuna forma di contraccezione e l’igiene non era delle migliori, quindi le malattie veneree brulicavano. I ranghi di sex worker più bassi spesso pativano la fame o le percosse. Per non parlare poi dei cosmetici dell’epoca, di cui facevano uso massiccio sia uomini che donne, e che si rivelarono tossici. La speranza di vita massima si aggirava intorno ai venti/trent’anni. Gli yūkaku vennero definitivamente aboliti nel 1956, quando venne promulgata la legge per la prevenzione della prostituzione. Quest’ultima venne spinta dagli occidentali occupanti, che la vedevano come una realtà inaccettabile e vergognoso. Ma riuscirono davvero nel loro intento? Riuscirono davvero ad eradicare il sex work dal Giappone?
Il sex work in Giappone al giorno d’oggi
La risposta, ovviamente, è no. In nessun luogo, lago o periodo si riuscirà mai ad eradicare il sex work. Si possono solo cambiare le regolamentazioni che lo riguardano. Il Giappone, dunque, ha scelto di spazzare sotto un tappeto una parte predominante della sua cultura, togliendole qualsiasi regolamentazione statale. Ma essa continua ad esistere, ovviamente; solo un po’ più nascosta. L’odierna fuzokuten (l’industria sessuale giapponese) abbraccia qualsiasi genere di materiale e attività vietata ai minori: dalla vera e propria prostituzione alla pornografia, dalle macchinette gacha con le mutandine usate fino alle soapland. E non pensiate che l’industria hentai e l’estremo fanservice presente negli anime ne sia completamente estraneo. Le soapland, comunque, sono forse la realtà che più si avvicina alle case da tè del passato. Le soapland, di facciata, sono dei bagni pubblici in cui vengono ingaggiate delle piacenti massaggiatrici… e spero che risulti palese quale sia il vero scopo della visita e del servizio offerto.
Per sfuggire alle morse della legge, qualora dovessero venire scoperti, verrebbe usata la scusa che non si fosse trattato di prostituzione, ma di passione spontanea: sesso libero e privo di transazioni. Ovviamente, manco a dirlo, in mancanza di una regolamentazione dello stato questo genere di attività sono finite in mano della yakuza. Anche in questo ambito, il Giappone opera sulla base di tatemae e hon’ne: finché il pubblico decoro viene (apparentemente) mantenuto, va bene tutto. Il governo quindi chiude gli occhi, principalmente per non pestare i piedi alla mafia organizzata e per propri interessi personali. Inoltre, se venissero dissolte anche queste realtà, le sex worker finirebbero in un ambiente ancora meno regolamentato, in condizioni ancora più disumane.
È palese che il governo, attualmente, non abbia intenzione di muoversi in tal proposito: in generale, per chi viene trovato colpevole di prostituzione le pene sono estremamente lievi, persino per chi si macchia di coercizione. È inoltre diventato virale, poco tempo fa, un video in cui una proposta per abolire la scappatoia che permetteva all’industria pornografica di sfruttare ragazze minorenni è stata accolta tra le risate generali. L’industria del porno giapponese è estremamente proficua, e pare non ci sia interesse ad applicare regole più stringenti, specie in un paese così misogino. Tuttavia, con il passaggio alla nuova era, c’è stato un gruppo di sex worker che ha visto il proprio ruolo originale restaurato: le geisha. Al giorno d’oggi, le geisha sono vere e proprie intrattenitrici, nonché ambasciatrici della cultura giapponese e insegnano ai posteri la loro arte e la promuovendo la cultura tradizionale del Sol Levante.