Dopo il discreto, ma abbastanza “conservativo” Black Widow, la fase 4 dell’ MCU prosegue al cinema con un film che porta qualcosa di nuovo nell’universo Marvel, almeno parzialmente
La prima particolarità di Shang-Chi è che è un film quasi “intimista”, non tanto nella narrazione, a tratti guascona ed effervescente come si conviene al filone, ma nelle tematiche. Si tratta infatti di una storia tutta a “conduzione famigliare”, semplice, tutta basata sul conto in sospeso tra Shang-Chi e suo padre, il famigerato Mandarino. Tony Leung interpreta un mandarino che non è il solito villain che sprizza malvagità e piani malefici da ogni poro. È un personaggio grigio, che ho molto apprezzato proprio per “rompere” in qualche modo il modus operandi con cui nell’MCU si racconta di eroi e relative nemesi, un personaggio che si muove tra cattiveria, tristezza e una lucida follia, scaturita dalla perdita di una persona amata.
Una ossessione che lo porterà ciecamente a compiere –naturalmente- qualcosa di estremamente sbagliato. Qualcosa che il nostro Shang Chi dovrà contrastare. Il nostro protagonista invece, è un personaggio meno sfaccettato, di certo non il massimo del carisma, si tratta di un personaggio un po’ con i piedi per terra e non particolarmente esuberante. Dove il suo ruolo non arriva a coinvolgere lo spettatore ci pensa fortunatamente l’amica e spalla Katy (Awkwafina), presente per tutto il film, a compensare con deliziosa simpatia sempre ben dosata e puntuale.
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Spezziamo però una lancia a favore del personaggio interpretato da Simu Liu: la sua caratterizzazione non è da buttare, non vorrei essere frainteso. Ha comunque un carattere solare e scherzoso che non mi aspettavo, che alterna alla serietà che si conviene ad una persona di solidi principi. Niente di più niente di meno. Dal primo, all’ultimo minuto del lungometraggio. Shang-Chi è questo dall’inizio alla fine. Perché non è un racconto di formazione, non c’è l’evoluzione del personaggio. C’è uno status quo iniziale che si mantiene per tutta la pellicola. Pare cominciare dall’atto finale in una certa misura, esplorarlo fino in fondo mentre nel mezzo tramite svariati flashback si racconta tutto quello che c’è stato prima, il trascorso di Shang-Chi e della sua famiglia. Un tipo di narrazione che funziona e non è così scontato all’interno dell’MCU. Come non lo sono molti stilemi del cinema asiatico che si cerca di introdurre nella pellicola, magari visti e stravisti in pellicole cinesi, ma di nuovo, inediti in questo filone di cinecomic. Parlo della filosofia del Tai-Chi, l’armonia con la natura che sovrasta caos e forza bruta, una certa austerità di personaggi, di momenti chiave del film, che fanno parte di un certo linguaggio cinematografico estraneo ai canoni occidentali con cui si sono raccontate finora le vicende di Iron Man e soci.
Naturalmente questo non significa che non si batta il martello duro su ciò che i fan del genere cercano in questa pellicola. Chiariamolo, la “gimmick” di Shang-Chi rimane l’azione, il combattimento, e in questo il lavoro di Destin Daniel Cretton è convincente. Sebbene le coreografie non raggiungono la complessità di quelle viste in certi prodotti in cui artisti marziali ultra esperti fanno dei numeri stratosferici, si trova un buon compromesso tra performance fisiche e spettacolo visivo coadiuvato da esplosiva messa in scena, che spesso lavora su più livelli, quello dei combattimenti veri e proprio che come detto sono discreti, e quello degli effetti visivi che permettono scene impossibili ed esaltanti (come la scena dell’autobus, dove mentre al suo interno si menano di brutto, all’esterno seguiamo il mezzo che si squarcia viaggiando a folle velocità nel centro di San Francisco).
In effetti questo scontato matrimonio tra arti marziali e grande, costosa, magniloquente messa in scena e uso della computer grafica, è qualcosa che si vede di rado nel cinema laddove le pellicole di genere solitamente sono molto più artigianali in tal senso e non hanno certo il budget di un film Marvel. Anche a livello puramente registico il film fa il suo. Non si inventa nulla, per lo più si ispira e prende in prestito grandi intuizioni di chi è venuto prima di lui (Old Boy, pellicole di Jackie Chan, ecc.), ma la messa in scena è sempre molto dinamica e questo è sicuramente un pregio. C’è poi anche una certa varietà stilistica negli scontri stessi: ci sono quelli più pirotecnici e aggressivi e quelli più eleganti, quasi dei balletti, che servono ad esprimere il rapporto tra i personaggi anche in situazioni di conflitto.
Shang-Chi La leggenda dei Dieci Anelli ha anche una certa vivacità nelle ambientazioni che si fa particolarmente apprezzare. Si passa da una location urbana ad una più “underground”, ma dove dà il meglio di sé in tal senso è nella seconda parte in cui si palesa una scenografia fantastica e bucolica fatta di creature mitologiche ispirate al folklore asiatico. Qui il film esprime le sue maggiori potenzialità ma purtroppo è anche dove vengono sfruttate di meno. A parte per il fatto che che di questo immaginario fantasy ne avrei voluto molto di più e dispiace sia esplorato superficialmente, anche le battaglie che portano a conclusione la storia di Shang-Chi non sono convincenti come quelle precedenti. L’apoteosi di effetti speciali ci illumina gli occhi senza dubbio, ma rimane la sensazione che si poteva fare di più in termini di epicità.
Insomma, Shang-Chi non è particolarmente brillante, è un film che tiene il piede in due staffe, cerca la compostezza del cinema asiatico in alcune fasi mentre dall’altra è molto più aderente ai canoni del cinecomic più classico. Questo non lo fa spiccare particolarmente in nessun versante ma d’altro canto, innegabilmente si tratta di un film divertente che scorre via che è un piacere, e che in qualche modo nel complesso offre un mood diverso dalla solita pellicola di Marvel. Certo con queste condivide tante ingenuità, ma forse anche per grazie alla sua dimensione più fantasy e quasi “fiabesca”, gliele si perdona più facilmente del solito.