Il piacere di camminare
Ultimo epigono di un genere (quello dei Walking simulator) che tanto ha proliferato in questa
generazione, Shape of the World è da pochissimi giorni disponibile su PS4, Nintendo Switch, PC e Xbox One.
Prima di avventurarci nei meandri procedurali di questo mondo surreale, è bene mettere in chiaro un paio di punti.
In Shape of the World non si fa niente. Non si hanno obiettivi, non ci sono ricompense ludico-narrative vere e proprie, non si progredisce parametricamente parlando, etc. È un gioco la cui appartenenza al genere si risolve in una tautologia: al giocatore, seguendo un mantra dedito alla sottrazione del superfluo, in fin dei conti, interessa una sola azione: quella relativa al camminare. Si cammina, infatti, si cammina e basta. Proprio perché, tranne per poche e mai essenziali gesti aggiuntivi, camminare è l’unica interazione fondamentale richiesta ai fini del risultato finale. Cioè del completamento del gioco.
Immerso in un mondo sconosciuto, il giocatore si troverà a errare attraverso una natura che si plasma e modifica il suo aspetto in risposta ai suoi movimenti. Come prima accennato, infatti, l’elemento della proceduralità caratterizza l’intera esperienza permettendo ad alberi, rocce, fiumi, grotte, laghi, e vari e bizzarri animaletti, di comporsi e scomporsi sotto i nostri occhi demiurgici. Raccogliendo dei particolari semi (unica forma di collezionabile presente nel titolo), potremo addirittura piantare degli alberi contribuendo ulteriormente a dar vita e forma all’orizzonte che ci circonda.
A perdita d’occhio
Se il pensiero prima di tutto passa attraverso l’occhio, è nel “vedere” che l’intera esperienza di Shape of the World si riassume e viene esplicitata. Perché pur non sfoggiando un comparto tecnico da urlo (anche se sotto c’è il sempre ottimo Unreal Engine 4) il risultato finale è decisamente appagante. Il lavoro artistico svolto dal team ha prediletto “architetture naturali” scarne, essenziali, riducendo al minimo l’utilizzo dei poligoni, quasi a voler restituire una tridimensionalità piatta; pennellate di colori mai banali rivestono queste superfici dando combinazioni cromatiche visionarie e fantastiche, al limite del lisergico misticheggiante.
Muovere la telecamera inzucchera i nostri occhi di un candore conoscitivo che annienta e permette di superare l’assenza di certezze. Il desiderio di scoprire cosa ci attenderà, cosa i nostri occhi vedranno, al di là di quei portali triangolari disseminati nella mappa di gioco diverrà la bussola dei nostri gesti fino a svelare un percorso, una sorta di destino, prima non presente. Archetipo millenario, la Montagna, è uno dei luoghi che meglio rappresentano il processo per cui l’esperienza, accumulata passo dopo passo, si fa conoscenza individuale e universale. E forse proprio questa è la metafora dietro al gioco: quella in cui non siamo altro che occhi gettati nel mondo che formano il mondo stesso e contemporaneamente costruiscono il proprio io individuale. O forse no. Forse quest’avventura, così sommessa e placida, non vuole altro che sedare il videogiocatore (abituato a ben altri ritmi, esigenze e nevrosi da iperstimolazioni competitive) tramite un’overdose audiovisiva (anche la musica che ci accompagnerà durante tutto l’arco del gioco ha un ruolo importante, ma purtroppo non riuscirà mai a spiccare e a sorprenderci) così coinvolgente e amniotica.
Verdetto
Shape of the World è un’esperienza affascinante, atipica, ma che, purtroppo, non convince fino in fondo. Infatti, qualche stridore, qualche elemento fuori posto emergerà ogni tanto, impedendogli di funzionare e far risuonare in accordo totale ogni sua singola parte. È vero, la durata, per la tipologia di gioco e di produzione indie, è buona (siamo intorno alle 2/3 ore per arrivare alla “fine”), né troppo esigua, né troppo dilungata solo per aggiungere ora al contatore finale, ma questo non basta. L’esperimento, non potendo contare sull’esenzione bonaria che si poteva dare ai “primi esemplari” del genere, avrebbe dovuto osare di più. Non tanto in termini estetico-tecnici, quando nel riuscire a riempire di sostanza una forma che a conti fatti rimane più cava del dovuto. Il soggetto, cioè noi giocatori, come un onironauta è sì piacevolmente trascinato da questa calda corrente caleidoscopica, ma il solco che si lascia alle spalle è un segno che svanisce troppo in fretta. Un sogno che funziona a metà.