Nola Darling is back in town!
Avrete sicuramente notato, in questi giorni, qualche vostra conoscente o amica su Facebook ma soprattutto su Instagram, postare una foto in bianco e nero con una scritta rossa in sovraimpressione: my name isn’t (…).
Netflix stesso ha creato un generator attraverso cui uploadare la propria foto e creare l’immagine riconoscibilissima della campagna #mynameisnt. L’hashtag si è diffuso in poche ore, diventando trend topic su twitter: il mio nome non è… cosa? Il mio nome non è bella, il mio nome non è tesoro, il mio nome non è un sorriso lo potresti pure fare, il mio nome non è pssst girati. Tutti appellativi con cui, almeno una volta nella vita, ogni donna si è sentita chiamare camminando per la strada, compresa la protagonista dell’ultima serie che abbiamo visto per voi: She’s gotta have it.
https://www.youtube.com/watch?v=whvPjWm7ZE0
Quasi 31 anni dopo quello che può essere definito il suo primo lungometraggio importante e in contemporanea all’ondata di accuse per molestie e stupri che coinvolge Hollywood e l’intero mondo del cinema, Spike Lee torna sui suoi passi, girando il reboot di Nola Darling (Lola, nella versione italiana), autoprodotto, montato e recitato dal regista stesso, in 12 giorni. Sceglie, come molti di questi tempi, la forma seriale, forse proprio perché la più vicina al pubblico in questo momento e la più adatta a far conoscere i personaggi ed empatizzare con loro.
Uscita per Netflix il 23 novembre e composta di 10 episodi, She’s gotta have it racconta di un’artista di Brooklyn e delle relazioni che la donna intrattiene con tre uomini diversi, con la sua arte, con le sue amiche, col suo quartiere in cambiamento. Si inserisce perfettamente in quel filone seriale su cui quest’anno Netflix ha tanto investito, il cui elemento ricorrente è la presenza centrale di una protagonista di colore fortemente caratterizzata, come Insecure, Dear white people e Chewingum: tutte serie fortemente politiche, calate nel presente e attente ai problemi contemporanei, soprattutto di integrazione e parità di genere. Lee riprende dunque l’idea iniziale del film, visto che le tematiche trattate sono ancora attuali, e riscrive però il soggetto insieme a due donne, Joie Lee, sorella del regista, e la due volte premio Pulitzer Lynn Nottage.
It’s really about control, my body, my mind. Who was going to own it? Them? Or me? I’m not a one-man woman. Bottom line.
Siamo a Fort Green, nel cuore di Brooklyn, quartiere prima popolare e ora colonizzato e reso di tendenza dagli hipster bianchi (processo che prende il nome di gentrification). Qui abita Nola, un’artista afroamericana, interpretata da un’affascinante DeWanda Wise (già vista in Underground), che cerca di guadagnarsi da vivere attraverso la sua arte e di trovare un equilibrio che le garantisca la felicità. Attorno all’artista ed alla sua vita gravitano tre uomini molto diversi fra loro, narrati e ripresi in un modo che sfiora la caricatura e la presa in giro: Greer Childs (Cleo Anthony), modello e fotografo dongiovannesco, estremamente dedito alla cura del proprio corpo; Jamie Overstreet (Lyric Bent), consulente finanziario, apparentemente maturo, protettivo e separato in casa con un figlio; Mars Blackmon (Anthony Ramos), ragazzo portoricano con la passione per il basket, divertente e disinibito. Con i tre, Nola intrattiene delle relazioni altrettanto differenti, e non lo fa in quanto indecisa, ma perché lei stessa si definisce una donna dalla sessualità libera, pansessuale e poliamorosa, capace di prendere da ogni relazione ciò che le serve e la fa stare bene. Eppure Nola si ritrova bloccata, non felice, in qualche modo definita non solo dai tre uomini della sua vita, ma anche dalla gente del suo quartiere e delle sue amiche.
Il turning point della storia è un avvenimento che la renderà più consapevole di ciò che vuole, di ciò che la circonda e di ciò che è: tornando a casa, dopo essere stata a cena da un’amica, viene fermata e molestata per strada. Quest’evento genera in lei un cambiamento: si scopre fragile, non poi così sicura, bisognosa di attenzioni e sicurezze, di protezione. Comincia in questo momento un nuovo percorso, anche artistico, in cui Nola, cerca di capire se stessa e le sue aspettative sulla vita, sull’arte e sull’amore, pure attraverso le sedute di psicoterapia. Nasce dunque il bisogno di Nola di esprimersi in maniera diretta, tramite la street art, contro il cosiddetto harassment da strada: stampa alcuni manifesti con la sua immagine e la scritta my name isn’t, con lo scopo di sensibilizzare ed attirare l’attenzione dell’intero quartiere sulla problematica. La campagna di Nola è direttamente ispirata all’opera street “Stop telling woman to smile” di Tatyana Fazlalizadeh, consulente artistica di Lee, iniziata nell’autunno del 2012 a Brooklyn e portata avanti con lo stesso intento di Nola.
A differenza di ciò che accadeva nel 1986, il centro della serie non è più soltanto la sessualità della donna, ma la sua personalità intera, i problemi del mondo contemporaneo riscontrabili nel microcosmo di Fort Green, lo sguardo definitorio maschile sull’intero mondo femminile, la psicoterapia, la gentrification dilagante, il movimento Black Lives Matter, la pressione a cui viene costantemente sottoposto il corpo della donna, gli stereotipi di cui la comunità nera è contemporaneamente vittima e fautrice e l’integrazione della cultura afroamericana (e la sua narrazione) nel melting pot artistico che contraddistingue Brooklyn. Ciò che Lee crea è un’opera che vorrebbe essere fortemente politica, in cui ogni episodio ruota intorno ad uno o più di questi temi, trattati a volte con leggerezza, altre con superficialità, attraverso il focus su un personaggio, il cui racconto descrittivo è affidato alla tipica ripresa del regista, che è diventata un po’ la sua firma: il carrello all’indietro, col personaggio fermo che parla.
Lo sguardo degli interpreti spesso buca la famosa quarta parete: non solo quello di Nola, ma quello di tutti i personaggi, punta la camera e rivolge le proprie parole – forse a volte un po’ troppo retoriche – verso lo spettatore, in un gioco reiterato di primi piani e soggettive che ben rendono l’indagine personale che Lee aveva in mente. Non a caso la stessa Nola ha una preferenza per i ritratti: anche qui i personaggi dipinti rivolgono lo sguardo in direzione del fruitore, rendendolo interlocutore privilegiato.
La già poderosa riconoscibilità artistica di Lee cresce di episodio in episodio, generando un collage di animazioni, rimandi al mondo del pop e alle influenze black, una fotografia impeccabile ed una regia distinguibile che alterna sguardi in camera a fermi immagine di copertine degli album e dei singoli che hanno fatto la storia della musica black, blues, rap, funk, r’n’b e jazz. Se c’è un qualcosa per cui non è il caso che vi perdiate questa serie, è esattamente la colonna sonora: curata nei minimi particolari, è un vero e proprio viaggio spirituale nella musica che ha risuonato per decenni nello storico quartiere di Brooklyn in cui il regista è cresciuto e a cui ha collaborato Bill Lee, il padre di Spike, che ha composto la sigla iniziale della serie.
Verdetto:
She’s gotta have it è una serie a tratti divertente, a tratti grottesca, che però non aggiunge niente di nuovo ed entusiasmante al listino seriale di Netflix, se non una colonna sonora strepitosa e un tentativo (purtroppo superficiale) di disamina dell’atteggiamento e dell’ignoranza generale che ancora regnano su tematiche come il desiderio e la sessualità femminili, la cultura afroamericana, la questione razziale negli USA, il poliamore. È comunque un prodotto visivamente ben confezionato e piacevole, scritto e diretto con sensibilità, e consigliato soprattutto se siete appassionati di musica e cultura black o fan sfegatati di Lee!