Signs Of The Sojourner è un viaggio fatto di linguaggio, dialoghi, villaggi, oasi e mediazione tra le genti. Saliamo insieme a bordo della carovana di Echodog Games verso orizzonti vicini e lontani che profumano di oriente e spezie.
Il vento si alza caldo e rassicurante, mentre scendo dal furgone che mi accompagna in questo ennesimo viaggio che compio per recuperare le merci di cui il mio negozio ha bisogno. L’odore della sabbia e quello delle spezie si mescolano creando una fragranza che mi è estranea ma contemporaneamente familiare, mi è già capitato di attraversare questi luoghi. Chissà se quell’allegro mercante di noci oggi avrà la preziosa merce di cui ho bisogno o se quel cane randagio che mi capita di incrociare lungo il cammino si sarà spinto così in là da arrivare fino a qui.
Avrò fatto la scelta giusta quando ho deciso di abbandonare quella carta? I dialoghi che sono davanti a me, da che parte mi porteranno? A queste, e a tante altre domande di viaggiatori e viaggiatrici, vuole rispondere Signs of the Sojourner.
Da avido appassionato di giochi da tavolo sono sempre affascinato da come, negli anni, chi progetta un sistema riesca ad adattare modalità che mi sono familiari in nuovi modi. Figuriamoci poi quando succede che le meccaniche che ho imparato a conoscere giocando da tavolo vengono trasposte in un altro mezzo, come in questo caso il videogioco. Signs of the Sojourner traduce – in una dimensione narrativa – le dinamiche di base della costruzione del mazzo in preparazione delle partite dei giochi à la Magic: The Gathering o di giochi definiti di genere “deck-building” come il classico Dominion (all’interno dei quali la costruzione del mazzo è parte del gioco e non atto esterno).
Tutto ciò viene unito a un’idea tanto bizzarra quanto incredibilmente funzionante e funzionale. Apprendere nuove combo di carte, giocare determinati semi e aggiungere/togliere carte dal proprio mazzo ha una finalità incredibilmente coerente con la sensazione che la meccanica crea in chi gioca: comunicare con altre persone.
Le carte sono frasi, i semi sono toni
Come già largamente anticipato, il cuore del gameplay di Signs of the Sojourner risiede nel susseguirsi di dialoghi che vengono astratti e resi a chi gioca come fossero delle partite di un gioco di carte. All’interno di queste sezioni, che rappresentano la maggioranza delle ore di gioco, alla giocatrice o al giocatore è richiesto di giocare dalla propria mano – estratta da un mazzo – delle carte che siano compatibili con quanto giocato dalla persona con cui sta parlando.
A seconda della scelta compiuta il dialogo prenderà pieghe positive o negative, svelando piano piano altri metodi secondari con cui è possibile aggirare e mitigare la fortuna delle pescate rendendo il gioco più leggibile da una prospettiva a lungo termine. Ed è proprio in questa ottica, quella della lunga di distanza che si presenta forse l’aspetto più complicato e sfidante dell’intero pacchetto: a prescindere dal risultato del singolo dialogo, sia esso andato a buon fine o meno, a chi gioca è richiesto l’obbligo di scartare per sempre una carta dal suo mazzo per fare spazio ad una nuova data in dono dalla persona con cui si è svolto il round.
Si svela dunque il cuore vero e proprio del gioco, che come il parlare presenta davanti a sé compromessi e incomprensioni che possono derivare da una fretta nel presentare un tono, o da un semplice (ma volontario) cambiamento degli usi linguistici non più compatibili con persone con cui prima era facile accordarsi. Signs of the Sojourner pone di fronte a chi gioca il peso della scelta tra l’avere un grande range di semi rappresentato da poche carte per ciascun tono, quasi come fosse una Torre di Babele portatile, o restringere le possibilità a poche variabili ma con rappresentanza più consistente. In un modo molto filologico con come davvero funziona un dialogo, il gioco presenta le barriere linguistiche usando analogie chiare ed efficaci che diventano strumento ludico per chi gioca e con cui deve inevitabilmente confrontarsi.
Mercanteggiare è un compromesso
In modo molto attinente, poi, si inseriscono tematica, ambientazione, narrazione ed estetica. La scelta di strutturare la storia raccontata in Signs of the Sojourner intorno a carovanieri, coltivatori, mercanti e semplici cittadini pronti a indicarci la giusta via si collega in modo estremamente limpido con la resa ludica del gioco. I due aspetti si inseriscono uno dentro l’altro finemente e senza particolari intoppi, dimostrando come l’arte del contratto sia fatta di accordi e disaccordi che possono essere trasposti anche in modo astratto se viene scelto un metodo che si avvicina a quel tipo di concetto.
A far crescere ancor di più il valore della produzione Echodog, poi e per concludere, è l’atmosfera rilassata che pervade ogni singolo e minuscolo pixel del gioco. I colori, le musiche, gli ambienti e i racconti dei personaggi – variegati ma tra di loro compatibili a quel concetto di contemporanea via della Seta che pervade Signs of the Sojourner – comunicano costantemente un bisogno estremo di rilassatezza e dilatazione dei tempi. Non si tratta, sebbene la difficoltà sia tarata verso l’alto, di un gioco da divorare con l’elaborazione di una strategia a lungo termine impeccabile quanto piuttosto abbandonarsi alle sue suggestioni.
Diventa necessario cedere al fascino estetico e ritmico del gioco, per poterlo apprezzare come merita. Assaporare ogni spezia esotica o bizzarra tazza di tè matcha – per quanto digitale – che ci vengono proposte dagli allegri e coloratissimi personaggi che incontreremo sul nostro cammino. Farci scalfire dalla sabbia sollevata dal vento mentre ci fermiamo a un falò con altri avventurieri o accusare la fatica – tradotta in carte inutili che “intasano” il nostro mazzo – perché abbiamo scelto di proseguire un po’ al di là delle nostre oggettive capacità. Signs of the Sojourner è un gioco sul viaggiare e parlare di questo quasi perfetto nella sua resa, capace di invadere con la sua pacatezza anche il più smaliziato dei pubblici. Chi gioca riceve non solo le merci per migliorare il suo negozio, o le carte per proseguire nell’avventura, ma anche l’eredità delle storie altrui di cui la propria è un tassello fondamentale.