Il silenzio della città insegue la metafora e il mistero, ma raccoglie solamente apparenza e superficialità
La mitologia del serial killer. Trauma principale, modus operandi nell’esecuzione degli efferati omicidi, mimetizzazione tra la gente, detective ossessionato dal suo caso che continua a perseguitarlo. Anche i grandi ritorni fanno parte delle metodologie degli assassini. Fermi per anni, gli assalitori aggrediscono nuovamente le loro vittime, riaprendo una ferita tanto nella propria psiche, quanto in quella di chi, dopo tempo, deve tornare a seguirne le tracce.
Tutti e pure più tasselli vengono intrapresi nell’opera Netflix Il silenzio della città bianca, tratto dall’omonimo romanzo di Eva García Sáenz de Urturi, pubblicato nel 2018.
È Unai López de Ayala (Javier Rey) a veder riaperto un caso che lo ha impegnato ormai venti anni prima, con il presunto colpevole chiuso in carcere, ma nuove vittime a giacere esamini nei posti storici della sua città.
È il serial killer dei morti dormienti, coppie formate da uomini e donne che scandiscono il tempo della vita cinque anni alla volta e che riprendono da dove l’omicida si era fermato. Un rituale che si ripropone identico e lugubre come da principio, a cui Unai va ad aggiungere la dipartita ancora da superare di sua moglie e del figlio che portava in grembo.
Quando si conoscono gli elementi thriller, ma non si è in grado di applicarli
Quella che presenta Il silenzio della città bianca è una sceneggiatura che, alla sua base, si struttura nel più classico e, nella maggior parte dei casi, più adatto dei procedimenti. C’è una narrazione in cui vengono disseminati vari elementi, c’è la ripresa graduale dei suddetti durante lo scorrere della pellicola, c’è l’intrecciarsi di vittime e salvatori che vanno gradualmente incontrandosi, arrivando a dover arrestare il perpetrarsi del male e, dunque, catturare il colpevole dei vari omicidi.
È, però, questa forzata volontà di aggiungere ogni singola componente del genere a creare nel film un respingente attrito, sapendo bene di cosa un thriller/mistery ha bisogno, ma non sapendolo tradurre in forma filmica.
Dal procedimento rituale di morte dei sacrificati, alla composizione dei loro corpi esamini in un simil abbraccio, alla spasmodica mania di ricollegare a ogni colpo omicida un proprio luogo e un proprio significato, Il silenzio della città bianca dimentica, però, la chiarezza generale, andando poeticizzando e enfatizzando lì dove il racconto servirebbe ben più limpido e esplicativo, dando per scontato che serva più un effetto a sconvolgere lo spettatore, piuttosto che un assai ben più efficiente rigore.
Nella farraginosità di molti passaggi, pensati per mettere al corrente il pubblico delle svolte dell’indagini e delle intime motivazioni del killer, sono sempre però delle spiegazioni approssimative quelle che muovono i passi degli agenti e del corrispettivo mortale, aumentando il senso di allontanamento d’interesse dall’investigazione e facendo così risultare ogni risvolto poco convincente.
Un rebus che allude all’ambiguità, ma non ne presenta alcun segno
L’enigma a cui Il silenzio della città bianca sottopone gli spettatori rimane, dunque, chiuso solamente su se stesso, ingarbugliandosi nella voglia spasmodica di apparire freddo e criptico, o bensì affascinante nel suo distacco che vuole alludere a ambiguità e mistero, ma finisce per scontrarsi con la dura realtà, rivelandosi solamente artificioso e discutibile in fatto di incognite e grattacapi.
Un rebus che, al peggio delle sue potenzialità, sa mostrare solamente la propria vacuità, tanto negli intenti, che nelle soluzioni e, ancor più, nel seguire il suo intrigo di fondo.
Una circoscrizione che si rifà solo a pochi personaggi, tutti ugualmente coinvolti, tutti a rivestire un ruolo di rilevanza all’interno della pellicola, così da sembrare un grosso attorcigliarsi di fili che si sovrappongono tra loro.
Una ripetitività e una (non) casualità eccessiva, che sovraccarica l’interazione dei protagonisti e non la presa sul pubblico, che trova l’eccessiva leziosità in ciò che è, già, fittizio e non permette di stabilire quel senso di illusione che il cinema è portato a dare.
L’insignificante metafora di un thriller e del suo serial killer
Pur con una fotografia e una regia che si manifestano curate, nonché coerenti non semplicemente tra loro, ma con il tono generale che la pellicola vuole instaurare, non è certo il solo buon utilizzo dei compartimenti tecnici a impressionare coloro che provano a seguire gli indizi del killer dei dormienti, proprio in virtù di quella poca presa che la storia è in grado di legittimare.
Una grande metafora che si presenta insignificante in relazione ai meccanismi sadici dell’assassino, per un film di facciata senza alcuna sostanza, dove quello che si cercava di portare alla luce con sensazionalismo, si apprende essere lo scopo più futile immaginabile.