Tutto quello che dovreste sapere, e anche di più, in attesa della nuova serie Gli anelli del potere
er comprendere la genesi di un’opera la cosa migliore è cercare di comprendere l’autore. Contestualizzare il momento in cui ha concepito un romanzo, una poesia, un racconto. Chi era quella persona? Cosa aveva attorno a sé?
Se siete un giovane addetto alle pubbliche relazioni di una centrale nucleare forse vi verrà voglia di raccontare cosa abbiate visto a lavoro, ma siete convinti anche che sia tutto troppo assurdo per essere creduti; quindi penserete di creare un romanzo comico che ne sia una metafora. Se siete un giovane giornalista inglese con idee progressiste negli anni Sessanta, non potrete fare a meno di prendere atto della dissoluzione dell’Impero Britannico, facendone il fulcro della vostra storia. O forse siete una giovane donna cresciuta a poesia e antropologia, capace di rimanere affascinata dall’uso del linguaggio dei popoli studiati, desiderosa di trovare il corretto funzionamento di quella magia che sono le parole.
Proviamo invece a immaginare che siate un giovane sottotenente dei fucilieri di Lancaster. La vostra vita è stata dedicata alla letteratura, al mito, alle leggende. A luoghi immaginari dove dominano la bellezza e i più alti sentimenti della razza umana. Ma in quel momento vi trovate sulla Somme ed è il 1916. La Grande Guerra infuria già da due anni e ne saranno necessari altrettanti perché finisca. Ciò che avete attorno a voi sono morte, distruzione, fame e malattia. E proprio mentre una malattia vi sconvolge il corpo, la vostra mente ricorda le poesie e i racconti che avete creato. Vi risvegliate su una brandina di ospedale, in attesa di essere rimandato in patria dopo aver sopportato la febbre da trincea. Personaggi, eventi e luoghi iniziano a collegarsi creando una storia più grande. Dapprima la caduta di una città. Poi il racconto di amanti sfortunati. Di uccisori di draghi. Di due alberi meravigliosi che donano luce a un intero continente. In una parola, il nucleo iniziale di quella che per molti lettori è oggi una Bibbia del fantastico, una delle opere più celebri di J.R.R. Tolkien: il Silmarillion.
Una storia complicata
Se il paragone con la Bibbia può far storcere il naso (forse lo stesso Tolkien, fervente cattolico, non lo avrebbe gradito) va detto che il Silmarillion, in comune con il testo sacro, ha una storia complessa e stratificata. Un percorso fatto di tagli, modifiche, ampliamenti e fasi di ispirazione diversa. Stabilire una data precisa di inizio dei lavori del Silmarillion è quasi impossibile, visto che al suo interno sono confluite storie e racconti che lo stesso Professore aveva concepito per quasi tutta la sua giovinezza. Tristemente più facile è stabilire la data di fine dei lavori: il 2 Settembre 1973, giorno in cui Beren si ricongiunse a Luthien. Tolkien lavorò per tutta la vita al Silmarillion, senza tuttavia mai vederlo pubblicato. Il suo stesso editore, Allen & Unwin, rifiutò l’opera nel 1937, ritenendola farraginosa ed eccessivamente complessa. Solo dopo la morte dell’autore suo figlio Christopher, con la collaborazione dello scrittore canadese Guy Gavriel Kay, decise di dare alle stampe l’opera, adattandola per essere accettata dal grande pubblico.
I timori dell’editore di Tolkien non erano del tutto infondati; il libro fu un insuccesso editoriale e attirò molte critiche su di sé. Critiche che ancora oggi non si sono del tutto spente. Ma perché tutto ciò? In origine il Silmarillion era un contenitore di racconti che il Professore scriveva per dare una storia e profondità alla Terra di Mezzo. Era la mitopoiesi tolkieniana stessa, quelle storie e quei racconti che sarebbero avvenuti prima e durante le gesta di Bilbo, Frodo, Gimli e Aragorn. I lettori più attenti avranno già notato un particolare nelle date. Tolkien continuò a lavorare sul Silmarillion per tutta la vita, nonostante un netto rifiuto (al limite della stroncatura) da parte del suo editore già negli anni Trenta. Perché allora continuare a coltivare qualcosa che non avrebbe mai ricevuto una stampa?
La risposta sta tutta nella volontà di dare quanto più spessore possibile alla propria ambientazione. Arda, più di qualsiasi altra ambientazione fantastica, è un mondo di cui conosciamo tutta la storia. Sulla base degli avvenimenti passati vengono determinati quelli del presente e del futuro della Terra di Mezzo. È una di quelle regole del fantasy troppo spesso dimenticate dagli autori e che in Tolkien, al contrario, ha trovato la sua massima espressione proprio nel Silmarillion.
Una teogonia del fantastico
La diretta conseguenza è che il Silmarillion di Tolkien non sia un semplice libro fantasy. Il termine più corretto forse sarebbe quello di una saga, sul modello dell’Edda o, meglio ancora, del Kalevala. In comune con il tomo finnico ha infatti quello di essere una raccolta di tutto il folklore e i miti di una tradizione. Poco importa che, nel nostro caso, si stia parlando di una mitologia artefatta, inventata dallo stesso autore. Questo aspetto risulta evidente anche nel modo in cui si dispongono le diverse parti della narrazione. Nel Silmarillion Tolkien ha condensato all’interno di un singolo volume delle ere intere. Milioni di anni che si susseguono all’interno dei vari racconti, disposti attraverso cinque parti che, come accennato prima, coprono la storia di Arda dalla creazione fino alla Terza Era, la stessa in cui si svolgono le vicende de Lo Hobbit e de Il Signore degli Anelli.
Le prime due parti del volume sono quelle che potremmo definire maggiormente mitologiche. Ad aprire il racconto è l’Ainulindalë, la Musica degli Ainur, il momento che potremmo paragonare alla teogonia di Arda. Nel primo libro del Silmarillion Tolkien immagina che la creazione del mondo sia avvenuta attraverso un canto, un grande tema musicale che la divinità Eru Ilúvatar propose ai suoi figli, gli Ainur, spiriti da lui concepiti prima che il mondo venisse creato. Il coro generato dalle Potenze darà forma all’universo e ad Arda, il pianeta in cui si trova la Terra di Mezzo. Tuttavia, nel corso della melodia, la dissonanza creata da uno degli Ainur darà anche spazio a concetti ed entità che non erano inizialmente previsti nel progetto di Eru, dando origine ai mali del mondo.
La seconda parte è il Valaquenta, nel quale ci vengono presentati i Valar e i Maiar, ovvero quegli Ainur che scelsero di lasciare la divinità per dedicarsi alla creazione del mondo. Ci vengono così raccontate le storie di Manwë, Varda, Ulmo, Aule, Yavanna e tutte le altre potenze che compongono il pantheon di Arda. Tra loro un posto particolare spetta a Melkor, colui che stonò per primo dal tema voluto da Eru. Desideroso di creare al pari della divinità, il Vala passerà molto tempo nel Vuoto, distante dai suoi fratelli. Questo lo porterà a concepire pensieri diversi e a deviare dal tema di Ilúvatar, per poi cadere nella malvagità quando la sua frustrazione si trasformerà in desiderio di distruzione, corruzione e dominio. Proprio lui e la sua ossessione per detenere i tre Silmaril saranno la causa di tutti i guai della Prima Era.
Tutto per tre gioielli
Quello che potremmo definire come il Silmarillion vero e proprio, ovvero i racconti della Prima Era della Terra di Mezzo, è narrato da Tolkien nella parte denominata Quenta Silmaril. Vi sono contenute le gesta dei principali esponenti dei figli di Ilúvatar, Eldar ed Edain, cioè elfi e umani. Tolkien presenta quindi la nascita degli Eldar, la loro divisione in stirpi, Vanyar, Noldor e Teleri, il loro viaggio verso ovest per dimorare in Aman e la conseguente diaspora. La storia degli elfi nella Prima Era è fatta di sangue, tradimenti e dolore, molto del quale causato da un unico esponente dei Noldor, ovvero Fëanor. Fu lui a creare i tre Silmaril, gioielli che contenevano al loro interno la luce dei due alberi sacri di Valinor, Laurelin e Telperion.
La distruzione dei due Alberi e il furto da parte di Melkor di queste gemme causerà l’ira di Fëanor e la contesa attorno al loro possesso. Il fabbro rivendica per sé le gemme da lui create, ma anche i Valar, poiché tramite esse sarebbe possibile ripristinare la luce degli Alberi. Sarà così che Fëanor, seguito dai suoi figli, pronuncerà un Giuramento impossibile da mantenere: rivendicare i Silmaril per la sua famiglia e non avere pace finché Melkor (ora rinominato Morgoth, “nero nemico del mondo”) non avrà restituito il maltolto. Le parole di Fëanor e della sua prole avranno un peso terribile. Tutti i Noldor verranno sostanzialmente maledetti da quella promessa, portando alla fine dell’innocenza per gli Eldar e l’inizio della loro rovina.
Le vicende narrate in questa parte del Silmarillion sono racconti che si legano proprio al conflitto per ottenere indietro i tre gioielli. Vengono quindi raccontate le gesta di numerosi eroi appartenenti alle stirpi di Eldar ed Edain allo scopo di sconfiggere Morgoth e porre fine alla maledizione che il giuramento di Fëanor ha inflitto a un intero mondo. Fingolfin, Turgon, Beren e Luthien, Turin e Tuor, Eärendil sono alcuni dei personaggi di storie che coprono un arco temporale di circa cinquemila anni. I racconti si mostrano tutti di varia natura e con stili e strutture diverse, segno della loro stratificazione temporale. A gesta tragiche, come quelle di Turin e Fingolfin, fanno seguito avventure dal sapore più romantico, come l’amore tra Beren e Luthien. Proprio l’avventura dei due amanti, i primi a unirsi tra elfi e uomini mortali, porterà alla prima vittoria contro il Signore Oscuro, sottraendo al Nero Nemico del Mondo uno dei tre Silmaril dalla sua corona di ferro.
Nonostante questo la fine di Morgoth giungerà solo quando Eärendil, mezzelfo nato dall’unione di Tuor e della principessa Idril di Gondolin, recherà un’ambasciata presso i Valar, chiedendo il loro aiuto per sconfiggere il Signore Oscuro. Mosse a compassione, le Potenze di Arda accetteranno di intervenire, portando alla sconfitta del loro fratello caduto. I due Silmaril rimasti saranno recuperati, ma l’avidità dei figli di Fëanor porterà alla loro scomparsa. Le gemme troveranno quindi collocazione nei tre elementi di Arda: un Silmaril nel cielo, per sempre legato a Eärendil divenuto stella; uno nelle viscere della terra; e uno nelle profondità del mare. Ma non sarà l’unico retaggio di una guerra che, a conti fatti, avrà ben poco di risolutrice. A questo conflitto sopravviverà infatti il luogotenente di Morgoth, il Maia caduto Sauron.
La caduta degli Edain e gli Anelli del Potere
Proprio Sauron può considerarsi il vero protagonista di Tolkien nelle ultime due parti del Silmarillion, le stesse che andranno a costituire la serie di Amazon Prime: l’Akallabêth e il racconto sulla creazione degli Anelli del Potere. La sua opera di corruzione risulta ancor più efficace di quella di Morgoth riuscendo forse a compiere ciò che al suo patrono non era mai riuscito: costringere gli Eldar a lasciare la Terra di Mezzo una volta per tutte. Ma è bene andare con ordine.
Il quarto libro del Silmarillion ci narra della caduta di Nùmenor, l’isola che i Valar donarono agli Edain quale ricompensa per aver combattuto con coraggio contro Morgoth. Questo reame a forma di stella vide succedersi venticinque sovrani, tra re e regine, che contribuirono a rendere l’isola dell’Ovest il più grande tra i regni degli uomini. Il racconto di Tolkien non è tuttavia basato tanto sulla sua gloria, quanto sulla sua decadenza, sui conflitti che, nel corso dei secoli, presero corpo nella sua popolazione, portando a un’insanabile frattura. A determinare questa scissione fu in sostanza una sola cosa: il fato degli uomini, ovvero la paura della morte.
Al momento della creazione degli Edain, la divinità aveva inteso la morte come un dono per i suoi figli secondogeniti. Tuttavia l’ombra di Morgoth si era stesa anche su di esso, trasformandolo in una condanna. Il terrore della morte aveva portato molti valorosi a combattere per il Signore Oscuro e spezzato l’unità nei popoli mortali. Anche i discendenti di quanti avevano combattuto al fianco degli Eldar non erano meno immuni a questo fato. Eccezion fatta per il mezzelfo Elros, figlio di Eärendil e fratello di Elrond, anche tra i nùmenoreani, capaci di vivere oltre i trecento anni, la paura della morte divenne un convitato di pietra capace di avvelenarne l’esistenza. Nel tempo sempre più uomini e donne iniziarono a provare astio verso i Valar e gli Eldar, a quali era stata concessa l’immortalità. Molti di loro smisero di pregare le Potenze di Arda e si nominarono Uomini del Re. Gli altri, coloro che invece mantennero rapporti con gli elfi e continuarono ad adorare i Valar, chiamarono loro stessi i Fedeli.
Lo scontro tra le due fazioni vide una netta prevalenza dei primi (detti anche nùmenoreani neri), che giunse al culmine con l’incoronazione del venticinquesimo e ultimo re dell’Ovest, Ar-Pharazôn il Dorato. Sfidato apertamente da Sauron, il sovrano mostrerà tutta la potenza del reame degli uomini sconfiggendo il signore di Mordor per poi portarlo in catene sull’isola, quale trofeo per celebrare l’ultimo grande trionfo degli Edain. Quella che sembra essere la grande vittoria degli uomini sarà invece la loro fine. Sauron, da schiavo, riuscirà a sfruttare le sue doti per diventare consigliere del re. Facendo leva sulla paura della morte di Ar-Pharazôn lo convincerà a costruire un tempio in onore di Morgoth, venerandolo come unica vera divinità e spingendolo infine a fare guerra ai Valar per conquistare l’immortalità. L’inganno avrà successo e Ar-Pharazôn muoverà guerra contro Valinor, un gesto che costringerà Manwe a evocare Eru. La divinità, colma d’ira, punirà i nùmenoreani distruggendo l’esercito del re, appena sbarcato nelle terre immortali, e distruggendo Nùmenor. Solo due gruppi di Fedeli si salveranno dalla tragedia, andando a fondare i reami di Arnor e Gondor.
Anche Sauron tuttavia non verrà risparmiato dalla distruzione dell’isola. Il suo spirito tuttavia ritroverà forma fisica, perdendo però la possibilità di assumere una forma piacevole agli occhi dei mortali. Fino a quel tempo, infatti, Sauron era stato in grado di assumere un aspetto piacevole e spacciarsi per un emissario dei Valar chiamato Annatar (signore dei doni). Proprio in questa veste aveva convinto i Noldor, in particolare i fabbri dell’Eregion guidati da Celebrimbor, a forgiare gli Anelli del Potere. Si tratta dell’ultima parte del Silmarillion, che si ricollega all’altra opera magna di Tolkien, Il Signore degli Anelli.
Come noto, nove anelli furono destinati ai re degli uomini sparsi sul continente. Sette furono donati ai nani. I tre più belli, Narya, Nenya, Vylia, furono creati da Celebrimbor in persona e destinati agli elfi. Ma Sauron ingannò tutti loro, creando l’Unico Anello, riuscendo così laddove aveva fallito persino il suo patrono. In effetti la distruzione dell’Unico Anello causerà la perdita di potere degli anelli elfici e un risvolto inaspettato: la progressiva rovina degli Eldar e il loro abbandono della Terra di Mezzo. I tre anelli erano infatti stati concepiti per preservare la bellezza di Arda e delle opere elfiche. Ma con la distruzione dell’Unico i loro poteri e tutte le opere buone create con essi vennero meno. Poco alla volta la Terra di Mezzo si spopolò di ogni magia e perse la bellezza che da sempre l’aveva contraddistinta, diventando un reame alle mercé degli uomini e dei loro sbagli.
Insomma, una vittoria finale per Sauron che, pur sconfitto, riuscirà con la sua opera a ottenere la fine degli Eldar e la corruzione definitiva della Terra di Mezzo e di Arda. Esattamente quello che Morgoth non era riuscito a fare.
Non chiamatelo romanzo
Alla fine di questo lunghissimo excursus nella trama del Silmarillion possiamo affrontare un’ultima questione, ovvero lo scarso successo del libro di Tolkien. Da sempre i racconti della Prima Era e della creazione di Arda sono lo spartiacque per quanti hanno letto le opere del Professore. Da una parte c’è chi ama visceralmente l’intero Legendarium ed elegge il Silmarillion a proprio libro guida nello studio di questi scritti. Dall’altro c’è chi proprio non riesce a farsi piacere questo testo, lasciandolo a prendere polvere sullo scaffale dopo poche pagine.
Il motivo è presto detto: il Silmarillion non può configurarsi come una semplice opera di evasione. Non è una lettura che possa essere facilmente letta da chi, aspettandosi una serie di racconti fantasy, si trova invece di fronte un testo che contiene al suo interno epica, filologia, ma anche metafisica e teologia.
Il Silmarillion è l’opera che più rappresenta Tolkien. Il suo carattere, il suo profondo amore per le lingue e le culture dell’Europa, la sua visione religiosa e il suo titanismo. In esso si condensano sia le influenze mitologiche che quelle teologiche dell’autore. I testi di riferimento spaziano dal Kalevala all’Edda, dalla Teogonia di Esiodo fino alla Navigazione di San Brandano. E questo limitandoci esclusivamente alle opere letterarie. Se aggiungessimo anche i testi filosofici e religiosi, che possono spaziare dal Timeo di Platone fino al Vangelo di San Giovanni, le opere diverrebbero così tante da non poter quasi essere contate.
In fondo il Silmarillion rappresenta il lavoro di una vita intera. In esso non posso che trovare corpo tutte le letture fatte da Tolkien nel corso degli anni. Dai racconti ascoltati dalla madre prima di andare a letto, fino alle letture fatte tra un incontro con gli amici del TCBS e una lezione di filologia a Oxford. Proprio queste letture devono aver rappresentato il rifugio più sicuro e confortevole per quel soldato febbricitante in una trincea sulla Somme. Un rifugio che, attraverso un’opera minuziosa, si è allargato sempre di più, diventando un intero universo narrativo.