Ritorna l’orrore sinistro, meno spaventoso di prima
Quando si racconta una storia per la prima volta, lo si fa sempre perché quella storia non solo è degna di essere raccontata, ma perché deve esserlo. Altrimenti se ne racconterebbe un’altra. Specie se si sta producendo un film, investendo fior di quattrini. Il primo Sinister (2012) è stato un vero e proprio “caso” cinematografico del suo genere. Prodotto spendendo relativamente poco, ha convinto critica (almeno in parte) e pubblico (quasi completamente), guadagnando parecchio, circa venticinque volte il suo costo.
Così si è deciso di fare un seguito. Quando si realizza un sequel, non lo si fa sempre necessariamente perché questo debba essere raccontato, bensì perché raccontandolo la fama acquisita dal neonato brand garantisce un certo introito. E se anche il suddetto sequel va decentemente, si mette in cantiere pure il terzo capitolo.
Questo è il caso di Sinister II. Con la consapevolezza di un target ben più ampio, quindi, si sono fatte determinate scelte di produzione. Non è detto, comunque, che ogni sequel cinematografico non previsto debba soffrire della sua eredità (anche se nel 97% dei casi è quello che succede), perciò andiamo ad analizzare la pellicola con ordine.
Sinister II ci presenta, per forza di cose, un cast diverso da quello del primo capitolo. Il Vicesceriffo che nel primo film aveva collaborato al caso di Ellison Oswalt è ora un Detective privato (James Ransone) che si ostina a indagare sul mistero delle stragi ricorrenti. Le tracce lo portano a incontrare Courtney Collins (Shannyn Sossamon, quella di Wayward Pines!) e i suoi due figli, il sensibile Dylan e il bulletto Zachary, in fuga dal marito-padre violento che però ha la legge dalla sua parte. Il contesto usato per il ritorno della mistica entità del Bughuul (Nicholas King) si rivela da subitissimo come la tipica storia-pretesto in cui incorniciare l’orrore di turno. Questo, per quanto meccanismo classico del genere, segna una prima importante differenza con il primo Sinister, che tracciava con maggiore diligenza personaggi e background, tanto da trattare i primi 45 minuti di pellicola come un thriller investigativo dai toni dark e inquietanti, e solo dopo convertire tutta la tensione accumulata in horror.
Sinister II è invece molto più diretto, user-friendly, “aperto” al grande pubblico, inevitabile scelta di mercato. Si può però essere contenti della conservazione del discorso meta-narrativo, intuizione quanto mai azzeccata e sviluppata in modo interessante e coerente anche in questo secondo capitolo, sebbene in tono minore rispetto al suo predecessore. Lo strumento utilizzato è sempre una misteriosa cinepresa rinvenuta insieme a dei filmini in Super 8 che ritraggono scene di violente stragi familiari girate in diretta dai bambini corrotti al servizio del Bughuul. Il parallelo che si instaura tra la pellicola sul grande schermo e quelle nel grande schermo è intrigante e sempre usato in maniera intelligente, senza strafare. Non vi preoccupate, non c’è traccia del solito found footage.
Non ci viene detto pressoché nulla sulla storia o sull’origine dell’Uomo Nero di turno, cosa nient’affatto obbligatoria in un horror, ma che forse sarebbe stata gradita proprio in ragione del fatto che il Bughuul costituisce una figura alquanto svecchiata e originale rispetto all’esercito di Boogeyman cinematografici degli ultimi anni, tutti nascosti dentro i nostri armadi e sotto i nostri letti, pronti a squartarci allegramente. Tanto più che il Bughuul è generoso di apparizioni (forse un pizzico di troppo, combinando allo stesso tempo molto poco: la cosa ci desensibilizza un po’ alla sua presenza, potenzialmente sempre terrorizzante), sapere qualcosa in più su di lui male non avrebbe fatto. Talvolta la conoscenza di un pericolo lo rende ancora più inquietante e spaventoso.
A proposito di cose spaventose, gli scarejump ci sono e funzionano, accompagnati da finte e contro-finte di sorta. Il problema semmai sta nell’atmosfera di tensione generale, indebolita da un ritmo non tanto basso quanto prevedibile, incapace di guidarci/gettarci verso l’ignoto e provocare in noi la caratteristica “paura di avere paura”, che nei buoni horror dovrebbe costantemente riempire lo spazio tra uno spavento e l’altro. Sinister II, invece, si svolge praticamente tutto senza grossi ribaltamenti o colpi di scena veramente imprevedibili.
Gli attori fanno il proprio lavoro, senza infamia e senza lode, considerati i ruoli circostanziali (per non dire stereotipati) che la sceneggiatura impone loro. Ci sono però sparuti momenti che riescono a sorprendere con punte inaspettate di ironia. L’ex Vicesceriffo, interpretato da James Ransone, è goffo e trascinato in eventi dai quali preferirebbe fuggire; è lui che incarna principalmente queste battute, che faranno storcere il naso a molti ma che, se interpretate come rappresentazione autoironica e matura del genere, vanno bene in coppia col discorso sul meta-cinema di cui sopra e mettono in risalto il contrasto con l’orrore, materia comunque giustamente preponderante.
La regia, benché tecnicamente “pulita”, risente della sostituzione di Scott Derrickson, regista del primo capitolo e coinvolto nel secondo solo a livello di sceneggiatura, con Ciaràn Foy. Quest’ultimo, abile nel ricreare scene visivamente destabilizzanti (soprattutto durante le “pellicole nella pellicola”), non riesce a ricreare perfettamente il terrore più dinamico suscitato dal capostipite della saga. Eh già perché ormai, nel bene e nel male, una saga è ciò che Sinister pare ineluttabilmente destinato ad essere.