Sesso e morte: un binomio antico come il mondo. Eppure negli horror slasher assume connotazioni particolari. Vediamo quali
Nato a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, lo slasher è uno dei sottogeneri più prolifici del cinema horror. In questo tipo di film, sostanzialmente accomunati dalla presenza di un “mostro” che ammazza un gruppo di persone (molto spesso giovani), hanno fatto la loro comparsa i villain più iconici del genere. A dirla tutta, è difficile anche parlare di villain quando la loro controparte nella storia spesso è sbiadita e la simpatia degli autori propende evidentemente verso il mostro. Si può dire, anzi, che negli slasher il personaggio principale è proprio il cattivo.
Va da sé che talvolta si finisce per fare il tifo per il Freddy o il Jason di turno, anche perché – diciamocelo – quel gruppetto di ragazzi con cui se la prendono finisce per stare antipatico anche a noi. L’horror è divisorio, è ambiguo, ci mette davanti ai nostri istinti più feroci. Ci fa sentire un po’ sporchi, ma consente una momentanea sospensione del comune senso di giusto e sbagliato. In fondo, quante volte capita – da spettatori, lettori, giocatori -di lasciarsi avvinghiare da opere di cui non condividiamo la morale?
Il fatto che si crei una discreta ammirazione (spesso, non sempre) verso i mostri (se ci decidessimo di comprare una t-shirt di Nightmare, sceglieremmo quella con Freddy Krueger o quella con Nancy Thompson?) non deriva solo dal design accattivante o dalla sceneggiatura. O, meglio, questi fattori sono nutriti a loro volta da un meccanismo psicologico che agisce su un livello più profondo. Ma andiamo per gradi.
Lo sventurato caso di Jason Voorhees
Non il primo, ma tra i più rappresentativi del genere, Venerdì 13 di Sean S. Cunningham racconta la vendetta postuma di Jason Voorhees, un ragazzino affogato nel Crystal Lake. La genesi del mostro è rivelata durante il film e porta lo spettatore 23 anni prima dei fatti raccontati, quando Jason, preso di mira da alcuni bulli, viene spinto in acqua. La responsabilità, oltre che dei suoi coetanei è, però (anzi, soprattutto) degli animatori del campo estivo che, invece che tener d’occhio i ragazzi, si erano appartati per amoreggiare.
Non a caso, una volta riemerso dall’oltretomba, Jason se la prenderà con un gruppo di adolescenti arrivati al Crystal Lake Camp con lo scopo di divertirsi. Il linguaggio disinibito, così come i comportamenti disinvolti di ragazzi e ragazze saranno puntualmente puniti dal killer, che consumerà in una notte (quella di venerdì 13, appunto) una carneficina. Se c’è qualcuno che riesce ad arrivare fino alla fine e a essere testimone del colpo di scena finale, quella è Alice Hardy (Adrienne King). A differenza degli altri, Alice è la classica brava ragazza, che non sottovaluta il pericolo e che non cerca distrazioni nelle effusioni o nella droga. In qualche modo, Alice “si merita” di sopravvivere.
Senza svelare il finale, gli omicidi di Crystal Lake Camp hanno l’aura del pareggiamento di conti per quegli animatori irresponsabili che hanno lasciato che un ragazzino innocente fosse spinto nel lago. Colpevoli, hanno permesso che il vizio li distraesse dal loro dovere e tutti quelli come loro dovranno affrontare il giudizio sanguinario dell’ombra di Jason.
Slasher, sesso e Incel.
Se andiamo a prendere altri classici del genere come Nightmare in Elm Street, Non aprite quella porta, Halloween troviamo tante variazioni sullo stesso tema.
Da un lato abbiamo un gruppo di ragazze avvenenti, più o meno emancipate, più o meno disinibite. Quasi sempre rientrano in età scolastica e sono – dunque – coetanee dello spettatore medio. Insomma, sono delle Stacy e delle Becky, per dirla secondo un codice che sarebbe stato stilato diversi anni dopo. Spesso, se non sempre, sono accompagnate da Chad, i cosiddetti maschi alpha: i quarterback dell’immaginario da college americano, o quelli un po’ tenebrosi – come il giovanissimo Johnny Depp in Nightmare. A volte, questa compagnia è integrata da un Cuck (andatevi a rivedere Non aprite quella porta).
Tutti questi nomi fanno riferimento alla terminologia Incel, un fenomeno molto più recente degli slasher ma che ha cristallizzato proprio questa ruolizzazione estrema e stereotipata. E, rispetto agli slasher, fa molta più paura. Dunque, le Stacy sono quelle ragazze irraggiungibili, le cheerleader, che hanno dimestichezza con il sesso sin da teenager e che costituiscono, il più delle volte, il sogno proibito di ogni buon nerd. Le Becky, invece, sono ragazze più dimesse, che non hanno troppi grilli per la testa e, nella maggior parte dei casi, sono vergini.
Ce lo spiegano anche Drew Goddard e Joss Whedon…
…in Quella casa nel bosco. Il film del 2012 scritto da Drew Goddard e Joss Whedon (creatore di Buffy, tra le altre cose) è una guida formale e concettuale dell’horror. I due autori mostrano esattamente come il pubblico richieda che i personaggi rispondano a dei cliché. E, se non lo richiede consapevolmente, sicuramente ne sono soddisfatti e rassicurati. Essi ipotizzano [attenzione, spoiler!] che la ricorrenza degli stereotipi narrativi faccia parte di un rituale di sacrificio verso degli Antichi Dei. Per tenerli buoni e per evitare che la loro ira si abbatta sull’Umanità, bisogna che ogni anno si immolino cinque archetipi: la Puttana, l’Atleta, lo Studioso, il Buffone e la Vergine. Anche qui si evince una connotazione femminile basata principalmente sui comportamenti sessuali.
Inutile dire che gli Antichi Dei di Goddard e Whedon sono gli spettatori stessi, e che la ciclicità indichi una codificazione da cui è impossibile uscire. Ci ritorneremo.
L’annoso problema del sesso negli slasher
Nonostante la furia omicida dei mostri sembri non seguire alcun criterio logico, le vittime sono più o meno sempre le stesse. In un certo qual modo, la morte – che dovrebbe essere più cieca della fortuna – si abbatte secondo un criterio moralista. Anzi, il pubblico è solleticato nei suoi istinti più sadici con il giudizio silenzioso del: “Beh, un po’ se l’è meritato“.
E quando, invece, un’eroina arriva fino alla fine (e qui non possiamo non citare Jamie Lee Curtis – Laurie Strode in Halloween) un po’ ce lo aspettavamo. Laurie, in effetti, è l’esempio perfetto: dolce, sensibile, giudiziosa, intelligente. La classica bella ragazza un po’ timida e insicura, l’unica che a scuola rivolge la parola anche al più sfigato dei nerd. Anche le origini del villain Michael Myers sono legate a una certa sessuofobia. Come racconta Rob Zombie nel suo remake/prequel del 2008, il primo omicidio di Myers è proprio quello della sorella maggiore Judith, sorpresa a fare sesso con il fidanzato invece di tener d’occhio, come chiesto dalla madre, lui e la sorellina di due anni.
Meno legata al sesso è la storia di Freddy Krueger, che presenta – tuttavia – dei dettagli interessanti e coerenti con il discorso.
L’eroe è il mostro
Un elemento interessante che accomuna la Trinità dello slasher, Freddy, Jason e Michael Myers, è l’essere stati vittime di bullismo. Brutti, sgradevoli dentro e fuori, emarginati, derisi dalle ragazzine e irrisi per la loro sessualità immatura. Negli anni Ottanta, essere nerd non era un motivo di vanto come da qualche anno a questa parte. Come sappiamo, la fagocitazione fashion del fumettaro, del cinefilo di b-movies o dell’amante dei videogiochi è un fenomeno molto recente.
Dice Stephen King nel suo Danse Macabre che il segreto di un buon horror sta nel saper leggere lo spirito dei tempi. Ad esempio, i film sulle invasioni aliene andavano per la maggiore quando in America c’era il terrore dei Sovietici. Queste strane creature sicuramente malintenzionate, decise a conquistare e a distruggere tanto avevano la pelle grigio-verde nei film quanto una stella rossa sul colbacco nella realtà.
Gli slasher anni Ottanta hanno saputo leggere i desideri più nascosti degli spettatori. Hanno saputo intercettare la loro rabbia, frustrazione sessuale e senso di inadeguatezza. Gli Incel prima che esistessero gli Incel, prima che si sentissero forti delle loro pillole rosse. Prima dei social, c’erano Freddy, Jason, Michael a compiere le vendette virtuali di rifiuti, bullismo, senso di inadeguatezza.
Quello che rende speciale il genere horror, e lo rende a suo modo indispensabile, è proprio la sublimazione delle pulsioni più impronunciabili dello spettatore. Sullo schermo si compie una sorta di catarsi e – come nel finale di Quella casa nel bosco – basta il sacrificio fittizio di personaggi immaginari, senza spessore e personalità, per placare momentaneamente quello che ribolle nello stomaco degli Antichi Dei.