Allo Smack! 2017 di Genova Stay Nerd ha avuto il grandissimo onore di intervistare Ivo Milazzo, maestro del disegno e del fumetto italiano, tra le tante altre cose creatore del leggendario Ken Parker (insieme a Giancarlo Berardi) e, collaborando con Ettore Scola, autore di Un Drago a Forma di Nuvola, edito da BAO Publishing. Ecco com’è andata, nel resoconto della nostra intervista.
Innanzitutto, grazie mille per questa intervista. Una prima, classica domanda: spesso le grandi cose nascondo da idee semplici… Da dov’è nata l’idea di Ken Parker?
Si inizia dalla preistoria, eh? Dunque… È nata innanzitutto dal desiderio di esistere professionalmente. Allora, Bonelli faceva solamente fumetti d’argomento western, anche se io e Giancarlo Berardi non volevamo più farlo, perché ci sembrava che ormai come genere avesse detto tutto quello che c’era da dire. Però l’occasione ci fu data da un editore che si occupava soltanto di western e quindi abbiamo dovuto cogliere l’attimo e fare questa storia che ci veniva offerta. All’inizio, doveva essere un racconto unico, ma andando avanti Sergio è rimasto così coinvolto da quello che esprimevamo col disegno e col testo che ci ha dato la possibilità di continuare, dando il via ad un’esperienza che si è protratta fino al 1998 e poi all’ultima apparizione, nel 2015.
Nel momento in cui avete sviluppato il personaggio per la prima uscita era molto diverso da quella che è stata la versione definitiva, “seriale”. Come si è evoluto per lo sbarco continuativo in edicola?
Intanto, quando ci è stata data l’opportunità di realizzare la serie da Bonelli, non avevamo idea in che ginepraio ci stavamo ficcando. Neanche fossimo stati degli editori noi stessi. Una testata in pianta stabile ha delle esigenze che noi, in quanto giovani autori, non conoscevano. Quindi il bisogno di essere puntuali con le consegne, di creare più storie possibili, secondo le necessità editoriali, rendeva difficile concretizzare quello che volevamo fare e infatti realizzare più di tanto non è stato possibile. Ho conosciuto colleghi che avevano fino a 100 pagine al mese da terminare, anche se non sempre, dunque uno sforzo creativo notevole che dovevo fare pure io, sebbene non arrivassi ad un simile carico di lavoro. Ma tranne questo che riguarda la produttività , ci è stata data l’opportunità di diventare professionisti veri, perché abbiamo potuto sviluppare ulteriormente il personaggio, che inizialmente avevamo solo abbozzato, e crescere come autori.
Sempre su Ken Parker, forse tra i motivi del suo successo c’è stato quello di essere un eroe atipico rispetto ai suoi contemporanei. Avanti nel tempo, complicato, controverso, più umano, una lezione che il fumetto e gli altri media hanno poi ripreso nei decenni successivi. Pensi che questa lezione sia stata assimilata nel modo giusto?
Penso di sì, nel senso che noi abbiamo appreso dagli autori che si sono potuti esprimere prima di noi, come Hugo Pratt e tante altre grandi firme italiane e straniere. Ci siamo formati su di loro, su cose che già preesistevano. Poi noi, due parti creative sullo stesso prodotto, avevamo lavorando insieme la possibilità di perfezionare quelle idee e di essere più attendibili e più credibili, di rendere il nostro lavoro più professionale e di saperlo sviluppare nel miglior modo possibile, avevamo l’opportunità di creare un nuovo modo di comunicazione meno didascalico e più demandato alla tecnica cinematografica, dove al lettore si chiede di seguire con attenzione ogni passaggio visivo e di testo. Lui deve metterci il tempo giusto, a seconda del disegno e delle parole messe o non messe. Quindi, è lui l’autore degli avvenimenti, noi siamo dei tecnici che devono usare l’esperienza per comunicare al meglio la forma narrativa con cui vogliamo trasmettere un’emozione. Lavorare tanti anni insieme ha dato a me e a Giancarlo l’opportunità di collaborare fino al famoso Respiro e Sogno, quattro storie mute che in qualche modo hanno raggiunto un’idea di perfezione narrativa, nata non da noi ma da chi l’ha fruita a vari livelli. Certamente ogni innovazione, se è congrua, se ha la capacità di comunicazione adeguata e sa trasmettere al meglio quell’emozione data dalle parole e dalle immagini, diventa una sorta di scuola per quelli che vengono dopo.
Abbiamo citato il cinema. In un momento come questo, il cinema e il fumetto internazionale guardano spesso l’uno all’altro, a volte imparando a vicenda o rubandosi qualcosa. Secondo te, perchè questo non succede con i media italiani? Eppure, il bacino del fumetto italiano da cui attingere sarebbe estremamente ricco, ma non viene per nulla sfruttato.
È vero in parte. Il cinema italiano è molto artistico, meno industriale di quello americano. Anche il francese si avvicina un po’ al nostro, fin dagli anni 50′. Ci sono stati vari registi che hanno espresso delle pellicole d’autore, com’è accaduto anche da noi. Questo ha impedito di realizzare film mediati dai fumetti, ma conta fino a un certo punto. Siamo un po’ provinciali e abbiamo soprattutto la tendenza a guardare tanto all’estero e importare le produzioni altrui, fuori da casa nostra. Poi è vero in parte perché ci sono delle difficoltà strutturali. Ad esempio, il genere western, che oggi prevede un certo tipo di produzioni per essere eseguito alla perfezione, non con gli effetti speciali che sono già un’altra cosa. Volendo lo puoi anche fare, ma mancherebbe la fascinazione della realtà , che lo schermo verde non può per forza di cose ricreare, per quanto sia bravo l’addetto.
Però, in America negli ultimi tempi c’è stato un ritorno dei western…
Sì, ma ci auguriamo che vengano fatti nella maniera giusta, perché non è facile realizzarli in modo credibile. Di fatti bene, citerei l’ultimo di Clint Eastwood, molto realistico, e forse Appaloosa, che è abbastanza credibile dal punto di vista dell’impostazione narrativa, ma non è proprio semplice accedere a quel genere. Spesso è più facile fare la fantascienza, dove gli effetti speciali abbondano, rispetto al western. Comunque, si tratta di una mia visione. Speriamo che la situazione cambi.
Recentemente si è discusso molto sul web riguardo alla figura dell’artista. Secondo te, chi è l’artista?
Allora, i termini “arte” e “artista” io non li amo molto, perché ritengo che siano stati decisamente abusati. Chiunque fa un mestiere strano è un’artista, ma in realtà chi pratica le arti dovrebbe essere uno che fa un genere di comunicazione con una dote particolare, personale, però con la possibilità che sia arte, ovvero che sia capace di cambiare i gusti di chi guarda o i punti di vista all’interno del genere di riferimento. Cambia la forma e diventa più efficace, a seconda dell’interpretazione dei posteri. Dunque, la figura dell’artista è polivalente, ma dipende molto dalla realtà di chi si esprime, dalle sue potenzialità e da quanto quello che lui ha fatto riesca a mantenersi nel tempo e a creare una sensibilità nuova.
Quale credi che sia una qualità imprenscindibile del fumettista?
Saper lavorare e la voglia di raccontare delle storie attraverso varie inquadrature. Chi narra, è come chi scrive un libro: ha una serie di fogli che gli permettono di sviluppare un racconto. Il fumettista fa lo stesso, solo che al posto dei fogli ha le immagini. Oggi rispetto al passato è cambiato molto il modo di fare fumetto, sia per l’aspetto tecnico che editoriale, perché ci sono più possibilità e meno regole. Non a caso, le nuove generazioni sono molto più libere e hanno metodi di lavoro differenti.
A tal proposito, secondo te, c’è qualcosa che le vecchie e nuove generazioni possono imparare l’una dall’altra?
Io credo sempre che ogni giorno possiamo imparare qualcosa, oltre che da noi stessi, dall’esperienza. Io lavoro in questo campo da 46 anni, ma posso incontrare domani un giovane che mi dà una nuova prospettiva grafica e personale che mi insegna qualcosa. Non è detto che io con la mia esperienza debba per forza insegnare. Posso trasmettere quello che ho imparato attraverso i miei percorsi della vita, però credo che ogni cosa possa insegnare qualcosa ad un altro. Sicuramente, la nuova generazione ha possibilità che non esistevano nella nostra, maggiore libertà , anche se ciò può essere una penalizzazione. Essere eccessivamente liberi rischia di impedirti di concretizzare il lavoro, perchè magari una scadenza dilatata ti dà un tempo di ripensamento continuato dove vai a fare un cesello di qualcosa che dovrebbe arrivare in maniera immediata, sia dal punto di vista grafico che letterario. Avere qualche limite di permette di essere concreti nella realizzazione del prodotto.
Ultima domanda: parliamo di Un drago a forma di nuvola. Cosa puoi dirci di questa collaborazione con Ettore Scola?
Credo che solo il fatto di aver conosciuto Ettore Scola sia stato un regalo della vita. Quando rivedo i suoi film e la sua capacità di creare situazioni umane, che in qualche modo ricorda anche la nostra visione narrativa con Ken Parker, non l’eroe ma la persona comune che si ritrova in circostanze credibili, di cui spesso è testimone e non risolutore. Spesso, la vita ci pone davanti a delle questioni che possiamo solo osservare, ma non risolvere. Quindi, conoscerlo e addirittura lavorarci insieme per me è stato incredibile. Una persona di massima cultura, che nonostante fosse più grande di me di quindici anni aveva una straordinaria disponibilità e un’indescrivibile umanità . Tanto che alcuni pensavano che lavorare con lui fosse addirittura penalizzante, dato che realizzare una sua sceneggiatura poteva presuppore una certa leggerezza nelle fasi di lavorazione. Io gli ho comunicato ogni pagina che completavo, stando insieme a lui, collaborando direttamente ed un paio di volte è intervenuto per darmi dei suggerimenti, senza insistere più di tanto, con una grande apertura mentale, senza imporre nulla. Soprattutto, è un’amicizia che è stata per me una scuola di vita, nonostante la lontananza. Ci potrebbe essere la possibilità di una seconda collaborazione, ma diciamo che c’è qualche problema in più per un paio di questioni: uno perché manca lui, uno perché la sceneggiatura è tratta da un libro di cui sono stati presi i diritti allora e abbiamo avuto qualche difficoltà di tempistica nel trovare lo scrittore e i giusti equilibri. Poi, lavorare con altri che non siano Scola non è proprio la stessa cosa. Ognuno la pensa a modo proprio, per esperienza personale, per cultura, dunque è un po’ più complicato. Se ci sarà la possibilità di farlo ne sarei felice, perché è una specie di promessa che avevamo condiviso un mese prima che Scola mancasse, quando era venuto a Genova.