Stay Nerd, all’edizione 2017 di Smack!, fiera del fumetto di Genova, ha avuto l’onore e il piacere di intervistare Andrea Broccardo, giovane abilissimo disegnatore nostrano già al lavoro su Star Wars e in Marvel, su eroi come Doctor Strange e Spider-Man, oltre che in Italia per Sergio Bonelli Editore. Scopriamo insieme com’è andata la nostra chiacchierata, nel resoconto della nostra intervista!
Ciao Andrea! Innanzitutto, grazie mille per questa intervista. Iniziamo con qualcosa di semplice e diretto. Come hai cominciato la tua carriera di fumettista? È sempre stato quello che sognavi di fare?
Assolutamente sì. Ti rispondo in maniera sciocca: ho cominciato la carriera di fumettista disegnando. Prima di arrivarci, ho fatto di tutto: il commesso per un negozio di telefonia e videogiochi, il corriere, il magazziniere… Di tutto. Nel tempo libero mi è sempre piaciuto disegnare, durante la pausa pranzo, durante le serate, prima di uscire con la fidanzata. Sempre disegno, disegno, disegno! C’è stata poi quest’ottima occasione di presentare un portfolio ad una fiera di fumetto a Mantova, dove sono stato notato da un disegnatore della Bonelli che mi ha preso con sé, “a bottega”. Ho iniziato sotto la sua ala, apprendendo i trucchi del mestiere e lavorando su Brendon, che poi ha chiuso, e su Nathan Never. Successivamente, visto che sono sempre stato orientato al mercato dei supereroi e ho sempre amato i prodotti Marvel e DC Comics, ho deciso di cogliere la palla al balzo, durante una vacanza negli USA in bassa stagione, ad ottobre. In quel periodo c’era il Comicon di New York: ho fatto un giro per gli stand, parlando con tutti, e alla fine tra le case editrici che mi hanno ricontattato c’era anche la Marvel. Mi hanno affidato delle prove che sono andate bene e, circa venti giorni dopo, mi hanno proposto di lavorare con loro su Star Wars.
Ecco, parliamo un po’ di questo “viaggio della speranza”…
Sì, con le valigie di cartone… (ride)
Come ti sei preparato per i colloqui al Comicon?
Non avevo idea di cosa avrei affrontato. Sul sito del Comicon non ci sono regole base o guide, quindi sono andato ai vari “panel” con molta sincerità e un po’ di sana ignoranza, chiedendo a chi potessi mostrare il mio materiale. Alcuni non fanno la cosidetta “portfolio view” in fiera, altri ti permettono di lasciarlo, altri ancora ti danno un feedback immediato. Marvel, che aveva questo stand gigantesco, stupefacente, li prendeva e ti chiedeva di tornare la sera stessa, o ancora meglio la mattina del giorno dopo, e aveva una lista con tutti quelli che avevano presentato i propri lavori. Sulla lista era scritto chi era stato ammesso ai colloqui col direttore editoriale, che si occupava di esaminare gli aspiranti disegnatori. Tra questi c’era anche il mio nome, fortuna che avevo fatto il biglietto per due giorni di Comicon! Vado a sostenere questo incontro, una chiacchierata sostanzialmente simile a quella che stiamo facendo noi, cosa che mi ha messo molto a mio agio, con questo editor fantastico di nome Ricki. Gli piacevano i miei disegni, mi ha detto cosa funzionava e cosa no, e poi mi ha dato il suo biglietto da visita. In seguito, mi ha ricontattato chiedendomi se volevo fare delle prove. E il resto è storia.
Quando hai saputo che ti avevano preso?
È stato un sabato mattina, la fine di una serata che si era conclusa molto ma molto tardi. Ero a casa da solo, mi sono svegliato verso l’ora di pranzo e ho controllato le email. A quei tempi facevo piccoli lavori su commissione e nel frattempo stavo valutando la possibilità di mandare in porto un libro d’infanzia. Mi connetto e trovo questa email mandata da un certo Jordan. Pensavo che fosse il classico spam che ti arriva sempre nei momenti sbagliati, poi la apro e scopro che era l’editor capo di tutto il mondo comics di Star Wars in America. “Ciao, sono rimasto impressionato dalle tue cose. Ti va di fare Star Wars: Rebels?”. “Minchia!” è stata la risposta. Cioè, in realtà gli ho scritto “Porca vacca!“, ho dovuto tenere i gridolini isterici da nerd dentro di me. Ma è andata bene.
Tra l’altro, gridolini isterici che immagino saranno continuati, dato che hai lavorato anche su personaggi storici come Spider-Man e Doctor Strange. Com’è stato?
Figo, fighissimo. Se una cosa ti piace, viene fuori la tua passione, sulle tavole. Fai conto che io sono un super appassionato di Star Wars fin da quando ero bambino. Avevo i personaggi, i pupazzi, i fumetti, le magliette, tutto il repertorio. E tu vieni e mi dici di disegnare Luke Skywalker, che ritraevo sempre quando ero ragazzino. Mi sono divertito. Mi diverto, e spero che questo risalti nelle tavole. Lucas Film, la casa di produzione della saga, come la Marvel, è molto precisina, ti fa le pulci un po’ su tutto. Sono rimasto soddisfatto, il che vuol dire tirare un sospiro di sollievo. Idem per Spider-Man, di cui mi piacerebbe fare altro, perché alla fine ho fatto solo parte di un numero. Sarebbe fighissimo avere una storia, una miniserie, ma spero di averne il tempo più avanti. Anche fare gli X-Men mi è piaciuto tantissimo. Diciamo che finora mi è piaciuto tutto (ride).
A questo punto, è d’obbligo chiederti cosa pensi dell’ultimo film in uscita a dicembre.
Bene, sono gasatissimo. A molti non sta piacendo come Disney sta gestendo la saga, perché c’è una pellicola all’anno, e dicono sia diventato troppo commerciale. Star Wars è stato creato per essere commerciale. Fin da quando eravamo ragazzini c’erano i pupazzi, i gadget, le magliette, aprivi i cereali e trovavi i giocattolini. Quindi non è vero che è diventato più commerciale. Secondo me hanno dato risalto a quello che i fan volevano. Lucas con la trilogia prequel ha fatto qualcosa di nuovo, ampliando ciò che già aveva realizzato. Con i film recenti siamo tornati un po’ a quello che c’era prima, in sostanza, allo stile classico, perché i fan volevano sapere di più sulle tre storie degli anni ’70/’80. Comunque, se facessero uscire un film nuovo di Star Wars ogni sei mesi io sarei contento.
Non stancherebbe?
No, direi di no. Purché siano fatti bene.
C’è un personaggio della Marvel che non hai ancora disegnato e ti piacerebbe affrontare?
Sì, Daredevil. Mi piacerebbe un sacco. Non so se ne sarei in grado, perché lo stile richiesto sulla serie è molto cupo, pieno di ombre, di tratteggi e di atmosfera. Non è esattamente nelle mie corde, io sono uno dalla linea chiara, solare. Infatti i fumetti che finora sono usciti sono molto colorati, accesi. Daredevil richiede un’ambientazione più urbana, però mi piacerebbe provare.
La serie Netflix ti è piaciuta?
Sì, di brutto. Di brutto davvero. Non ho amato molto Luke Cage e Jessica Jones, che mi hanno un po’ annoiato, ma Daredevil…
Iron Fist l’hai visto?
Non ancora, perché ero su Star Wars. Appena la vedrò mi potrò esprimere anche su quella.
Vai, te lo chiediamo alla prossima intervista!
Volentieri!
Riguardo alle recenti polemiche scatenatesi sulla strategia di Marvel di accompagnare i vecchi eroi o addirittura sostituirli con loro versioni rinnovate, cosa ne pensi?
È bello che non si rimanga fossilizzati, come fanno altre case editrici, che mantengono scolpiti nella pietra e nell’eterna giovinezza personaggi che fanno sempre le stesse cose. Da fan accanito, posso dire che amavo lo Spider-Man che leggevo da ragazzino, con Peter Parker perennemente sfigato, senza lavoro, con le ragazze che lo mollavano e Zia May cagionevole di salute, però devo dire che mi piace anche quello fumettistico odierno, un po’ alla Tony Stark, ricco, che ha l’azienda. In effetti Peter è di base un piccolo genio della scienza, cosa che molti si sono dimenticati nel corso degli anni. Amo lo Spider-Man di Miles Morales e lo stile realizzativo di Sara Pichelli. Lo trovo veramente splendido, perché ricorda quello dell’epoca d’oro. Trovo bello che si siano attualizzati e abbiamo puntato al pubblico che deriva dai film. Probabilmente il ragazzino che andava al cinema e rimaneva impressionato, poi voleva affacciarsi al mondo del fumetto, che comunque è molto complicato. I fumetti di supereroi, se non c’è qualcuno che ti ci introduce, è un autentico groviglio: tutto si incrocia con tutto, gente che muore, gente che ritorna…
Quasi come una soap-opera.
Sì, esatto. Un po’ lo è. Stan Lee ha inventato il concetto di “supereroi con superproblemi”, dandogli un’aria da soap-opera che a me piace. Anche perché il nuovo Thor al femminile e il nuovo Wolwerine al femminile non cancellano le storie che sono fatte in precedenza, che vale sempre la pena recuperare. Quelle nuove sono un’altra cosa ed è giusto che ci siano. Forse perché ci lavoro e apprezzo i cambiamenti. Non mi piacciono le cose che rimangono sempre uguali.
È un po’ anche un modo per svecchiare senza bisogno dell’ennesimo reboot.
Esatto. I reboot proprio non mi piacciono, cancellare tutto per ripartire da capo. La Marvel ha fatto un mezzo reboot, anche se non si trattava di un vero punto d’inizio, perché non si narravano nuove origini dei personaggi. Sono ripartiti prendendo nuovi autori e iniziando storie nuove.
Comunque, con l’arrivo dei film ci sono state collane, come Season One, che ri-narrano le origini dei personaggi ad un pubblico neofita e possono essere un ottimo punto di partenza per poi passare alle serie regolari.
Sì, senz’altro. Le origini di alcuni personaggi hanno 50/60 anni sul groppone, e bisogna ri-contestualizzarle: Tony Stark che era diventato Iron Man durante la Guerra del Vietnam, oggi lo diventa in Afghanistan, per fare un esempio. Probabilmente tra quindici o vent’anni lo faranno nascere durante qualche altro conflitto, anche se speriamo che non ce ne siano.
Quali sono le differenze che hai riscontrato tra i ritmi produttivi americani e italiani?
Di quelli italiani alla fine non ho una così grande esperienza. Per quel poco che posso dire, ho notato un ritmo più lento. C’è una maggiore ricercatezza, magari di un tipo di linguaggio non esattamente statico ma in un’atmosfera che viene costruita nell’arco delle 94 pagine che compongono l’albo classico Bonelli. A parte Dragonero, che ha una sua continuity interna, Nathan Never e forse Orfani, le varie testate classiche hanno storie che iniziano e finiscono nello stesso numero. Quindi realizzi delle trame che prendi dal primo momento fino all’ultimo. Alcuni disegnatori sono più rapidi e sfornano più albi, e i più lenti meno. Diciamo che in Marvel, per fare un esempio, ho consegnato il 20 marzo le tavole di Star Wars e il 31 di maggio saranno già fuori. Quindi un mesetto per impaginarlo, colorarlo, inserire i dialoghi e si va in stampa. La roba che hai fatto la vedi subito andare verso la fine del percorso. In Bonelli ci sono alcune testate che hanno anni di produzione già pronta, che uscirà via via. Anche il linguaggio narrativo è diverso. Nel fumetto americano hai venti tavole e nella scelta registica devi raccontare un po’ di tutto, scontri, dialoghi, soap, a volte perfino colpi di scena con cliffhanger che ti fanno venire voglia di continuare. Sviluppi la storia in quattro o cinque spillati che poi verranno raccolti in volume. Diciamo che il mercato americano ha una produzione molto più veloce e molto più frenetica. C’è chi la ama, come me, perché lavorando in fretta hai la possibilità di scolpire meglio il disegno e il tratto, evitare d’infilare mille orpelli, dettagli nel disegno che servono a poco, rischiano di appesantire la narrazione e stancare un po’ l’occhio.
Quindi ad un giovane disegnatore italiano in questo momento consiglieresti di provare all’estero o di restare in Italia?
Dipende dallo stile di disegno e da quello che vuole fare. Ci sono tanti ragazzi che alle fiere ti fanno vedere il portfolio, ti chiedono consigli, ma non pensano a quello che è il mercato di riferimento a cui proporsi perché gli manca l’esperienza. A volte c’è chi ha un taglio realistico, ma vuole entrare in Marvel, o manga. Non devi pensare a quello che leggi o che ti piace, ma a quello che sai fare. Magari sei bravissimo e hai uno stile che ricorda quello di Toriyama o Kishimoto, però vuoi fare Dylan Dog. No, perché il tuo stile non è quello. Bisogna cercare di capire le proprie doti e scovare il mercato migliore dove poterle esprimere. Bonelli ha un sacco di testate splendide che vale la pena provare, sono molto fiscali e precisi dal punto di vista della ricercatezza del tratto, del linguaggio, uno stile molto realistico. Marvel, invece, come altre case editrici americane, ha dei personaggi che si sposano
con stili differenti. Probabilmente, lì c’è più sperimentazione che da noi.
Ultima domanda: non sei l’unico disegnatore italiano alla Marvel…
No, sono tantissimi. Sono in buona compagnia.
Pensiamo a Marco Checchetto, Sara Picheli, Mirka Andolfo…
Con Marco ci ho lavorato. È un grande, lo definirei “fatato”. Abbiamo lavorato insieme durante un crossover su Star Wars e io ero super-preoccupato perché avrei dovuto collaborare con alcuni decani della Marvel. Lui è stato tranquillissimo, mi ha aiutato molto, mi mandava delle dritte. Spesso ci sentiamo su Facebook o via telefono.
Infatti, i nostri sono decisamente “fatati”, visto il successo negli USA. Quali pensi che siano i maggiori punti di forza della scuola italiana in America?
Non saprei. Penso che loro apprezzino questo tratto europeo che forse a loro manca. Loro hanno una cultura del fumetto strettamente legata al supereroe. Se tu vai in qualuque fumetteria americana, tra action figure e comics, la merce esposta è al 90% supereroe. Noi abbiamo molta più roba, da Ken Parker, alla scuola francese, Lanciostory e Scorpio che rappresentano tutta la scuola sudamericana… Quindi tanti disegnatori italiani, oltre che essersi fatti le ossa sui supereroi, hanno letto moltissimo altro. Io mi ricordo che il Dylan Dog che leggevo da ragazzo aveva artisti bravissimi, tipo Bruno Brindisi, o perfino il Topolino di Cavazzano. Io mi ricordo che all’epoca disegnavo con uno stile disneyano e facevo queso Dylan Dog orribile, con un taglio da Topolino che non ci azzeccava niente. Poi, crescendo, anche se ti evolvi, certe linee, certi tratteggi, li mantieni. Forse, molto semplicemente, noi artisti italiani abbiamo più influenze.
Perfetto, abbiamo finito. Grazie mille ancora per quest’intervista da tutta Stay Nerd!
Grazie a voi!