Malick to Malick
Il cinema di Malick fa sempre lo stesso effetto. Ti coinvolge e ti sconvolge, ti annienta, ti emoziona, ti turba. Può anche annoiarti, sconquassarti un po’, persino nausearti. Ma di certo non ti lascia indifferente.
Non fa eccezione Song to Song, pellicola che sarà distribuita nelle sale italiane a partire dal 10 maggio, e che può contare su un cast stellare, dove figurano Ryan Gosling, Rooney Mara, Michael Fassbender, Natalie Portman, Cate Blanchett, e tante altre sorprese.
Song to Song vive di antitesi.
Contrapposizioni che sono alla base del film e ne costituiscono l’andamento l’altalenante, coadiuvate da un tema di fondo – tanto caro al caro Malick – che ne favorisce l’ondeggiare: ovvero le difficoltà dell’amore.
L’opera si sviluppa come un triangolo amoroso, che diventa poi un quadrilatero, poi un pentagono e infine si modifica ulteriormente.
Il racconto procede, ma lentamente e oscillando, mentre Malick con dovizia di metanarrazione approvvigiona l’opera di continue antitesi, quelle a cui si accennava in precedenza. Tutto rientra, appunto, nella metanarrazione con cui il regista esaspera il significato che vuole dare alla sua storia, e ci mostra una frequente alternanza di paesaggi che vanno dagli sconfinati spazi verdi e naturali (alla The Tree of Life) al chaos ingestibile dei rave party dove si ammassano infinite quantità di persone, per regalarci poi – qualche secondo più tardi – una veduta solitaria ed incontaminata.
Gli estremi si fondono nella figura di Michael Fassbender, il Re della musica ed il Dio del Denaro, che vive in una realtà tutta sua, che si fa fatica quasi a contestualizzare per quanto Malick la renda extradimensionale, e dove il Lusso è il vero protagonista. Qui, nel mondo di Cook, assistiamo a quei passaggi sconfinati ma dalla piscina gigantesca di una villa megagalattica.
Chi è, quindi, Cook aka Fassbender?
Egli rappresenta il Male.
Da Cook parte l’intreccio che genera dubbi, insicurezze, paure e instilla il maligno nell’animo delle persone che vengono a contatto con lui. Una strada che ci porta ad una visione decisamente critica nei confronti della società, ed in cui entra prepotentemente la malickiana interpretazione filosofica dell’essere umano e di come si pone al cospetto delle difficoltà.
Malick ci lascia spazio per riflettere a lungo su come le persone si snaturino ed il male cresca dentro di loro.
Tutti, meno che BV, ovvero Ryan Gosling. Se Fassbender rappresenta il Male, Gosling recita la parte del Bene, a cui però Malick dona una vena d’umanità, come a ricordarci che non saremo mai del tutto perfetti. Ad ogni modo ci presenta questa contrapposizione in maniera netta, gestendola tra emozioni, musica e movimento.
Tra Gosling e Fassbender c’è il corpo e la mente di Faye (Rooney Mara), attrice perfetta per un ruolo così ambiguo e sospeso tra yin e yang, che sa giocare con gli sguardi, spesso vuoti, con occhi dai quali scendono lacrime come effetto collaterale della contrapposizione bene/male che vive dentro di sé.
I corpi e le mani sono elementi predominanti nell’opera. Il primo è spesso uno strumento, usato attivamente o passivamente per arrivare ad uno scopo indefinito, da vittime e carnefici di giochi di potere. Le vittime stesse però si trasformano in carnefici, sia con il prossimo che nei confronti della moralità; ne è la prova il monologo di Faye: “Ho preso il sesso, un dono. Ci ho giocato. Ho giocato con la fiamma della vita”.
Le mani invece accompagnano il movimento ondeggiante del metaracconto, muovendosi in maniera quasi danzante, e toccando tutto per mantenere il contatto con la realtà pur in un mondo così astratto.
In questo sono molti bravi gli attori, scelti ovviamente non a caso, ma abbiamo la sensazione che gli si sia lasciata una considerevole libertà di azione, poiché spesso i loro movimenti e i loro gesti sconclusionati hanno una logica sfuggente, da farci pensare che la telecamera li abbia filmati all’interno di un contesto con parecchia carta bianca. Ed è forse il modo per migliore per catturare la naturalezza ricercata.
A proposito: vedere in scena Iggy Pop (beh, per lui non è una novità) e Patti Smith nel ruolo di loro stessi, e rivedere per qualche istante un appesantito Val Kilmer, ci ha fatto davvero piacere.
Oltre ai corpi però c’è di più. C’è la poesia, di cui Malick si serve spesso e ci propone sotto forma di parola ed immagine, ma c’è soprattutto la musica.
Da un lato all’altro, da bene a male, da uomo a donna, il regista ci sballotta da canzone a canzone, con uno schema in cui la musica è tuttavia un accompagnamento (il migliore) per portarci nel suo racconto psichedelico e rarefatto, dove l’atmosfera si fa spesso pesante e in questo ondeggiare turbolento il mal di mare lo si può accusare in maniera nauseante.
Se c’è un pregio in Malick è la sua autorialità, il suo voler essere se stesso a tutti i costi sapendo di non piacere universalmente. Infatti Song to Song non è un film per tutti. Lo troverete emozionante e sconvolgente, oppure straziante e noioso, ma non è per questo che può essere o meno approvato.
Il contesto come al solito funziona, perché l’antitesi bene/male unita ad un tema come la difficoltà dell’amore prende bene la strada dell’emozione, a maggior ragione se la lente sotto cui finisce è quella di un regista del genere.
Se c’è una critica semmai parte dal concetto iniziale, ovvero dalla sua obbligata coerenza che finisce per darci la sensazione di vedere, in fondo, sempre lo stesso film ma in evoluzione.
Può essere un bene per chi è davvero Malick addicted, ma si tramuta in male per tutti gli altri.
Analisi spicciola, ma si deve pur sempre fare i conti con una realtà fast e frugale, che pretende prodotti ben più immediati, e con il prezzo che va necessariamente pagato quando si entra a contatto con la commercialità. Non ti puoi certo presentare scalzo al Teatro dell’Opera.
L’emozione, comunque, resta. A prescindere da tutto.
Verdetto:
Il cinema di Malick fa sempre lo stesso effetto. Ti coinvolge e ti sconvolge, ti annienta, ti emoziona, ti turba. Può anche annoiarti, sconquassarti un po’, persino nausearti. Ma di certo non ti lascia indifferente.
Non fa eccezione Song to Song, un’opera che vive di antitesi, come quella tra Bene e Male che diventa il modo per raccontarci le difficoltà dell’amore.
Non è di certo un film per tutti, ma soprattutto non è un film che potrà piacere a tutti.
Sta di fatto, a prescindere da questo, che la smodata autorialità di Malick può non rappresentare un pregio indiscusso.