Nel suo perseguire originalità e espedienti visivi e narrativi interessanti, Daybreak si rivela una delle serie Netflix con meno personalità di sempre
Non c’è modo per dimostrarti più simile agli altri se non quello di ostentare tutta la tua diversità. È quello che succede al minuto uno, della prima scena, della prima puntata di Daybreak, nuova serie originale targata Netflix che, di originale, non ha un bel niente. Anzi, il problema è proprio l’eccessiva ricerca di quell’originalità che non riesce ad arrivare e che appesantisce dunque l’intero prodotto con i suoi dieci episodi, ideati da Brad Payton e Aaron Eli Coleite.
Ma facciamo un passo indietro. Tratta dall’omonima serie a fumetti di Brian Ralph, che dell’input iniziale mantiene poco, se non i toni apocalittici alla base dell’assetto narrativo, Daybreak non ha più per protagonista un giovane ragazzo senza braccio e il suo fedele alleato canino, ma incentra la propria storia su Josh. Non Josh della squadra di golf, né Josh del gruppo di fisarmonica o teatro. Solamente Josh. Josh Wheeler. Il personaggio più insopportabile che potrete mai trovare sulla piattaforma streaming.
Dal fumetto d’origine alla non originalità della serie
Mantenendo le sporadiche didascalie da albo a fumetti, ma stravolgendone la storia in tre atti che andava formando il lavoro di Brian Ralph – uscito tra il 2006 e il 2008, poi assemblato insieme per un unico volume nel 2011 da Drawn and Quarterly -, il prodotto audiovisivo perde le avventure del suo protagonista per concentrarsi, principalmente e sgradevolmente, sulla storia d’amore tra Josh e la sua idealizzata Sam. Puntando sull’effetto da teen drama, mischiato però a fattori horror, splatter e demenziali, la serie Netflix segue la ricerca della ragazza da parte del personaggio, che va facendosi affiancare da innumerevoli e altrettanto seccanti comprimari.
Non basta, infatti, lo studente liceale senza personalità tutto “Sono diverso”, “Non sono come gli altri”, ma c’era il bisogno di aggiungere una ragazzina dalla mente geniale e la moralità flessibile e un atleta gay di colore dedito all’erba e con il desiderio di diventare un samurai. Innamorato, oltretutto, del cattivo della storia che, sorprendentemente, si scoprirà avere un cuore buono.
Zombie, cliché e quel leader senza carisma
Da ogni angolo di Daybreak la parola cliché fa capolino come quelle sottospecie di zombie – che, attenzione, non bisogna chiamare zombie, ma sempre tali rimangono – che popolano la terra post-nucleare della serie, dove solo i giovani sono rimasti illesi, mentre adulti e animali sono mutati in mostri che mangiano la gente – qualcuno ha detto zombie? – e che si ritrovano il corpo e la mente geneticamente modificati.
È lo sfibrante rimarcare la presunta differenza di sé dalla massa di cui soffre il protagonista e, andando espandendosi come quel fungo esplosivo che è stato causa dell’apocalisse mondiale, gli interi accadimenti ed espedienti usati dalla narrazione, sceneggiata e visiva. Nell’aver trovato nella fine del mondo il proprio posto come leader, come incitatore e amico incoraggiatore di un gruppo disastrato di studenti, il pubblico scopre in Josh un presuntuoso personaggio sprovvisto di carisma, interpretato con occhio vacuo e ghigno insostenibile da Colin Ford.
La sfida più grande? Andare oltre i primi episodi
L’ostentato bisogno di accattivarsi il pubblico giunge non solo alla rottura della quarta parete fin proprio dai primi istanti della serie, ma si intensifica come un’onda a propulsione che dilaga per tutti i restanti nove episodi. Una vera sfida quella dello spettatore, più tosta e difficilmente superabile rispetto al passare indenni il giorno del giudizio: riuscire a proseguire ben oltre il secondo episodio della serie, momento in cui ogni risvolto inutile e raffazzonato della trama inizia a moltiplicarsi in maniera incontrollabile.
E così accade anche agli artificiosi mezzi comunicativi utilizzati da Daybreak, vezzi stilistici che avrebbero dovuto stupire per la loro pomposa fonte di auto-ironia, ma che vengono portati con esorbitanza tale da far desiderare di poter assistere, giusto solo per una sequenza intera, ad un momento conciso e lineare, senza necessità di riempirlo di punti di vista soggettivi, cambio di genere, di tono, di silenzi riempiti da post-it o parole in sovraimpressione.
Senza regole, senza senso
Capricci che cercano, proprio come il suo protagonista, di stuzzicare il pubblico, che dovrebbe sentirsi presumibilmente gasato dalla stravaganza e dall’audacia di un racconto simile, ma che finisce per risentire della sovrabbondanza ingarbugliata del prodotto, con una testa tanto piena di informazioni (inconcludenti), personaggi (detestabili) e risvolti (inefficaci) da essere pronta a crollare.
Che le molteplici cronache del giovane Josh in cerca della sua Sam, il ragazzo che impara a sentirsi speciale, circondato da nuovi amici e alleati, possano almeno contare su di una sceneggiatura degna di questa definizione? Sbagliato. Convinta di poter avvalersi di libertà illimitata, ostentando la totale mancanza di regole interne al proprio mondo (mossa erronea in ogni universo immaginativo post-fantasy-scintifico-apocalittico), Daybreak non pone freni alla sua insana fantasia, impazzendo come gli adulti che sono rimasti a popolarla e agendo in maniera equivalente alle frasi sconnesse e senza senso che quest’ultimi ripetono trascinando le loro carcasse.
Quando è più semplice affrontare l’Apocalisse
Allargando i perimetri, richiudendoli, aggiungendo fatti, appendici superflue e puntando su dialoghi e situazioni marginali, la serie non possiede un proprio centro a cui ancorarsi, preferendo piuttosto divagare e dilagare, facendo chiedere allo spettatore quanto realmente la serie riuscirà poi a portare a termine i dieci episodi del proprio racconto.
Nulla, proprio nulla di questa apocalisse può essere salvato. Né i momenti gore e altamente sanguinolenti, né le ragazze popolari che piacciono a tutti perché premurose e gentili, tantomeno la presenza di un’icona come Matthew Broderick, in uno dei personaggi meno assennati delle serie televisive. Solo di un punto Daybreak può avvalersi: aver fortificato chi è riuscito ad arrivare fin proprio alla sua fine, rendendolo davvero pronto ad affrontare qualcosa di meno complicato ed estenuante come, ad esempio, la fine del mondo.