Un po’ Claymore, un po’ Berserk, un po’ Devil May Cry, Soulstice mescola diversi spunti, rendendoli evidenti, e ne esce con un suo carattere e molto da dire
ire che Soulstice è una chimera non è soltanto un riferimento al gruppo a cui appartiene la protagonista. Questo non perché Soulstice sia un gioco in cerca d’identità, tutt’altro, la direzione è ben precisa e calibrata, ma perché mescola diverse influenze e ispirazioni sia sotto il profilo meccanico che sotto quello narrativo, senza farne mistero ma anzi mostrando affetto per tutte le opere che lo hanno preceduto e ne hanno guidato il percorso.
Se in apparenza Soulstice è quindi uno stylish action e ci si accorge velocemente di come la struttura dei combattimenti ammicchi sicuramente a Devil May Cry, anche se semplifica drasticamente il sistema di combo per trovare una sua strada piuttosto nuova e fresca, dove a fare da perno non c’è né la ricerca del punteggio (comunque presente) né la necessità di imparare lunghissime combo. Soulstice infatti vuole raccontare una storia, proporre momenti platform, dare importanza all’esplorazione e proporre momenti di quiete in cui è necessario risolvere dei piccoli enigmi mai complessi.
Ugualmente Soulstice ha tra le sue ispirazioni estetiche e narrative Berserk, e forse ancora di più Claymore, e tratteggia un cupo mondo dark fantasy di cui sappiamo solo quello che dobbiamo conoscere, senza però perdere l’aspirazione a un background più complesso che all’interno del gioco, data la natura della vicenda, riusciamo solo a intravedere.
L’estetica e il linguaggio degli anime sono elementi presentissimi all’interno di Soulstice, e non solo nelle scelte estetiche che richiamano Berserk o in quelle narrative che rimandano a Claymore, e neanche in tutto un certo modo di intendere il dark fantasy tipicamente giapponese. Briar durante la sua avventura incontrerà avversari e situazioni che sembrano uscite da uno shōnen, combatterà attingendo alla sua forza interiore come un Naruto qualsiasi arrivando sempre al limite, e si trasformerà ed evolverà lungo tutto il percorso che dovrà affrontare.
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Ogni storia inizia con qualcuno che arriva in una città o con qualcuno che se ne va, e così Briar e la sorella Lute arrivano in una città sconvolta da una tragedia: un buco si è aperto nel cielo e dei demoni hanno già occupato la città. Gli abitanti sono morti, e sul posto sono state inviate le Chimere, di cui Briar faceva parte. Ma cos’è una Chimera? Un essere umano modificato, composto da due persone legate tra loro, nel nostro caso Briar e la sorella. L’immaginario non è per niente dissimile da quello di Claymore: ci sono delle ragazze (e in questo caso anche dei ragazzi) che vengono trasformati in creature sovrumane attingendo allo stesso potere che devono combattere con il rischio che… beh, chi ha letto Claymore lo può immaginare.
Si svolge così una storia che porta Briar e Lute a confrontarsi con l’Ordine che le ha “create”, con i misteri e gli intrighi che nasconde, tutto questo mentre cercano di sopravvivere a una situazione più grande di loro e della stessa specie umana. Un racconto toccante, con colpi di scena che non stupiscono più di tanto ma che costruisce personaggi sicuramente interessanti, tra i vari antagonisti e comprimari che popolano il mondo di gioco.
Mondo di gioco che, va detto, è parallelamente croce e delizia di Soulstice. La città che andremo a esplorare nei panni della nostra chimera è esteticamente molto bella e piuttosto ispirata. Contrariamente alla maggior parte delle città fantasy all’interno dei videogiochi sembra davvero enorme, e in qualche modo lo è visto che ci troveremo al suo interno per molte più ore di quante non ce ne si aspetti da un action game. Le telecamere spesso fisse fanno la loro parte nel restituire scorci estremamente evocativi, e la navigazione tra spazi aperti e chiusi, ponti altissimi e profonde fogne, è sempre piacevole anche sotto il solo profilo estetico.
Il grande “ma” è però nella ripetitività degli ambienti stessi. Belli, ma è una costante ripetizione per ore e ore. La palette cromatica non aiuta, visto che il gioco sembra filtrato da una patina blu saltuariamente rotta da bagliori arancio. Il titolo dell’articolo deriva da questo blu onnipresente, e dal fatto che questa costantemente ripetitività mi abbia un po’ intristito dal momento che tutto il resto del gioco mi è piaciuto parecchio, ma ho molto faticato a vagare costantemente per ambienti sempre troppo uguali a sé stessi (Kind of Blue è anche un gran disco che vi consiglio di ascoltare, ma non c’entra nulla con Soulstice).
Quello che il gioco cerca di rendere il meno ripetitivo possibile invece, con tutti i limiti dettati da un genere intrinsecamente ripetitivo come l’action, è l’esplorazione e la progressione: ci sono momenti in cui è necessario fuggire dai nemici piuttosto che affrontarli, boss fight varie e impegnative (e ben costruite), puzzle, platforming e situazioni in cui Briar e Lute chiacchierano di quello che gli sta succedendo. L’equilibrio delicato funziona quasi sempre, e quando i combattimenti si cominciano a ripetere un po’ troppo c’è quasi sempre un cambio di registro a ravvivare un po’ il fuoco.
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Per fortuna, salvo una gestione a volte non ottimale della camera, il gameplay di Soulstice è decisamente solido, soprattutto quando si tratta di agitare la spada. Il sistema di combattimento non è estremamente complesso, ma ha delle peculiarità che lo rendono piuttosto nuovo: messe da parte le poche combo a disposizione, praticamente due uguali per ogni arma più la possibilità di lanciare in aria il nemico, schiantarlo a terra e avvicinarlo in scatto, Briar può chiedere a Lute di difenderla, parando i colpi in arrivo o bloccando l’attacco degli avversari. Questo avviene premendo rapidamente il tasto B (su Xbox, Cerchio su Playstation) quando il prompt di comando compare a schermo. Premendo il ritardo si ha un malus, premendo quando non ce n’è bisogno Lute si distrae e diventa inabilitata a parare i colpi realmente in arrivo.
Questo non significa però che una volta preso il ritmo è tutto in discesa, perché non tutti gli attacchi dei nemici vengono annullati da Lute. I nemici bloccati, ad esempio, completeranno l’attacco dopo qualche istante, lasciandoci però un minimo di apertura per colpire. Si aggiunge così un altro layer a quello canonico per la quale si imparano i pattern dei nemici e si schivano i loro attacchi al momento giusto. L’ampio arsenale di Briar rende inoltre necessario scegliere quale arma secondaria utilizzare contro ogni singolo nemico, grazie a un sistema di debolezze o resistenze specifiche.
A questo si accosta un sistema per cui il gioco non tiene conto di quanti colpi il giocatore riesce a infliggere, ma anche delle parate effettuate correttamente e della varietà di attacchi e approcci che si utilizzano, e il premio non è tanto un numero quanto l’aumento del livello di affinità tra Briar e Lute grazie al quale è possibile, all’apice, utilizzare mosse speciali decisamente potenti.
Ci sono ovviamente anche meccaniche di crescita all’interno di Soulstice, che non starò qui a spiegarvi nel dettaglio, così come c’è un punteggio a fine livello che premia diversi fattori spingendo a giocare più e più volte lo stesso stage, magari a difficoltà diverse. Ci sono anche delle sfide da portare a termine e collezionabili nascosti.
Ci sono veramente molte cose dentro Soulstice, molte più di quante non me ne aspettassi. Si tratta di un gioco lungo, che si allontana dall’essere solo un action per cercare di variare la sua formula in diversi modi, dando spazio a una buona storia e a momenti più rilassati, con personaggi piacevoli seppur legati a determinati cliché.
Se ci fosse stata un po’ più di varietà nelle ambientazioni sarei entusiasta di Soulstice, perché gli elementi per un grande gioco ci sono veramente tutti. E anche così Soulstice è, ovviamente, un ottimo titolo che consiglierei sia ai fan più hardcore dell’action game (la difficoltà difficile è quella a cui iniziare per voi), sia a chi vuole qualcosa di più rilassato per godersi la storia e rilassarsi menando un (bel) po’ le mani. Quello che dispiace è che bisogna scavalcare un po’ troppa ripetitività negli ambienti per godersi un action con così tante buone idee e così ben confezionato.