Kristen Stewart è Lady D nel film di Pablo Larraín
“Chissà che cosa scriveranno di me tra mille anni.”. Se lo domanda Diana Spencer, interpretata in Spencer da Kristen Stewart. Quello di Pablo Larraín è l’ennesimo ritratto che l’audiovisivo prova a tratteggiare della figura più iconica dell’intera storia della famiglia reale contemporanea. Opera che arriva dopo la splendida performance di Emma Corrin nell’acclamata serie The Crown di Netflix, un raffinato rimaneggiamento posto a romanzare l’eredità della regina Elisabetta II e i suoi anni a (non) legiferare nelle camere di Buckingham Palace.
Stewart e Corrin non sono state però né le prime e né saranno le ultime a trasportare sullo schermo la tragedia della principessa triste, una storia così intrigante da non sembrare reale, un personaggio talmente adorato da attirare ancora un’attenzione premurosa a distanza di anni.
Tante sono le operazioni che hanno indagato il mistero di Lady D, il suo tormento interiore, non aspettando certo mille e più anni prima di doverla incasellare come uno dei personaggi più tragici e enigmatici della storia moderna. Una vittima della Corona che cambiò proprio a causa del destino che la donna si trovò a dover affrontare.
Una vita stroncata troppo presto che il cinema e la tv cercano di far pulsare nuovamente, in un prisma di umori, comportamenti, posture e apparizioni pubbliche che venendo rimesse in scena non permettono alla memoria pubblica di dimenticare anche solo per un secondo l’importanza e il dramma di una donna in una prigione di cristallo.
Il weekend di Natale del 1992
A scriverne questa volta è Steven Knight, descritta, accarezzata e accompagnata nel weekend di Natale del 1992 che diede a Diana l’impressione di poter riacquistare la propria libertà e, soprattutto, sé stessa. Spencer è infatti il cognome della donna, il nome tramandato nella sua famiglia, ma come la loro vecchia casa rimasto inutilizzato, lasciato marcire sotto a un tetto consumato dall’abbandono e l’umidità.
Ed è proprio quella riappropriazione della propria identità che il film di Larraín rincorre, verso cui protende la sua protagonista mentre le persone circostanti tentano di tenerla chiusa e nascosta dietro le tende lunghe e cucite con cui cercano di escluderla dal mondo esterno.
Diana ricerca Spencer, vuole coprirsi col cappotto ritrovato del padre e lasciarsi dietro lo sfarzo e la finzione dei suoi abiti di corte. In un tempo che non contempla il futuro ed è boccato in un costante presente che, però, imita il passato, Spencer è la riconquista delle radici che dovrebbero provare a salvare (momentaneamente) la donna. Il ritrovare il proprio nome e la riaffermazione del sé attraverso l’essere chiamati e riconosciuti con quest’ultimo, mentre la Storia, quella secolare e storica, sembra riverberarsi e ripetersi.
Scegliendo il paragone e facendo affiancare solo in sogno, o nella memoria, o nella metafora il personaggio di Anna Bolena a Diana, la donna si rispecchia in quella regina decapitata con cui, come legate da un filo rosso, la sua famiglia era alla lontana imparentata, pregando di sfuggire alla stessa sorte e agognando di poter scappare prima.
Nelle atmosfere eteree della filmografia di Larraín, con le immagini sfocate appartenenti a un ricordo in cui poter plasmare le idiosincrasie conosciute della principessa e gli elementi di una poeticità finzionale che tende a formare il materiale della pellicola cinematografica, Spencer è l’insofferenza di Diana che riserva però ancora un briciolo di speranza. Quella di poter spezzare la catena di avvenimenti che la vedono collegata, parentalmente e spiritualmente, a Anna Bolena e poter così autodeterminare il proprio tempo, i propri spazi, i suoi stessi vestiti.
Tutti i fantasmi di Spencer
Kristen Stewart non è né Lady Diana, né semplice interprete. Non è riproduzione, nemmeno imitazione. Non viene fuori naturale, ma non riserva al personaggio un lavoro di maniera. In Spencer la protagonista Diana è la rievocazione di un’aurea, di fantasmi che volteggiano in vecchie case e che la donna vede, con cui comunica, di cui indossa le vesti e i gioielli che gravano sul suo corpo gracile, la mente in equilibrio.
Stewart è una protagonista del tutto inedita, posta a metà per non essere né fotografia veritiera né tantomeno estranea a quella donna realmente esistita. Una performance incredibilmente personale, inserita nelle cornici raffinate del cineasta, forse più sincera nel voler essere pura “interpretazione” dei sentimenti che semplice contenitore, offrendo una prova dolce ed elegante.
Volteggiando a passo di danza per corridoi gelidi e inquadrando cibi gustosi lasciati intonsi nei piatti, in Spencer lascia esterrefatti l’apparenza con cui Pablo Larraín dirige e che Diana tanto odiava. Un rigore e un’etichetta che il cineasta insegue nella propria estetica e da cui, invece, la sua protagonista tenta di sfuggire.
Un dolore che passa per i quadri estatici del regista e nel desiderio della protagonista di sparire, vomitando in un bagno di nascosto o guidando fino a perdersi. Strada su cui Spencer si apre e si chiude come un funesto presagio. L’augurio che la donna riesca a separarsi dalla sua sofferenza, cancellando il futuro anche lui prestabilito e che Diana possa, almeno nella finzione, costruire a suo modo.