“Il suo film è intelligente, ma non si applica.”
Dalla regia di Justin Lin, famoso per il suo corposo contributo alla saga di Fast & Furious, e la sceneggiatura di Simon Pegg e Doug Jung, arriva Star Trek Beyond, terzo film della nuova saga cinematografica, rebootata ormai più di 7 anni fa. Dopo l’esame di maturità rappresentato da Into Darkness, che affrontava punti cruciali della mitologia trekkiana (basta dire che il villain era Khan), si respirava aria di maggiore libertà, per questo ultimo capitolo, seppur dovendo rispettare tutti i paletti già fissati dal nuovo standard cinematografico e, possibilmente, spostando quei paletti un po’ più avanti. Dove nessun paletto si è mai spinto prima.
Missione compiuta?
Sì e no. Se Star Trek Beyond fosse un tema, sarebbe stato svolto diligentemente, affrontando i punti richiesti senza grossi approfondimenti e senza errori di grammatica. Ma mancherebbe di quel qualcosa in più che gli varrebbe la consacrazione a film di fantascienza “epico e stra-figo”.
La storia mette in scena premesse non solo accettabili, ma proattivamente coinvolgenti: il Capitano Kirk, così come anche Spock e, in generale, un po’ tutto l’equipaggio dell’Enterprise, interpretano i propri ruoli (anche meta-narrativamente) da tempo, ormai, e arrivano a chiedersi cosa significhi quello che fanno. Sulle spalle di Jim, poi, grava persino il ricordo di un padre che credeva nella propria missione con più risolutezza di lui e che, paradossalmente, è morto troppo presto per avere la sua stessa chance di viverla fino in fondo.
Poi, però, manca tutto il possibile approfondimento. E dal secondo atto fino ai titoli di coda assistiamo al brillare dell’altra faccia della medaglia di questo film: azione, azione, azione, inframezzata da brevi battute divertenti. Che non è affatto un male, per carità. Anzi, alcune mega-visuali sono veramente da masturbazione fantascientifica, e vengono messe al servizio di battaglie che vedremmo volentieri nella sfilza di recenti film sci-fi tristemente poveri di fantasia e coraggio.
Peccato, e peccato davvero, che il montaggio non intervenga a comprimere quello che ormai è un tratto distintivo della nuova saga, affetta (come moltissimi film, oggigiorno) dalla “sindrome da finale multiplo”, e invece di avere un’epica conclusione su più fronti contemporanei abbiamo una successione cronologica di scontri mortali, con il penultimo che però è moooolto più colossale dell’ultimo. E coi finali, come con l’alcool, non si deve mai e poi mai scendere di grado.
Le premesse della storia vengono sviluppate solo e soltanto nelle loro conseguenze pratiche. Il resto “si risolve da sé”. E non è tanto questo il problema (nessuno qui vuole una pappardella invece di un film gustosamente iperdinamico), quanto che la cosa riconferma come con Star Trek Beyond si sia fatto il proprio compito a casa, svolgendo il proprio dovere senza il proverbiale miglio in più. Con tutto quello che di grave o sconvolgente poteva accadere, con la mano di vernice gigante che si poteva dare alla saga per rinnovarla prima ancora che invecchiasse, alla fine della pellicola quel che ti è rimasto sono le sue scene più colossali e tamarre. E ben vengano, anzi, datecene di più, ma forse è il tempo di osare un po’ anche con storia e personaggi. James T. Kirk riflette a lungo su quanto sia facile perdersi, nello spazio, e diventare un’ombra di se stessi, smarrendo se non l’abitudine della missione, il senso che gli si imprime credendoci profondamente. Dopo l’ennesima crisi da cattivo in cerca di vendetta, la situazione è davvero risolta?
Detto questo, il cast dà l’ennesima prova efficace. Non che gli venga chiesto niente di nuovo. I legami collaudati si confermano: Pine e Quinto perfetti come Kirk e Spock, e altrettanto si può dire di Zoe Saldana, Simon Pegg e Karl Urban rispettivamente nei panni di Uhura, Scotty e Bones. Nota di merito per John Cho-Sulu, come al solito ineccepibile e al centro tra l’altro di un simbolico (e quasi storico) outing del personaggio. Non male neanche la nuova Jaylah di Sofia Boutella, non abbastanza brillante però da evitare il titolo di “ennesima aggiunta all’equipaggio”. Continua la pregevole consuetudine di scritturare un grande attore come villain e stavolta, dopo Benedict Cumberbatch, è il turno di Idris Elba come Krall, un cattivo inedito (e la cosa si fa sentire, nella mancanza di motivazioni solide) che nonostante la grande dimostrazione di potenza iniziale, fallisce nel rappresentare un pericolo veramente chiaro e preoccupante. Non è colpa di Elba, comunque. Anche l’arma che Krall usa è veramente poco più di un plot device, tipo “la bomba” dei vecchi spy movie.
Come non dedicare, al pari del film stesso, una menzione d’onore speciale ai compianti Leonard Nimoy e al giovanissimo Anton Yelchin, peraltro investito di un ruolo chiave nella pellicola. A vedere i loro nomi alla fine dei titoli di coda non manca di scatenare un’emozione malinconica.