The Pleasure of Discovery
È dal 2005, con la chiusura di Enterprise, che aspettavamo una nuova produzione televisiva a marchio Star Trek e finalmente qualche anno fa è cominciata a trapelare qualche news pallida e fumosa su una nuova serie in preparazione. Ovviamente il livello di hype è salito alle stelle, mentre il desiderio quasi sanguinario di mettere gli occhi su qualsiasi cosa fosse vagamente paragonabile a un fotogramma della nuova serie dilaniava letteralmente tutta la fan base. E i film e le reinterpretazioni, i cofanetti e lo streaming forsennato delle stagioni precedenti non hanno fatto altro che accrescere quel senso di incompletezza.
VOLEVAMO un nuovo Star Trek che fosse una serie televisiva pari ai fasti delle vecchie glorie e non vedevamo l’ora che arrivasse nelle nostre case.
Dopo innumerevoli annunci e rimandi, cambi di produzione, interviste ai Comic-Con e indiscrezioni di ogni tipo, finalmente, il 25 settembre 2017 su Netflix è atterrata la Discovery, con il boato che solo un’astronave di queste dimensioni potrebbe mai fare.
Che sia il ritorno di Star Trek che tutti noi aspettavamo?
Seguiteci, se volete scoprirlo, perché non c’è niente di meglio della scoperta…
Klingon ovunque
Cominciamo a dire che il primo incontro con Discovery è una doppia puntata dal sapore estremamente cinematografico, esattamente come il primo episodio della serie classica che fu pensato per avere il doppio della durata degli episodi normali.
La storia si svolge dieci anni prima dell’inizio della Serie Classica, in un momento ambiguo della storia dell’Umanità, ancora non del tutto preparata ad affrontare l’esplorazione spaziale e che si affaccia verso il resto delle civiltà della galassia con il loro mantra ‘Veniamo in Pace’, rivelando tutte le buone intenzioni di una razza alla ricerca della conoscenza.
Dall’altra parte ci sono invece i nemici tra i più chiacchierati e sanguinari: i Klingon, da oltre un secolo in silenzio nel loro Impero, impegnati a cercare un equilibrio che non vuole arrivare, in una continua lotta tra le ventiquattro casate nobili. Ma tra tutti i Klingon emerge la figura di T’Kuvma, un uomo ambizioso e senza scrupoli che ha il desiderio di riportare il suo paese ai fasti di un tempo.
Dopo la breve introduzione del piano Klingon (no spoiler, non vi preoccupate, è tutto nei primi trenta secondi del telefilm!), l’attenzione si sposta verso l’equipaggio della Shenzhou, l’astronave della Flotta Stellare deputata a una missione di ricerca e studio delle civiltà extraterrestri, sempre nell’ottica di abbracciare le nuove culture con il dialogo e la pace, senza nessuna azione di guerra.
La situazione prende una bruttissima piega, quando la Shenzhou scopre un manufatto alieno, che altro non è che la Nave-Cimitero di T’Kuvma, avamposto e testa di ponte del suo folle piano di far riconquistare valore ai Klingon. Da quel momento la situazione precipita a velocità vertiginosa, fino all’epilogo che merita un solo commento: ‘We Want More!’
Queste prime due puntate sono state costruite in maniera ineccepibile con l’intento di gettare le basi dell’universo narrativo ante-Enterprise, in un periodo della storia dell’Umanità quasi del tutto sconosciuto. Con la filosofia giustissima dello show-don’t-tell, viene fatto comprendere il senso della missione della Shenzhou, i suoi rapporti con l’ammiragliato e a grandi linee anche la situazione politica, più che altro considerata come ‘intenzione politica’. Sullo sfondo della narrazione di base, per altro molto densa, si intuiscono tante piccole cose che sicuramente avranno il loro peso nell’economia della storia soprattutto nelle puntate successive.
Le vicende partono da un presupposto molto interessante: cosa succede se un approccio al dialogo, pacifico e ottimista quasi a tutti i costi si scontra con un modus operandi votato alla violenza, all’attacco e al disprezzo della vita? È questo l’assunto politico-filosofico su cui si basa l’intero conflitto di queste due puntate e viene ribadito in più di un’occasione.
Dall’altro lato della barricata, e questa è una cosa apprezzabilissima, vengono raccontate anche le ragioni dei Klingon, con lunghe sequenze che ne descrivono i rapporti interpersonali, politici e sociali, in un modo che forse non era mai stato tentato prima. Viene gettato uno sguardo sulle loro dinamiche interne, sulle loro superstizioni e sulla loro concezione della morte e dell’Onore. Si scoprono episodi e atteggiamenti razzisti, vulnerabilità ed altre emozioni tra cui anche la paura. Il tentativo di dare ai Klingon un’identità tridimensionale è avallato anche dalla scelta di farli parlare sempre nelle loro lingua madre. In questo potremmo vederci anche un po’ di fan-service rivolto a tutti coloro hanno speso ore del proprio tempo per imparare una lingua che ancora deve essere scoperta.
Numero Uno
A parte la visione ampia che il telefilm cerca di inseguire nella sua narrazione, l’aspetto più interessante è ovviamente quello umano e alieno, fatto di rapporti interpersonali e scontro di personalità. In queste prime battute, gli sceneggiatori si sono impegnati a tessere fin da subito la rete di contatti tra i vari membri dell’equipaggio della Shenzhou.
In cima alla catena di comando c’è il Capitano Philippa Georgiou (Michelle Yeho), una donna dall’indole irreprensibile, decisa e determinata. Al suo fianco Michael Burnham (Sonequa Martin-Green), umana ma cresciuta e addestrata dai Vulcaniani, che rappresenta la terra di mezzo tra alieni privi di emozioni e umani anche troppo governati dai sentimenti. A completare Trio di Comando c’è Saru (Doug Jones), alieno, Kelpiano, Ufficiale Scientifico, sempre leggermente in disaccordo con Burnham.
Si potrebbe dire che questa scelta sia molto simile a quella adottata da Roddenberry nella Serie Classica, con la differenza che finalmente il Numero Uno è una DONNA! Senza fare i conti delle quote rosa, che è altrettanto fastidioso e ridicolo, la presenza femminile sul ponte di comando indica un tentativo di mostrare senza alcun freno l’idea di una società che premia non per il genere ma per il valore assoluto, cosa che già precedentemente per fortuna era emersa tra le tematiche delle altre serie.
I tre protagonisti ricalcano il modello caratteriale dei tre della Serie Classica, con le dovute differenze e mischiando i vari caratteri in modo da non avere un clone. Sicuramente ci troviamo di fronte a quell’area grigia dove l’omaggio fa piedino allo scopiazzamento, e in questo caso le indoli dei protagonisti sono molto simili a quelle della loro controparte degli anni Sessanta, che sicuramente rappresenta il punto di riferimento.
Abbiamo tutti gli ingredienti: essere ligi al regolamento e al proprio dovere, ragionare con logica e prendere la logica decisione anche se questa è dolorosa, e poi infrangere le regole, sfidare le autorità solo perché si è nel giusto. Esattamente come quarant’anni fa, questi sono gli equilibri che vengono di volta in volta alterati e rimessi in ordine nel corso delle due puntate.
Il personaggio di Michael Burnham, che poi è protagonista della serie, emerge di sequenza in sequenza, anche e nonostante le ingenuità a cui siamo abituati, come le missioni potenzialmente suicide e temerarie che un comandante in seconda mai avrebbe affrontato. Ovviamente il senso è quello di aumentare il valore epico di questi eroi, di mostrare fin dove si può spingere una persona per il bene della Federazione. Certo, a essere impietosi, queste sono scelte molto opinabili, soprattutto considerando che esistono altre soluzioni più interessanti che non avrebbero portato a minare sensibilmente la sospensione di incredulità.
Purtroppo il voler premere sull’acceleratore emotivo ha avuto un effetto negativo soprattutto sulla rappresentazione dei Klingon, che appaiono quasi dei cattivi macchiettistici, spinti da una rabbia perenne, senza soluzione. A metà tra un terrorista pronto a farsi esplodere nella metropolitana e un capo ultrà della Curva Nord, T’Kuvma cerca di essere un condottiero e di riunire tutti sotto la sua egida, ma in alcuni frangenti risulta essere quasi patetico e troppo affettato. È un personaggio che ci ha lasciati un po’ interdetti e con lui il suo pupillo Voq, un Klingon albino odiato da tutti, senza nessun passato nobile ma pronto a dare la vita per l’Impero e per colui che chiama già Padrone.
Da questo punto di vista, è facile passare a un giudizio sulla società Klingon e sul loro uso della forza e della prevaricazione, ma d’altronde sono i cattivi e come tali devono essere rappresentati.
Per come si sono svolti i fatti durante la doppietta di episodi e per la conclusione, ci aspettiamo ovviamente che molto altro si aggiunga a questa ricerca di spiegare quel che si cela dietro la faccia atroce dei Klingon e speriamo ovviamente di non rimanere delusi.
Stella Binaria
Dal punto di vista tecnico questi due episodi di Star Trek sono molto belli. Non parliamo tanto della qualità degli effetti speciali in valore assoluto, che sono comunque su un livello medio-alto, molto presenti e ben integrati, ma pensiamo più all’impatto visivo e immaginifico di quel che accade intorno alla Shenzhou. La sequenza in cui vengono mostrate per la prima volta le due Stelle Binarie e il campo di asteroidi dove si cela la nave Klingon è di una bellezza da togliere il fiato, tanto è immenso il campo inquadrato. In quella singola inquadratura si nasconde l’intera idea di Star Trek: gli uomini e gli alieni sono piccoli in confronto alla maestosità dell’Universo e l’unica cosa che si può fare è portare il dovuto rispetto per qualcosa di tanto infinito. Da qui nasce l’idea di andare in pace verso mondi lontani e esplorare per conoscere non per conquistare.
Certo che questo tipo di filosofia, così nota e così discussa, in queste due puntate si vede poco, se non per un sprazzo all’inizio, poi tutto si concentra nello scontro tra le due navi e per estensione tra le due culture.
In uno sforzo filosofico potremmo dire che alla fine due culture come quelle terrestri e Klingon sono a tutti gli effetti due mondi completamente diversi, e quindi ogni volta che in qualche maniera si sonda la reazione dell’altro, non si fa altro che cercare di esplorare un nuovo mondo. È una sorta di sineddoche semantica o un modo per giustificare il fatto che la Shenzhou non si muove di un metro in tutte e due le puntate e che di mondi lontani non se ne vede neanche uno…
Tra gli aspetti tecnici più interessanti e che sicuramente farà discutere c’è il design delle astronavi e delle varie plance. Non ci vuole molto a dire che la Shenzhou è bellissima, altrettanto si può dire della navi Klingon e del resto della Flotta Stellare, ma come sempre in questi casi, una domanda nasce spontanea: come ci si ricollega al design che avrebbe poi caratterizzato la serie classica? Insomma, come si fa a passare dagli ologrammi, i touchscreen trasparenti, i rumori beeposi e le luci fredde dei led, alle levette, i fischietti per l’interfono e le porte di finto metallo?
Badate, apprezziamo enormemente il lavoro fatto dai designer, così preoccupati di cercare di rimanere fedeli alla serie originale, ma allo stesso tempo alla ricerca di fare qualcosa di sexy e sci-fi. Il risultato è una versione “Mela Morsicata” di tutto, così eye-candy da far venire le lacrime agli occhi, così ricca di particolare scintillanti da abbagliare, ma allo stesso tempo così profondamente aperta a critica di ogni tipo, quasi senza un vero spirito caratteristico: just another starship!
A parte queste considerazioni, che poi sono più di gusto ed estetica e quindi lasciano il tempo che trovano, il telefilm si lascia vedere e avvince, mostrando lo spazio profondo con tutti compromessi che ci si aspetta in una serie del genere, più votata all’animo umano che all’aderenza scientifica, e allo stesso tempo in grado di sorprendere e far sognare.
Tutti gli effetti speciali sarebbero vani se non supportati da una parte umana degna di questo nome.
Dal punto di vista della scrittura, dal soggetto fino alla sceneggiatura, il team al lavoro sugli appunti e sulle idee di Bryan Fuller ha fatto un buon lavoro, cercando di coniugare lo spirito della serie con la visione dello stesso Fuller. L’autore statunitense è un fan di Star Trek, oltre ad avervi partecipato come sceneggiatore in diverse occasione, durante Deep Space 9 e Voyager. Nel suo modo di concepire la serie, ha più volte lodato il coraggio di quel che è stato fatto con Deep Space 9, uno degli spin-off più adulti di tutti quelli prodotti: per lui la cosa più importante in questa serie è stata quella di concentrarsi sulle storie dei vari personaggi, lasciando la galassia sullo sfondo. Inevitabilmente questa visione si è tradotta in un approccio a Discovery più intimista.
A tradurre in sceneggiatura le elucubrazioni di Fuller è stato chiamato addirittura mr. Akiva Goldsman (per il primo episodio), che vanta nel suo curriculum film di successo tra cui A Beautiful Mind, per esempio. Il suo passo cinematografico si sente dal primo all’ultimo minuto e l’ampio respiro di un doppio episodio lo mette nelle condizioni di allungare le sequenze e far altalenare il ritmo come è giusto che sia. Forse, se proprio dovessimo fare una critica in questo frangente, si è abusato dei flashback per raccontare e spiegare alcune vicende, soluzione veloce e facile, ma purtroppo poco incisiva, in determinate circostanze.
Dietro la macchina da presa si sono avvicendati David Semel e Adam Kane, due veterani delle serie televisive e capaci registi. Il loro lavoro risente decisamente dei film prodotti negli ultimi anni, che sono stati quasi televisivizzati per l’occasione. In alcune sequenze d’azione si sentono gli echi di J.J. Abrams e la voglia di creare qualcosa che sia in linea con quanto visto finora. Non possiamo gridare al miracolo, ma sicuramente la regia è in linea con il progetto e lascia scorrere la storia, valorizzando sia le sequenze d’azione o combattimento, sia mettendo l’accento sui molti dialoghi con trovate interessanti come rotazioni della camera intorno a due interlocutori o piccoli piani sequenza che danno ritmo.
Tra gli attori, la protagonista, Sonequa Martin-Green, splendida nei panni di Michael Burnham, ci mette tutta l’intensità che il suo ruolo richiede, sempre sull’orlo di infrangere l’addestramento vulcaniano e tornare umana, dilaniata dalla sua stessa storia personale. Accanto a lei, la splendida bravissima Michelle Yeho, che già avevamo amato in La Tigre e il Dragone. Come capitano della Shenzhou è molto kirkiana, e l’epilogo della seconda puntata un po’ ci fa chiedere se forse non era il caso di darle più spazio. Sicuramente come duo femminile, le protagoniste di questi episodi sono sembrate abbastanza affiatate e hanno risposto bene all’ambiente circostante, senza mai sembrare fuori luogo.
Completamente celato dal trucco, come al solito, c’è Doug Jones, sottoforma di Saru, Ufficiale Scientifico Kelpiano. Sicuramente molti lo conoscono per la sua interpretazione come Abe Sapiens in Hellboy di Guillermo del Toro. In questi due episodi la sua interpretazione non è preminente, se non in contrapposizione con Burnham e nonostante tutto, riesce a ritagliarsi un posto unico nell’economia della narrazione e sicuramente ci riserverà delle novità nel corso della stagione.
Il resto del ponte è purtroppo solo un gruppetto di facce anonime, che non ha quasi alcun ruolo nel film se non quello di rispondere agli ordini del comandante, ma se arrivate in fondo al secondo episodio, anche questo piccolo difetto assume un po’ di senso…
Cosa ci è piaciuto?
Molte cose: la sigla, innanzitutto, il make up di alcune specie aliene, le astronavi Klingon e anche quelle della Flotta, lo spazio e la sua immensità.
Poi abbiamo apprezzato il tentativo di rendere cinematografica (a metà) la direzione della pellicola e sicuramente il desiderio prorompente da parte dei realizzatori di continuare a sviscerare in ogni direzione il pensiero di Roddenberry: perché di questo si tratta alla fine, estremizzare la dicotomia umana che divide il bene a ogni costo dal male a tutti i costi.
Cosa non ci è piaciuto?
Alcune scelte di design un po’ troppo lontane dall’epoca che si sarebbe delineata nella serie classica e la mancanza di effettiva esplorazione, anche se non sapendo come evolverà il conflitto non sapremo mai dove andrà a finire la Discovery nel corso della stagione.
Purtroppo la rappresentazione dei Klingon ci ha convinti a metà, troppo vicini a scalmanati rivoluzionari della domenica e troppo tribali, al limite del superstizioso. Ma sono Klingon, e sono davvero così!
Continueremo a vederlo?
E alla fine?
Se siete arrivati fin qui, o siete piombati direttamente su queste righe vi starete chiedendo cosa ne sarà della serie… Beh, qualora siate stati attenti, vi sarete accorti che per tutte queste pagine non abbiamo mai menzionato la Discovery, e questo perché l’astronave eponima non si è ancora vista! Già solo per questo, sicuramente lunedì prossimo saremo davanti ai nostri schermi per vedere la terza puntata!
A questo aggiungiamo, che al netto di tutte le critiche che si possono fare a questo prodotto con gli occhi del trekker impietoso e fondamentalista, al netto di tutte le differenze di epoca che si porta dietro se confrontata con la serie classica o con DS9, al netto di molte ingenuità volte solo a sorprendere il telespettatore, questa serie per adesso è meritevole di attenzione.
Non siamo di fronte a un capolavoro che ti fa urlare al miracolo, ma sicuramente è un prodotto che affonda le sue radici in decenni di mitologia fantascientifica e non cerca affatto di scopiazzarla o tranciare completamente ogni connessione, lanciandosi invece in un’operazione che è forse la più difficile: cercare di trasporre in un contesto e un approccio moderno un pensiero che ha qualcosa come cinquanta anni e che forse è davvero universale come si pensava all’epoca.