Nell’incantevole e lussuoso Hotel De Russie di Roma, abbiamo incontrato Rami Malek, l’Elliot Alderson protagonista di Mr. Robot, che ora interpreterà Freddie Mercury in Bohemian Rhapsody, in uscita nelle nostre sale il 29 novembre. Con lui abbiamo parlato proprio di questo ruolo particolarmente delicato.
Quanto è stato difficile interpretare non solo il cantante Freddie Mercury, ma anche il personaggio?
Chiunque può provare a chiudere gli occhi e darsi una risposta: è stato estremamente difficile. La natura mitologica di quest’uomo l’ha reso una specie di dio dal punto di vista musicale, quindi potete immaginare quando complicato fosse per me immedesimarmi. Per cercare di diventare Freddie Mercury e rendere giustizia al retaggio lasciatoci, mi sono totalmente immerso in tutto questo, anche grazie ad una persona che mi ha insegnato ad entrare nei suoi movimenti e parlare col suo accento. Ho preso ovviamente lezioni di canto, ed ho tirato fuori i soldi di tasca mia, perché l’ho fatto quando ancora il film non era confermato.
Quali sono state le tue sensazioni al provino?
Vi racconto questo aneddoto. Ho fatto provino in cui avevo interpretato quattro canzoni, dopodiché lo sceneggiatore, cogliendomi di sorpresa, iniziò a farmi delle domande che in realtà erano indirizzate a Freddie e non a me, e io risposi come se fossi realmente lui. Tra queste l’ultima domanda era quale fosse la persona in cui riponevo maggior fiducia. Il giorno dopo ho fatto vedere il filmato a Brian May e Roger Taylor, e dalle loro espressioni e dalle loro parole sembravano abbastanza convinti. Poi arrivò la parte relativa a quell’ultima domanda e la mia risposta era stata Mary: mi hanno guardato e mi hanno detto che condividevano. Mi sono sentito sollevato.
Hai scoperto qualcosa di Mercury che non sapevi?
Tutti conoscono l’aspetto un po’ impertinente di Freddie Mercury, ma io credo che nessuno conoscesse la sua parte più intima. Per esempio io non conoscevo la sua storia con Mary e che fosse stato fidanzato, non sapevo nemmeno il suo vero nome. Insomma, le difficoltà nel mettermi nei suoi panni erano davvero numerose. Allora ho cercato un punto di contatto e l’ho trovato nel fatto che sia nato fuori, a Zanzibar, così come la mia famiglia viene dall’Egitto, e sono un americano di prima generazione. Il tema della ricerca dell’identità e ciò ad esso correlato sono elementi che tutto sommato lo riportano sulla terra.
La scena più difficile da girare? Il Live Aid?
Tutti i giorni c’erano delle difficoltà. Cercavamo di ricreare tutto alla perfezione, quindi ogni volta provavo ad immedesimarmi e pensare come avrebbe fatto lui ogni determinata cosa.
Sì, forse il Live Aid è stato il momento più difficile; l’abbiamo ripetuta tante volte fino a che non abbiamo raggiunto la perfezione. Ogni giorno provavamo una canzone nuova, e dopo un po’ ho chiesto di interpretare dall’inizio alla fine tutta la sequenza del concerto, in cui c’era addirittura un gruppo di fan dei Queen. Lì ci siamo resi conto che c’era un crescendo di energia, ed ho avuto la percezione di cosa avesse significato per la band quel concerto. Quel momento ci ha unito molto, ha creato in un certo senso la “nostra” band. Alla fine ci siamo stretti le mani fortissimo e ci siamo guardati negli occhi.
Senti di avere un po’ di quella ambizione che aveva Freddie Mercury nel cercare di uscire dagli schemi?
Penso che sono giovane, e ci sono situazioni lavorative che a volte devi accettare, ma ho sempre cercato di fare qualcosa che mi piacesse, dire di sì a lavori che potessero in qualche modo alterare o modificare la percezione della gente. A maggior ragione oggi non posso accettare ruoli solo perché devo rimanere nel mercato e non essere tagliato fuori. Al tempo stesso amo lavorare con persone che adorano la sfida, e penso che anche con Mr. Robot un po’ ci siamo riusciti.
Freddie ha avuto una fortissima influenza su tantissime persone, tale da consentire che la sua storia trovasse un’eco in molta gente. La sua grande capacità era quella di salire sul palco e sviluppare insieme al pubblico un forte senso di appartenenza. È una cosa fantastica, e l’averlo interpretato mi rende felice.