Uno speciale che ripercorre la storia di Ken Levine e il suo amore per l’arte del raccontare
Come scritto in più occasioni, le storie (o, anche meglio, l’arte del raccontare) sono un esercizio immaginativo che accompagnano l’uomo da sempre. Lo seguono nella sua evoluzione culturale e rappresentano tutte quelle possibilità nascoste (e imposte) nelle pieghe di una realtà esteriore quanto interiore. Strumenti, in fin dei conti, a supporto di una comunicazione creativa quanto infinitamente significativa.
Infanzia nerd e amore per le storie
Ecco, la storia di Ken Levine, autore di videogiochi e scrittore, inizia proprio così. Prima come fruitore e poi come autore, attraverso un percorso di crescita e di convivenza iniziato fin da bambino quando, nella propria casa nel Flushing (un quartiere nel Queens della città di New York), trascorreva buona parte del proprio tempo insieme al gioco di ruolo da tavolo Dungeons & Dragons (l’edizione era quella del 1974) e proseguito poi con la laurea in drammaturgia al Vassar College a Poughkeepsie. Nel mezzo, il più tipico dei pasti nerd: quintali di fumetti, film (da Star Wars a Star Trek, per citare alcuni dei più famosi) e videogiochi (con alcuni momenti centrali: come l’aver ricevuto in regalo un Atari 2600 e le innumerevoli partite a The Legend of Zelda su NES).
Un’abbuffata che scontornava e inquadrava la sua figura nel tipico, almeno per quei tempi, ragazzino sfigato ed emarginato. Perché il nerd, era ancora, quell’individuo particolare e un po’ strano da tenere lontano o da bullizzare nel peggiore dei casi. Per questi motivi, nonostante l’approvazione e il sostegno dei genitori che vedevano in quelle passioni un valido esercizio per alimentare e sperimentare la creatività del figlio, “essere un nerd” era un qualcosa da limitare ai sicuri confini della propria abitazione e di conseguenza un’attività da svolgere in solitudine.
Lo stesso Levine, in un’intervista al Playstation.Blog, racconta un episodio che lo vede protagonista: un giorno, infatti, decise di portare a scuola alcuni dei suoi fumetti per mostrarli ai propri compagni e condividere con loro questa sua passione. Purtroppo per lui, in molti iniziarono a prenderlo in giro tanto da fargli decidere di non portarli mai più con sé.
Un evento che, secondo Levine, testimoniò più di tutti l’assenza di una vera e propria cultura nerd (come possiamo immaginarcela ora) che potesse collegare fra loro i vari appassionati. Perché è vero, il nerd esisteva come individuo, ma era impossibile per lui riconoscerci in un gruppo o in una categoria specifica. Mancava una rete, un sistema di condivisioni e di comunicazione, se non di vera e propria integrazione all’interno di una società tutt’al più bigotta e conservatrice.
Terminati gli studi, Levine decise di trasferirsi a Los Angeles per diventare uno sceneggiatore cinematografico. Un sogno che, sfortunatamente, non riuscì mai a concretizzarsi dal momento in cui gli unici lavori che gli furono proposti riguardavano la scrittura di commedie: esperienze creative poco affini alla sua personalità e al suo stile. Deluso, vide nel ritorno a New York una seconda possibilità per riuscire a sfondare nel mondo del cinema e arrivare a produrre contenuti autoriali di un certo rilievo. Disgraziatamente, anche questa volta riuscì ad accaparrarsi solo qualche sceneggiatura per piccole compagnie teatrali di strada: niente che potesse soddisfare le sue ambizioni e permettergli di sperare in un futuro concreto in quel determinato ambiente lavorativo
Deluso e sconfortato da questa situazione tutt’altro che positiva per la propria carriera, Levine decise per un netto cambio di passo e inviò la candidatura per la posizione di game inventor presso la software house Looking Glass Studios. Uno degli studi di sviluppo più amati da Levine, per via di titoli come System Shock e Ultima Underworld: The Stygian Abyss. A sorpresa, data l’assenza di esperienza, fu assunto. Ecco arrivare la svolta tanto attesa e l’inizio della storia di Ken Levine come autore di videogiochi per come lo conosciamo ora.
La storia di Ken Levine: una nuova vita grazie ai videogiochi
Il rapporto fra Levine e Looking Glass fu parecchio strano: inizialmente fu messo a lavorare su un tie-in di Star Trek: Voyager che venne cancellato, poi passò allo sviluppo del ben più famoso e acclamato Thief: The Dark Project per arrivare, prima della sua pubblicazione nel 1998, a lasciare il gruppo per fondare una propria software house con il nome di Irrational Games. Nonostante il divorzio, il successo di critica e di vendite di Thief (una boccata di ossigeno per una Looking Glass in crisi finanziaria a seguito di sfortunati investimenti), portarono Paul Neurath (capo di Looking Glass) a ingaggiare Ken Levine e il suo nuovo studio per una collaborazione che avrebbe portato alla nascita di System Shock 2.
System Shock 2, uscito nel 1999 fu un prodotto dirompente per l’industria, grazie alle sue atmosfere cupe e inquietanti che mescolano horror e fantascienza e a un comparto narrativo di spessore in grado di toccare tematiche quali l’ingerenza della politica e dell’economia nella società e nella storia dell’uomo. Un prodotto estremamente solido che non mancava di proporre un comparto sonoro da urlo e un gameplay coinvolgente e divertente. E più di tutto, fu la dimostrazione delle capacità, in qualità di lead designer e scrittore, di Ken Levine come autore e creatore di mondi finzionali interattivi.
Da System Shock 2 ai (due) Bioshock
L’esperienza accumulata con Looking Glass e con System Shock 2 (senza dimenticare l’avvento di Sony con Playstation e di titoli rivoluzionari come Metal Gear Solid 1 e Final Fantasy VII che misero in crisi numerosi sviluppatori nordamericani), portò Levine a maturare il desiderio di voler sviluppare un titolo che approfondisse i nuclei concettuali esplorati nel precedente titolo all’interno di una nuova produzione che mescolasse insieme il genere dello sparatutto in prima persona con quello del gioco di ruolo. Insomma, arrivare a realizzare un titolo che potesse inserirsi nel filone dei cosiddetti immersive sim e reggere l’impatto con l’agguerrita concorrenza nipponica.
Dopo aver lavorato su diversi concept (tutti gemmazioni dell’idea-zero dell’inquietudine come architettura e leitmotiv narrativo) e aver prodotto una demo per attirare gli investitori, Levine riuscì a ottenere un contratto con 2K Games ed essere così acquistato dal colosso Take-Two Interactive. Raggiunto l’obiettivo principale, ovvero avere un grosso budget a disposizione (parliamo di circa 15 milioni di dollari, una cifra veramente alta per l’epoca), il lavoro di Irrational Games, sorretto da un’importante campagna marketing, si concentrò sulla profilazione del giocatore ideale e sullo sviluppo di una ambientazione sui generis implementando meccanismi narrativi non lineari e soluzioni di gameplay interpretabili (se non proprio emergenti) nelle sue varie combinazioni e interazioni ambientali possibili. Il risultato fu BioShock, rilasciato nell’estate del 2007 e rivelatosi un successo in termini di critica e di pubblico con circa quattro milioni di copie vendute.
Anche se a conti fatti – esclusa la gigantesca creazione di un luogo finzionale come Rapture, una prigione distopica che musealizza e propone l’esasperazione decadente e tossica di una particolare idea del mondo (e dell’uomo) che plasma e regola uno spazio altro rispetto alla realtà – il lavoro di Levine non può considerarsi rivoluzionario (non è stato di certo il primo ad aver avuto l’intenzione di veicolare con attenzione e spessore determinate tematiche attraverso la trama di un videogioco), non possiamo non riconoscerne l’impatto sull’intero medium e il suo costituirsi come ulteriore prova delle potenzialità espressive raggiunte dall’industria videoludica capace di riservare margini di manovra anche a progetti più autoriali.
Nonostante le pressioni del publisher, Levine decise di non partecipare allo sviluppo del sequel, preferendo, invece, concentrarsi sullo sviluppo di un nuovo capitolo sì riconducibile a quel tipo di esperienza à la Bioshock, ma contemporaneamente diverso e nuovo dal punto di vista immaginativo e narrativo. Un lungo percorso che si concretizzò con la pubblicazione di BioShock: Infinite nel 2013: il vero seguito spirituale del primo capitolo, capace di recuperarne la sensibilità e la cura per i dettagli in una ambientazione rinnovata e più sognante che mai. Un viaggio sopra le nuvole, solcando gli azzurri ipocriti cieli dello sciovinismo e del fanatismo.
La storia di Ken Levine: scrittura come visione del mondo e di se stessi
Seguendo le varie interviste e dichiarazioni che Levine ha rilasciato nel corso della sua carriera, quello che ne risulta è una personalità in forte conflitto con se stesso. O, per meglio dire, una persona che vive in maniera del tutto particolare una condizione di ansia generalizzata e il suo personale processo creativo che porta agli eccessi questa condizione.
Elaborare e lavorare sulle idee diviene perciò una sorta di strano percorso che porta il lavoro artistico ad abbracciare le parti più strane e oscure di se stessi e raggiungere uno stato creativo che può sfociare in comportamenti negativi e deleteri per le altre persone. Un risultato di cui Levine è consapevole e che ritiene, se tenuto sotto controllo e razionalizzato prima di esplodere grazie anche a figure esterne, necessario per partorire le idee più strane e più controintuitive. Superare quei limiti per oltrepassare la normalità e arrivare a concepire le storie più bizzarre e folli possibili; risultare di conseguenza un po’ strani, ma poi, una volta giunti a quegli stadi eccessivi della fantasia, tornare indietro per renderli concreti e reali.
Ecco, una cosa che Levine sembra aver compreso, riguarda proprio la necessità di bilanciare questi aspetti: essere consapevole della libertà da concedere alla propria creatività, anche nei suoi aspetti più critici e ambigui, ma anche della salubrità dell’ambiente e della vita delle persone che lo circondano.
D’altra parte, l’allontanamento da Irrational Games e la volontà di staccarsi dalle logiche produttive di un titolo AAA, sono la conseguenza di questa presa di coscienza: cioè, salvaguardare la propria salute, quella dei suoi colleghi e resistere alla particolarissima idiosincrasia che lo vede abitare le vesti del direttore creativo e del direttore di produzione, preso fra l’ansia e lo stress delle deadline (con il successivo giudizio del pubblico e della critica e l’eventuale insuccesso di vendite che può determinare la fine di un progetto) e il buco nero del budget e del tempo infinito, che in maniera altrettanto deleteria può portare a delle paralisi quando si tratta di prendere delle scelte definitive.
Leggendo la storia di Ken Levine, ci troviamo di fronte a una personalità complessa che vive la scrittura come una terapia del tutto particolare per la propria persona. Che è convinta delle potenzialità del medium videoludico e lotta per eliminare quelle forme di sudditanza e i vari complessi di inferiorità che in molti provano nei confronti di forme e personalità appartenenti ad altri mondi artistico-produttivi quali il cinema o la letteratura. E che utilizza gli strumenti a sua disposizione per esplorare e affrontare tematiche filosofiche, modelli economici e critiche sociali mirate a una rielaborazione e riscrittura di processi storici quali eventi non unici del passato collocandoli però in bizzarri contesti finzionali. Un modo per rileggere, secondo una visione ciclica della storia, ideologie e fenomeni culturali secondo una prospettiva prettamente (post)moderna.
L’utilizzo di una narrazione non-lineare introduce, infine, un ulteriore livello di analisi e di immersività tipica di un contesto interattivo e frammentato (soprattutto nella capacità di gestire il tempo narrativo e quello ludico secondo particolari esigenze emotive e, nel caso di BioShock e BioShock: Infinite, anche spaziali nella creazione di una architettura che non è solo mappa di gioco, ma vero e proprio mondo significativo) capace di valorizzare la visionarietà disturbante e inquietante di una scrittura che si appoggia a costruzioni ludiche più consolidate. Non è tanto la sostanza, il cosa, insomma, che rende le fantasie elettroniche di Levine così interessanti, quanto il come esse si sviluppino e come arrivino a creare dei sistemi comunicativi (anche extra-ludici) con i giocatori. Ritorniamo all’inizio: le storie servono anche per comunicare e quindi a collegare fra di loro chi ne fruisce, secondo le varie declinazioni possibili. Di conseguenza, non importa la grandezza della produzione, quanto la volontà di chi ne fa parte di volersi fare strumento espressivo.
Per scoprire le nuove mosse di un Levine ormai lontano dalle logiche delle grandi produzioni, non ci resta che attendere l’uscita del suo prossimo titolo. Purtroppo ancora senza una data di uscita e sostanzialmente sconosciuto, in sviluppo presso il piccolo team chiamato Ghost Story Games. E con la speranza di poterci giocare il prima possibile, ci auguriamo che Levine continui non solo ad arrovellarsi intorno alle questioni a lui più care, ma riesca a influenzare, fino a produrre dei cambiamenti, le strutture sociali ed economiche che muovono l’attuale mercato videoludico.