Videogiochi storici e dove cercarli: il caso di Fire Emblem: Three Houses
In questo articolo rifletterò sulla possibilità di inserire un gioco apparentemente a-storico in una più ampia riflessione sulla rappresentazione del passato, e quindi di valutare la rappresentazione della memoria in Fire Emblem: Three Houses.
Malgrado le fondate perplessità di qualche accademico (su tutti citerei forse il Jerome De Groot di Consuming History), negli ultimi anni la possibilità che i videogiochi e più in generale i mondi digitali possano essere storici è ampiamente riconosciuta. Ovvero: siamo d’accordo sul fatto che non solo i videogiochi possano in qualche modo offrire rappresentazioni del passato, o formulare discorsi relativi al passato, ma anche che di conseguenza possano veicolare una conoscenza più o meno approfondita di un determinato periodo storico, o ancora di processi storici o meta-storici (cioè relativi alla produzione, costruzione o studio della storia).
Si parla in questi casi di historical game studies come dello studio di tutti quei dispositivi narrativi e ludici che fanno del videogioco uno specifico strumento di produzione, negoziazione e discussione del passato.
La precondizione principale affinché si parli di un videogioco storico è abbastanza semplice: il titolo in questione deve rappresentare o discutere il passato ‘intenzionalmente’, o esplicitamente. Un’assunzione condivisibile: se il prossimo Assassin’s Creed si ambientasse nel futuro, e non in un’epoca conosciuta, oppure ancora in un mondo diverso dal nostro, non si potrebbe più parlare in alcun modo di un suo potenziale storico o storiografico.
Succede però che, giocando a Fire Emblem: Three Houses, per fare un esempio recente, mi sia trovato dinnanzi a un caso piuttosto interessante. Mi è infatti sembrato che Three Houses veicolasse eccome una certa conoscenza della storia. In che modo questo ci aiuta a ripensare, o estendere, il concetto di videogioco storico? Quanto c’è di “storico” in Fire Emblem: Three Houses, e come si relaziona alla rappresentazione e discussione del passato un mondo fantasy come questo?
Il mondo di gioco di Fire Emblem: Three Houses
Il titolo è un ibrido tra gioco strategico, gestionale e simulatore sociale che si ambienta nell’immaginario continente del Fódlan, diviso in tre nazioni e dominato dalla Chiesa di Seiros, con sede al monastero del Garreg Mach. Spazi, cultura e mondo di gioco sono ispirati a un Medioevo infarcito di elementi fantasy come segni magici, incantesimi, mostri e trasformazioni.
Gli eventi narrati avvengono attorno al 1180, ma il calendario è del tutto diverso da quello cristiano. Si ha quindi a che vedere, ed è evidente fin da subito a partire dall’estetica dei personaggi, con un power fantasy che ibrida ispirazioni provenienti da Harry Potter quanto da Il Trono di Spade, per non parlare poi della pletora di influenze della cultura anime o manga a tema.
Per una concezione nominale della storia, pensare a Three Houses come a un videogioco storico è impossibile. Dalle lunghe introduzioni al contesto narrativo alle panoramiche su usi e culture del Fódlan, il gioco chiarisce continuamente la sua alienità al contesto reale, e di conseguenza il suo più completo disinteresse a dinamiche storiche.
Di seguito, parlando della mia esperienza col gioco, cercherò però di riflettere su come molte delle componenti del titolo parlino comunque e malgrado tutto di storia: si relazionino cioè a un passato collettivo rielaborato, rimediato e sparpagliato per innumerevoli narrazioni multimediali. Analizzerò quindi Fire Emblem: Three Houses in base al suo lavoro di memoria, che potremmo definire sulla scia di alcuni accademici di memory studies e game studies come “il modo in cui la memoria, in quanto processo, crea, controlla o definisce il senso del passato”.
Brand di memoria in Fire Emblem: Three Houses – Rovine
Essendo da qualche tempo appassionato dello studio delle rovine nei videogiochi (a proposito invito a recuperare la vasta bibliografia in merito, a partire forse dal lavoro di Daniel Vella), in Fire Emblem: Three Houses ho da subito notato un gran numero di ambienti in decadenza. Le rovine fanno da scenario per molti sviluppi chiave della storia.
È visitando quel che resta del Canyon Rosso e scoprendone il rapporto con l’antica città della Dea che il protagonista inizia a capire qualcosa sulla propria natura; è dinnanzi alle rovine di un’antica cappella abbandonata che assistiamo al primo grande colpo di scena del titolo; è infine tra le rovine del monastero del Garreg Mach che si ambienta la seconda parte del gioco. Più in generale molte missioni si basano sulla difesa, appropriazione, o pulizia di luoghi oramai diventati ruderi. Quel che mi ha da subito catturato in Fire Emblem: Three Houses è stato però il ruolo atmosferico e memoriale delle rovine.
In quanto parte dell’ambientazione, le rovine fanno per il Medioevo ciò che il grigiore, la trincea o il deserto terroso fanno per la Prima Guerra Mondiale: sono frutto di quella che Salvati e Bullinger chiamano autenticità selettiva. Quando pensiamo al Medioevo, lo facciamo in base a coordinate precise: armature, battaglioni, scontri campali, castelli, appunto rovine di un passato ancora più remoto – tutti elementi che, filtrati più da film o romanzi che non da fonti storiche, vengono di volta in volta inseriti in contesti sempre diversi e allo scopo di rendere ambientazioni riconoscibili, creare contesti familiari e così via.
Più che ricostruire una versione coerente e attendibile del passato, questi elementi decontestualizzati e rielaborati selezionano atomi di autenticità per costruire mondi che in qualche modo si appoggiano su altri.
Cliché
Partecipano a questa ‘autenticità selettiva’, che rende Fire Emblem: Three Houses una rielaborazione (o un ricordo) del Medioevo, vari altri cliché dell’ambientazione medievale: feudi invasi da briganti, monasteri, castelli, cittadine portuali. Narrativamente invece, i personaggi fanno continuo riferimento al proprio contesto sociale, fortemente classista, che opera anche violente distinzioni tra casate nobili e popolani: un sistema rafforzato da stemmi, simboli, segni riconoscibili che richiamano la lunga tradizione araldica. Perfino il preponderante apparato religioso lavora in questo senso.
Nelle battaglie poi, benché si abbia modo di controllare un singolo protagonista per volta, ognuno è seguito da invisibili gruppi armati che si manifestano solo quando si effettua un attacco, o qualora si visualizzi il campo rinunciando alla classica ‘scacchiera’ in panoramica aerea. I conflitti tra le unità danno quindi vita a scene che si rifanno in tutto e per tutto a rappresentazioni drammatiche di scontri campali viste più volte al cinema.
Armi
Concorre poi all’autenticità selettiva il feticismo per le armi che il power fantasy ha ereditato dalla Seconda Guerra Mondiale, un topos ricorrente di videogiochi incentrati sul combattimento. Il feticismo per le armi delle generazioni passate ruota attorno alla rappresentazione (mutuata per lo più dalla memoria collettiva americana) della Greatest Generation, quella di chi ha combattuto durante il secondo conflitto mondiale, e inserita nel contesto fantasy genera ammirazione e reverenza per oggetti di un passato ancestrale, che i protagonisti prendono e imparano a utilizzare soltanto durante la maturazione.
Se, in Valkyria Chronicles, Koski osserva l’ossessione del protagonista per il carro armato del padre, nel contesto di Fire Emblem: Three Houses si hanno le armi della Dea, ereditate dalle varie famiglie nobiliari. Queste reliquie sono estremamente potenti, hanno effetti magici e un’estetica ibrida che rimanda a mondi lontani e passati misteriosi: oltre a questo sono legate al segno di chi le impugna, quindi al sangue nobiliare e alla discendenza di famiglia, e risuonano con esso. Così le nuove generazioni (“nuove leve” in questo senso è quantomeno azzeccato visto il contesto bellico) diventano “degne” di quelle passate: assumendosi le loro responsabilità, incarnando il loro potere, maneggiando le loro armi.
Da giocatore, spesso mi sono cimentato nelle missioni secondarie proprio per completare la collezione di questi potenti artefatti più che per portare avanti la competenza della classe o il sostegno tra i personaggi.
Amori e amicizie nel Fódlan: il rapporto coi personaggi come meta-storia
Alle battaglie, il gioco alterna fasi esplorative e gestionali in cui si ha modo di passeggiare per il monastero del Garregh Mach e interagire coi vari studenti. Aumentare l’affinità tra i personaggi tramite pranzi, tè, regali o dialoghi ha il preciso scopo di rendere le prestazioni sul campo migliori: più è alto il sostegno tra due membri della squadra messi fianco a fianco in battaglia, maggiore diventa la loro forza.
Non nego che l’attività abbia catturato la maggior parte della mia attenzione: non essendo pratico del genere, ho trovato nella pur spartana gestione dei rapporti sociali del gioco la sua risorsa più interessante. Non solo: l’approfondimento caratteriale e del background dei vari personaggi, oltre a dare profondità al mondo di gioco, è una delle sue più efficaci caratteristiche “memoriali”.
Col pretesto dell’affinità sul campo di battaglia, ibridando la visual novel otome al gestionale bellico Fire Emblem: Three Houses consente al giocatore di interagire con personaggi che, volenti o nolenti, costruiscono la storia del loro mondo, dichiarando guerre, conquistando avamposti, partecipando a ribellioni e parteggiando per casate, regni, imperi e così via.
A tal proposito consiglio la lettura del saggio sul rapporto tra giochi otome e storicità Falling in Love with History di Kazumi Hasegawa, contenuto in Playing With The Past, assieme al saggio sopracitato di Salvati e Bulinger. Interagendo con i gusti dei protagonisti, con le loro frivolezze e le loro ingenuità nella prima parte del gioco, ho avuto modo non solo di sviluppare varie route romantiche, ma anche e soprattutto di toccare con mano una dimensione umana che spesso la storia occulta, e che soltanto nella fiction storica o nelle pseudo-storie trova lo spazio che merita. Scendendo a patti con fragilità, debolezze e crisi dei personaggi, li ho visti trasformarsi, e ho potuto capire non solo le loro evoluzioni, ma anche e soprattutto le loro contraddizioni.
Edelgard e Dimitri sono forse i casi più eclatanti di questa messa in prospettiva dell’uomo rispetto al condottiero, e viceversa: di entrambi abbiamo modo di vedere almeno due facce alternative, una delle quali mostruosa – entrambi sono responsabili, o lo diventano, di veri e propri stermini di massa: veniamo a sapere che Dimitri ha sterminato furiosamente innocenti e civili nel Duscur, e che non si è fatto scrupolo a torturare o uccidere anche donne e bambini dopo l’attacco dell’Impero (nella seconda parte del gioco).
Dall’altro lato, Edelgard è pronta a sacrificare ogni cosa per ciò in cui crede, compreso quindi lasciar morire orrendamente suoi alleati o sottoposti, oppure ancora ordire cospirazioni dagli esiti tanto drammatici da portare poi, sul lungo termine, a eccidi (si vedano la discriminazione e lo sterminio dei duscuriani). Malgrado questo per la maggior parte del tempo possiamo conoscere ciò che gli piace, invitarli a pranzo, soccorrerli sul campo di battaglia, parlare con loro di un traumatico passato, apprezzarne i valori e i buoni sentimenti.
Come per gli altri, anche le loro storie vengono contestualizzate nel più ampio insieme delle dinamiche sociali e politiche del Fódlan, il che rafforza anche l’idea della pervasività degli equilibri sovrapersonali nel vissuto individuale. Tra gli altri personaggi spiccano minoranze etniche (Dedue non ritiene sé e i propri simili degni del rispetto degli altri dopo l’incidente del Duscur; Petra ha sistematici problemi con lo studio della lingua del Fódlan e sogna continuamente di tornare alla propria terra), e quindi dinamiche di integrazione o discriminazione, vari tipi di personalità, di vicende, di rapporti con la famiglia, il retaggio, l’autorità o le ambizioni individuali.
Il nutrito gruppo di protagonisti offre così una visione sfaccettata, stratificata e complessa della guerra che, benché possa apparire volgare e stilizzata, è in realtà preziosa nel dare a chi gioca la possibilità di scorgere la complessità di processi bellici e storici, spesso motivati da ragioni emotive, politiche, religiose e così via.
Troviamo qualcosa di simile in giochi come Valkyria Chronicles, o più in generale in tutti quei titoli memoriali di cui parlano anche Holger Pötzsch e Vít Šisler. Con l’evolversi del racconto in base alle scelte dell’utente, inoltre, nella seconda parte si ha modo di parteggiare per una fazione e di combattere all’ultimo sangue contro le altre: sperimentando in questo modo, anche attraverso più partite consecutive, una riflessione sintetica sulla relatività del bene e del male in uno scontro fratricida.
Risorse per la memoria, minacce per la storia: alcuni limiti di Fire Emblem: Three Houses
Durante Fire Emblem: Three Houses ho avuto modo di conoscere e approfondire la dimensione umana di vari personaggi destinati a scrivere la storia del loro mondo. Ho avuto modo di mettere in dubbio la verità del mondo così come mi veniva raccontata dalla Chiesa di Seiros e di dubitare delle intenzioni degli ideali per cui combattevo; di lottare in difesa di icone o simboli del passato del Fódlan, e al fianco di chi era disposto a morire per loro; ho ordinato ai miei compagni di massacrare eserciti in ritirata per impedire che organizzassero un contrattacco; e più in generale ho fatto esperienza di un contesto che, per quanto indirettamente, parlava del passato e del modo in cui siamo soliti rievocarlo o fantasticarlo. Ho cioè conosciuto un universo narrativo e ludico memoriale, teso alla riflessione (anche involontaria) sulla storia intesa come entità flessibile, sparpagliata, più volte rimediata e rielaborata.
Non solo Fire Emblem: Three Houses può svolgere un efficace “lavoro di memoria” a livello narrativo e di worldbuilding, ma può anche invitare a una certa riflessione meta-storica, metaforizzando o rievocando processi che possiamo riconoscere nel passato, o ricondurre al passato. Conviene definire il titolo, anziché come “videogioco storico”, come “videogioco memoriale”: solo in questo modo è possibile analizzare la sua partecipazione a un più ampio e stratificato processo di rimodulazione e ri-attualizzazione del passato, che rimanda a diversi brand di memoria ed esemplifica l’intrinseca mutabilità e vulnerabilità della storia.
È interessante notare che grazie, alla prospettiva memoriale, è possibile rivalutare i vari limiti del videogioco e del suo modo di rapportarsi al passato. Tra questi limiti citiamo la rappresentazione della morte, che per la maggior parte del tempo non comporta conseguenze narrative rilevanti o sul lungo termine; la stilizzazione con cui vengono rappresentati scontri armati, massacri, esecuzioni e perfino torture; il potere del protagonista di riavvolgere il tempo per impedire che dei compagni muoiano, che problematizza la possibilità stessa di Fire Emblem: Three Houses di porsi come riflessione meta-storica sulla vulnerabilità o mutevolezza dei processi storici, ma la lista potrebbe allungarsi per un bel po’.
È interessante notare che questi vizi di forma, problematici e oggetti di studio per gli historical game studies, da una prospettiva ‘memoriale’ possano diventare risorse per una concreta riflessione sul modo in cui ci ricordiamo il passato: Three Houses rappresenta la morte, la violenza, o la storia come processi in-fieri, da riavvolgere e modificare a piacimento, da manipolare e raccontare di nuovo.
In questo senso, come il videogioco storico dice qualcosa su cosa sia la storia, e come si possa storicizzare un periodo, analogamente il videogioco memoriale ci invita a riflettere su come la nostra memoria sia, proprio in quanto memoria, distante dalla realtà del passato e situata nel presente. Ma questa, mi si passi il gioco di parole, è un’altra storia ancora.