Lo Strangolatore di Boston (Boston Strangler): Keira Knightley torna come protagonista in una macabra storia ambientata negli anni ’60, tra omicidi e inchieste giornalistiche. Peccato che manchi la giusta tensione
Bentornata Keira Knightley. È la prima cosa che ci viene in mente, prima, dopo e durante la visione de Lo strangolatore di Boston (Boston Strangler), film di Matt Ruskin distribuito in Italia da Disney nel suo catalogo Star.
Dopo una grande sovraesposizione dell’attrice, praticamente onnipresente con quasi 40 film all’attivo dall’inizio del nuovo secolo fino al 2020, negli ultimi anni abbiamo visto il suo bel volto più raramente, ma è una bella sensazione riaverla sulla scene nei panni della protagonista, soprattutto considerando che la Knightley si dimostra ancora una volta una delle migliori della sua generazione.
Facciamo un passo indietro però e concentriamoci sulla pellicola di Ruskin.
Dei fatti dello strangolatore di Boston e degli atroci omicidi commessi nella città del Massachusetts (e non solo) dal 1962 al 1965 ne aveva già parlato l’omonimo film del 1968 diretto da Richard Fleischer, ma stavolta la strada che si decide di percorrere è diversa, e le vicende vengono viste e narrate dal punto di vista della giornalista Loretta McLaughlin (Keira Knightley), reporter del Record American, che indagò e scrisse su questo complesso caso.
Secondo quanto emerge dal racconto di Ruskin, dopo i primi omicidi la polizia mise a tacere le voci dei possibili collegamenti, e fu proprio la giornalista, che al tempo si occupava di moda e costume, a far luce su queste inquietanti connessioni, obbligando di fatto gli inquirenti ad ammettere questa possibilità e mandando la città, in particolare le donne sole e anziane, nel panico.
Inizialmente questo assassino sembrava colpire infatti donne di una certa età, che si trovavano da sole in casa e quindi più fragili, entrando nelle loro abitazioni con una scusa e strangolandole, senza lasciare mai tracce. Dopo un po’ tuttavia lo schema cambiò, e gli omicidi successivi videro tra le vittime anche donne più giovani.
Ad affiancare Loretta McLaughlin in questa inchiesta giornalistica c’era Jean Cole, interpretata nel film da Carrie Coon, e questo sodalizio è uno dei punti di forza del lungometraggio distribuito da Disney. Spendere parole d’elogio per la Knightley sarebbe ridondante, ma è sbalorditivo anche il modo in cui la Coon mette in scena una performance da attrice navigata, con un carisma da vendere e necessario per interpretare la reporter esperta e di successo che deve in qualche modo guidare la McLaughlin.
Le loro indagini, fitte e ingarbugliate, ci portano a scoprire inquietanti dettagli di questa macabra storia di cronaca nera, ma il fatto che Lo strangolatore di Boston giochi tantissimo su questo aspetto e soprattutto su un problema di sessismo e misoginia, sia negli ambienti lavorativi, in particolare quello del giornalismo, sia alla base delle motivazioni della lunga lista di omicidi, lo rende un prodotto troppo ibrido, eccessivamente fiacco sul fronte thrilleristico e poco intenso nella sua narrazione di giornalismo di inchiesta (sebbene quest’ultimo aspetto gli riesca decisamente meglio): una miscellanea che di fatto indebolisce la suspense e fa perdere gran parte di quella tensione che ci saremmo aspettati da un film del genere.
In particolare a deludere sono gli ultimi 30 minuti, dove vengono ammassati dei plot twist in maniera sbrigativa e poco interessante, sebbene la storia da questo punto di vista avesse un grande potenziale.
Mi è venuto immediatamente da pensare a come David Fincher avrebbe girato un film così e ho avuto i brividi. Tuttavia Matt Ruskin ha proseguito per la sua strada, ed in fondo è anche giusto così, perché al netto dei difetti evidenziati Lo strangolatore di Boston non è un brutto film, funziona come buon drama e prova a lavorare come può sul filone dell’inchiesta. Non sarà certo un’opera a là Tom McCarthy, ma la ricerca della verità della McLaughlin e della Cole resta uno degli aspetti più interessanti. È innegabile però che un finale più fincheriano e denso di tensione avrebbe regalato al film qualche voto in più.
Mentre ci godiamo l’ennesima importante performance della Knightley, possiamo insomma anche accontentarci del certosino lavoro di Ruskin, l’importante è che non proviate a chiamarlo thriller.