È possibile utilizzare il materialismo storico di scuola marxista per interpretare e analizzare il videogioco come merce? Il sociologo (e videogiocatore) britannico Jamie Woodcock ha provato a rispondere a questa domanda, coniugando intrattenimento digitale e critica al capitale nel suo saggio Marx at the Arcade
Per chi bazzica gli ambienti neo-accademici fatti di attivismo e ricerca che si legano in modo indissolubile, quello di Jamie Woodcock è un nome che probabilmente presto o tardi sarà saltato fuori. I motivi, ovviamente, sono contenuti nei suoi scritti che negli ultimi anni hanno trattato in modo puntuale e direzionato alla costruzione di un sindacalismo militante, concreto e scientificamente accurato in quelle categorie lavorative nate nell’era del post-capitale e su cui il sistema economico può fare pressioni in modo più consistente perché totalmente sguarnite di salvaguardie adeguate.
Dopo (e durante) un lavoro accurato e accorato – nato anche da esperienze di vita personale – su gig economy e call center il ricercatore di base a Londra decide di riversare quanto imparato circa il materialismo storico, il capitale, il sindacalismo e la lotta di classe grazie agli scritti di (e derivati da) Karl Marx in un libro che analizza sotto questa lente una delle grandi passioni di Woodcock: il videogioco. Da questi ragionamenti, nel 2019, arriva sugli scaffali delle librerie di molti paesi – purtroppo non in Italia, se non per vie traverse – Marx at the Arcade, il frutto di questo meticoloso lavoro di ricerca.
Una critica “marxista” del videogioco non è da intendersi come una condanna al videogioco come se fosse un meccanismo borghese utilizzato per ricreare il peggiore dei capitalismi. Sì, molti videogiochi hanno tematiche problematiche e hanno incisi dentro di essi l’oppressione sia nella realizzazione che nell’uso. Ma questo vale anche per la letteratura, la televisione, il cinema e la vita in sé. […] Un’analisi che possa definirsi marxista punta piuttosto a far uscire la storia radicale del videogioco, posizionandolo dentro una fitta rete di hacker e corporazioni, fuga e cooptazione, resistenza e oppressione
– Jamie Woodcock
Diviso in due parti, Marx at the Arcade (il cui sottotitolo recita “Consoles, Controllers and Class Struggle“) come già accennato si pone l’obiettivo di studiare il videogioco tramite gli insegnamenti e gli studi marxisti in materia economica e politica. Woodcock pone grande enfasi sulla struttura del suo libro, ovvero sulla scelta di distinguere il videogioco in quanto merce dal giocare come attività anti-lavorativa.
Abbiamo quindi una prima manciata di capitoli che attraversano la storia del videogioco partendo dal sentimento che spinge a giocare fino, passando per le origini (spesso dimenticate) di derivazione militare per cui il videogioco esiste e concludendo con tutte le caratteristiche dell’attuale situazione lavorativa che ruota attorno al videogioco. Insomma un percorso che racconta la storia stessa del videogioco e la sua struttura lavorativa abbiano lasciato grande spazio di manovra al capitalismo per inserirsi.
Secondariamente, ma non per importanza, Marx at the Arcade affronta singolarmente i topoi e le caratteristiche dei generi di videogioco più diffusi e li sottopone al vaglio degli insegnamenti scientifici di cui sopra. In questo modo svela come anche un’attività sulla carta pensata come escapista e anti-lavoro come il giocare possa essere contaminata e corrotta dalle logiche reazionarie e soprattutto mercificanti del capitalismo.
In buona sostanza il fulcro del libro è dunque, dare gli strumenti per una critica che sia sì marxista al videogioco, ma soprattutto che non lo osteggi ma anzi ponga le basi per una strutturazione di un pensiero che possa portare alla lotta di classe anche in questo strumento ricreativo. Con buona pace di chi rivendica una depoliticizzazione dell’hobby e dell’industria che si rivela poi accomodante verso i contenuti e i modi destrorsi che da oltre sessant’anni dettano legge all’interno di questi.
Di hackers, simulazioni militari e crunch time: storia minima del (lavoro nel) videogioco
Stando ai dati che Jamie Woodcock snocciola all’interno di Marx at the Arcade, quello tra capitale e videogioco è un rapporto indissolubile fin dai suoi inizi. Poche volte, infatti, viene sottolineato che la nascita stessa del medium sia legata allo sviluppo tecnologico che – come accade per moltissime altre avanguardie elettroniche – ha il suo nocciolo all’interno della questione militare. I primi prodromi di videogioco, infatti, sono riscontrati in simulazioni che la NATO ha creato per istruire e affinare le tecniche missilistiche da cui, però, alcuni ingegneri e programmatori hanno derivato programmi pensati appositamente per lo svago, circolati in modo clandestino all’interno delle reti militari e il cui successo era quasi incontenibile.
Un quasi che va sottolineato e appuntato perché, nel momento stesso in cui il successo inizia a tracimare al di fuori di cervelloni e informatici dissidenti bussando alla porta dell’opinione pubblica, lo zampino del capitale trova il giusto spazio per monetizzare e regolamentare una forma di intrattenimento che dalle mire anti-lavoro passa nelle spire del profitto e del plusvalore. Marx at the Arcade qui prende il suo tempo dedicandosi in modo approfondito e fondante – talmente tanto da diventare quasi il tema portante del saggio – al come e quanto la struttura del capitale e del post-capitale abbiano modificato a più riprese le strutture stesse del videogioco e della sua industria, costruendone un complesso praticamente impenetrabile per la lotta di classe.
Il materialismo storico, di contro, si inserisce in modo limpido nelle pagine che compongono lo scritto definendo in modo molto semplice ma decisamente efficace tutti quei momenti e quelle opportunità di critica che si può fare nel medium. Dalle origini fino alle più moderne forme di lavorismo coatto Woodcock analizza e spiega tutti i punti in cui è possibile ritrovare quanto analizzato da Marx circa il lavoro anche nel videogioco, fornendo dati e strutture delle aziende sia in modo diacronico (ovvero dagli albori a oggi) sia sincronico con le attuali tendenze.
Una prospettiva sindacalista attraverso la quale non osteggiare in toto il medium e l’industria ma piuttosto tagliarli e criticarli, proponendo nuove e inedite (fino a oggi) chiavi di lettura attraverso il quale valutare ciò che si gioca, scardinando contemporaneamente decenni di monopolio capitalista che hanno scolpito e definito sia l’industria che l’utenza. Uno strumento attraverso il quale rendersi conto e essere consapevoli dei prodotti che si stanno utilizzando, valutandone ogni aspetto compreso il lavoro della singola impiegata o del singolo spedizioniere che ci hanno permesso di usufruirne.
Videogiocare come atto produttivo
La seconda parte di Marx at the Arcade pone accenti forse meno profondi sull’atto ludico in sé, analizzandoli sia meccanicamente, che avendo ben intesi i più contemporanei strumenti aggregativi dove le persone si trovano sia a giocare che a discutere dei loro titoli preferiti.
Ho specificato “meno profondi” perché le analisi qui parzialmente si dimenticano di addentrarsi in quegli spazi in cui la logica del capitale viene applicata dalle software house non solo nei momenti di realizzazione ma anche e soprattutto nei momenti d’uso creando un sistema economico al quale chi gioca deve sottostare. Badate bene: Jamie Woodcock prende in considerazione questi aspetti, ma non lo fa in modo approfondito come nella prima sezione del libro. Sarebbe stato utile una prosecuzione argomentativa dell’ottimo lavoro fatto nei primi capitoli ma è altrettanto vero che questo saggio è un punto di partenza, uno strumento preliminare attraverso il quale iniziare a discutere di questi aspetti anche all’interno del videogioco.
Analisi decisamente più strutturata, invece, viene fatta nelle ultime battute della seconda parte; durante la quale il sociologo affronta la fuoriuscita dei modi del trolling dagli ambienti videoludici a quelli della politica. Qui, ovviamente, il caso preso in esame parte dalle chat di gioco e arriva inevitabilmente a toccare la spinosa e complessa questione Gamergate la cui eco seppur sempre molto contingente alla comunità di videogiocatrici e videogiocatori ha contribuito ad accrescere la voce e la legittimità dell’alt-right nell’opinione pubblica.
Marx at the Arcade, qui, vuole quindi cercare di avvertire lettrici e lettori circa la quantità di bombardamenti propagandistici che il capitale inserisce all’interno del videogioco e fornisce loro gli strumenti per criticarli in modo sano e costruttivo, creando un’utenza consapevole e capace di criticare in modo strutturalmente rilevante il videogioco in ottica di materialismo storico.
Il videogioco conta
Per concludere, citando e traducendo il titolo del capitolo finale del saggio, è possibile dire che Marx at the Arcade rappresenta un libro fondamentale sia per chi è interessato all’applicazione del marxismo in svariati oggetti culturali sia per chi è appassionato di videogiochi e vuole contribuire in modo etico e moralmente utile allo sviluppo del medium. Una critica che, come già detto, non disdegna né osteggia il prodotto in sé ma vuole fornire gli strumenti di consapevolezza necessari per una direzione differente a quella univoca che ha contraddistinto l’industria dalla sua creazione a oggi.
Ad oggi, combattere per una cultura digitale e online che sia migliore o contestare la tossicità di alcuni videogiochi sembra un compito scoraggiante. Per un individuo lo è, certamente. Eppure, le storie di lotta e resistenza nel campo del videogioco ci dimostrano che la storia di quest’ultimo non è stata sempre e soltanto univoca. La lotta è parte del videogioco fin dai suoi embrioni.
– Jamie Woodcock