Il concetto di conservazione dei videogiochi: ne affrontiamo le problematiche principali con Andrea Dresseno dell’Archivio Videoludico
Il videogioco è un medium particolare, descritto da Enrico Gandolfi nella recente intervista di Claudio Cugliandro come un “costrutto complesso, un crocevia definito da diverse variabili in perenne dialogo“. È un medium stratificato, che si compone di diverse parti, tra loro complementari nella creazione e fruizione del videogioco stesso: la parte hardware (console, pc, cd, key, mouse, tastiera, controller, VR ecc.), la parte software (client, file digitali, salvataggi ecc.), la parte artistica (storyboard, concept art, digital art, character study), la parte scritta (dialoghi, interfaccia, intermezzi narrativi, game design document, level design document ecc.) e potrei andare avanti ancora per molte righe ad elencare l’intrico di componenti che danno vita ad un videogioco.
Data questa stratificazione così complessa, anche la questione della sua conservazione è piuttosto spinosa. In questo articolo, con l’aiuto di Andrea Dresseno dell’Archivio Videoludico di Bologna, che conosce da vicino queste difficoltà, andremo a sviscerare le problematiche che riguardano questo tema.
Una questione fisica
Il primo problema che si deve affrontare quando si parla di conservazione di videogiochi è la questione dell’hardware. L’obsolescenza è sempre dietro l’angolo, ponendo in prima battuta la necessità di conservare. Il primo scoglio è proprio reperire e conservare console e altri tipi di supporti fisici, soprattutto se molto datati. Alla scarsa reperibilità, si aggiunge il rischio di usura e guasto, che renderebbero impossibile usufruire di certe tecnologie, se non adeguatamente rimpiazzate. Aggiungiamoci il problema del “fuori produzione”, che genera a sua volta altre due complicazioni: l’alzarsi del costo dei pezzi ancora rimasti in circolazione e la difficoltà effettiva nel reperire tali pezzi.
Il problema dell’hardware si declina anche nella questione del formato proprietario, spiegato efficacemente da Andrea tramite il paragone con il vhs: dato il possesso di un vhs, esso può essere riprodotto su qualsiasi videoregistratore, rendendo più facile la conservazione (e la consultazione) dal punto di vista economico e della reperibilità. Ipotizzando un fondo di 100 vhs, sarà sufficiente un solo apparecchio per visualizzarle tutte; lo stesso discorso non si può applicare ai videogiochi. Come ben sappiamo, ogni generazione di videogiochi richiede la relativa macchina su cui essere giocata, determinando una moltiplicazione dei supporti tanto rognosa da gestire quanto inevitabile. Ignorare questo aspetto significherebbe condannare un ipotetico archivio a non poter essere usufruito nella sua totalità, diventando una semplice collezione di videogiochi, sterile dal punto di vista dello studio del medium.
L’atteggiamento delle software house
Da parte delle software house, non c’è un interesse primario sulla conservazione, complice anche la mancanza di leggi sul deposito legale, che sanciscano l’obbligo di depositare ogni nuova pubblicazione presso le istituzioni competenti a fini conservativi, come accade per i libri.
Il problema è legato anche all’idea che l’industria videoludica ha di se stessa, come di qualcosa che produce unicamente oggetti di consumo, destinati ad impattare sulle tasche di chi produce, mentre l’impatto culturale rimane secondario. È l’atteggiamento della singola software house a fare la differenza, piuttosto che l’atteggiamento dell’industria come un’unica mente. Questo si traduce, però, in una conservazione parziale di un patrimonio totale vastissimo, ma anche in una sorta di “pre-selezione” dei contenuti conservati, determinata non da una fase di ricerca e scelta dei contenuti da conservare, quanto da fattori esterni ed estranei.
Per quanto riguarda la situazione dell’Archivio Videoludico, i suoi contatti spaziano dalle grandi software house, come Nintendo, Ubisoft ed Activision, agli sviluppatori indipendenti, entrambi ben disposti a donare copie a fini conservativi. Anche questa soluzione presenta delle falle, però, come spiega Andrea: in primo luogo, non sempre vengono donate delle copie fisiche, bensì delle key, possibilità che ricollega al problema del digitale, di cui parlerò nel prossimo paragrafo; in secondo luogo, a volte le key che le software house hanno a disposizione non sono sufficienti da coprire anche la richiesta dell’Archivio, ripresentando lo stesso problema di selezione.
Conservazione videogiochi e mercato digitale
Il digitale è comodo. Non occupa spazio fisico, è accessibile da più postazioni, abbatte i costi di distribuzione. Il problema è che la comodità dell’acquirente è il cruccio degli archivisti.
Un prodotto digitale si basa sul concetto di accesso, non di possesso. L’accesso può essere revocato in qualsiasi momento per qualsiasi ragione da chi lo concede (store digitale, client, software house ecc.); se quel contenuto non viene scaricato su un supporto fisico, gli si può dire addio per sempre. È quello che sarebbe successo con i titoli in possesso dell’Archivio Videoludico alla chiusura del Wii Shop, che ha costretto Andrea a scaricarli tutti su una scheda SD.
Questo riporta al problema del supporto fisico: e se questa SD si perdesse o si guastasse, rendendo inaccessibili i giochi? Non ci sarebbe modo di recuperarli se non per vie illegali, ma va da sé che un’istituzione, privata o pubblica, non può per nessun motivo avvallare o ricorrere a questi mezzi per mettere delle pezze su un sistema ancora lacunoso, nemmeno se fosse per perseguire il suo scopo primario.
Altro discorso ancora si può fare per i giochi solo online, come per esempio gli shooter o i mmorpg, che sono soggetti a periodici aggiornamenti che spesso cambiano totalmente il gioco. Ad esempio, pensiamo a Overwatch e ai suoi continui cambiamenti, sia nelle abilità dei personaggi, come è avvenuto per Torbjorn e Symmetra, sia nelle sue regole, ad esempio la possibilità di selezionare più personaggi uguali, dando vita a temibili combo come squadre di sole Mei o di soli Roadhog. Queste versioni del gioco ormai non sono più accessibili al pubblico, ma possono essere rivissute solo tramite filmati, stream, discussioni su forum e social network, in altre parole esperienze di terzi. Se per motivi di studio, qualcuno volesse tracciare una storia dell’evoluzione di Overwatch, sarebbe costretto a farlo utilizzando esclusivamente mezzi indiretti, che possono comunque fungere allo scopo ma privano di una parte importante del gioco, l’esperienza in prima persona.
Parlando di esperienza, un discorso analogo si può fare anche per l’emulazione. Al di là della controversia sull’emulazione, dal punto di vista conservativo presenta la stessa lacuna. Ad esempio, emulare un gioco per Wii, come fa notare Andrea, priva il giocatore dell’esperienza tattile e corporea di utilizzare il Wiimote. Stesso discorso si può fare per prodotti pensati per il VR, ma giocati su supporti “normali”. Molti videogames sono pensati per essere giocati su un determinato supporto per l’esperienza fisica che ne deriva: giocare ad uno strategico su console o su pc significa avere due esperienze di gioco diametralmente opposte. Privare il giocatore dell’una o dell’altra esperienza significa impoverire il loro valore.
L’importanza della conservazione dei videogiochi
Conservare la cultura è necessario per poter imparare da essa, per poterla studiare, analizzare, capire. Tornare al passato, sia esso remoto o prossimo, è fondamentale per capire i come, i cosa e i perché di ciò che siamo adesso. In questo processo di apprendimento, la conservazione svolge una parte cruciale, perché ci permette di sfogliare le pagine della storia e situarci al suo interno. Questo discorso deve valere anche per il videogioco, soprattutto nella scalata verso lo status di prodotto culturale in cui è impegnato di questi tempi. Con questo articolo si è grattata la superficie di un argomento che meriterebbe maggiore spazio e attenzione, ma la speranza è che guadagni un riconoscimento più ampio dal punto di vista dell’industria e della community.