Il GDR di Lo-Fi Games, Kenshi, si rivela un ottimo esempio per poter riflettere su un tema delicato quale la schiavitù all’interno dei videogiochi
Come si evince dal titolo, l’articolo odierno vuole trattare il particolare rapporto tra Kenshi e la schiavitù. Giova ricordare preliminarmente che non si tratta di una dicotomia esclusiva o nuova all’interno del panorama videoludico. Quale medium indubbiamente capace di trattazioni mature e complesse, il videogame ha affrontato varie volte il tema in parola, con diversi risultati.
Penso a giochi quali Assassin’s Creed: Freedom Cry, pesantemente incentrato sulla tratta degli schiavi, BioShock Infinite, Europa Universalis IV, Victoria II, Fallout 3. Gli esempi si moltiplicano e risulta quasi fisiologico che certi periodi storici costringano il mezzo ad argomenti meno “ludici”. Allo stesso modo il panorama critico ed accademico non è nuovo a disamine di questo tipo. Un’analisi piuttosto interessante è quella di Amanda Kerri, che tre anni fa guardava con occhio molto critico alcuni dei titoli più famosi contenenti dinamiche “schiavistiche”. La censura dell’autrice tocca principalmente una paventata e generale distanza empatica (oltre che una forse fisiologica semplificazione) del videogioco con il concetto di schiavitù.
Diametralmente opposti, anche se molto più complessi, gli articoli di Emil Lundedal Hammar e di Souvik Mukherjee, dove il rapporto tra schiavitù e videogioco viene spostato sotto una lente più tecnica. Il primo articolo risulta particolarmente positivo e propositivo circa la potenza del medium quale strumento capace di modificare ed impressionare la memoria storica dell’utente, attraverso un percorso di apprendimento immersivo e dinamico. Il secondo cautamente traccia i pro e i contro non solo dei diversi titoli portati ad esempio ma, più in generale, la necessaria fallacia rappresentativa che ogni mezzo di narrazione incontra una volta affrontato l’argomento schiavismo, vero e proprio “buco nero” concettuale per ogni uomo libero che cerchi di descriverlo.
Durante il periodo di quarantena forzata ho deciso di immergermi nel durissimo mondo di Kenshi, il GDR hardcore di Lo-Fi Games. Si tratta di un titolo particolare, arrivato in Early Access su Steam nel 2013, rilasciato in versione definitiva nel 2018 e nel frattempo cresciuto e modificato con aggiornamenti costanti e numerosissimi. Kenshi non propone trame principali, storie arzigogolate o quest nel vero senso della parola.
Al contrario mette a disposizione del giocatore un mondo apocalittico molto vasto, suddiviso in fazioni in lotta (o in collaborazione) tra loro. Al centro di questo marasma c’è il giocatore, capace di scalare le vette sociali fino a creare un vero e proprio regno. In mezzo a tutto questo variegato panorama, Kenshi tratta moltissime tematiche, con lo sguardo incolore e neutrale di un osservatore esterno. Tra queste emerge lentamente, ma prepotentemente, quella della schiavitù e dello schiavismo.
Il concetto di schiavitù nella Storia
Per poter procedere, però, è necessario approfondire il concetto di schiavitù, soprattutto nell’ottica di quanto sperimentato con il titolo di Lo-Fi Games. La storia dell’Uomo ha conosciuto praticamente sempre e ovunque forme di schiavismo, più o meno marcate. Agli albori della civiltà, come si può facilmente immaginare, il concetto in quanto tale era secondario alla più semplice sottomissione del nemico, dell’avversario.
Paradossalmente è solo con l’avanzare della complessità sociale, che il ruolo del sottomesso diviene quello di uno schiavo vero e proprio. La crescita di beni, colture ed allevamenti, sproporzionata rispetto a quella dei nuclei familiari, ha portato le società più sviluppate ad accostare il nemico catturato (o comunque il soggetto “inferiore”) alla mera forza lavoro.
Tralasciando le pur importantissime esperienze egizie e greche, è con Roma che si raggiunge l’apice del sistema schiavistico dell’antichità. I Romani non solo basano la loro intera economia sulla forza lavoro coatta, ma sviluppano attorno ad essa un complesso sistema di regole e norme, destinato ad evolversi con il tempo.
Quello che mi ha sempre affascinato in merito allo studio dell’argomento è la profonda differenza tra Romani e Greci, pur nel similissimo risultato pratico raggiunto da entrambe le civiltà (ricordo che Atene conobbe lunghi periodi di tempo dove la percentuale di esseri umani schiavizzati superava gli uomini liberi). In Grecia, però, lo schiavo era considerato una categoria del diritto naturale, ossia, con una semplificazione grossolana ma necessaria, uno status immutabile e oggettivo delle cose naturali.
A Roma invece (perdonando anche in questo caso l’enorme sintesi cronologica), lo schiavo era frutto del diritto civile, una conseguenza delle scelte umane, una sovrastruttura normativa – allo stesso livello delle tasse o di un contratto. A prima vista la scelta romana sembrerebbe la più “gentile”, ed effettivamente permetteva allo schiavo di ristabilirsi nei confronti della società, potendo conquistare (in vario modo, principalmente grazie alla generosità del padrone) l’agognata libertà. In realtà, a ben vedere, è tutto il contrario.
Accettare la schiavitù quale stato naturale delle cose ci aiuta a dormire sonni tranquilli, ci giustifica nell’infliggere ad un nostro simile un trattamento bestiale ed ignominioso ma, immutabilmente, necessario. Lo schiavo in questa prospettiva è tale in quanto tale, e merita di esserlo.
Nella prospettiva Romana invece si straccia questo velo morale, accettando la brutalità della questione: il servus è una res, un oggetto, e come tale viene disciplinato. Il proprietario ne dispone come vuole, ne fa mercimonio ed utilizzo, il tutto nella consapevolezza della sua scelta di privare una persona non solo della sua libertà, ma anche della sua umanità. La capillare struttura legislativa di Roma addirittura permetteva al pater familias di vendere il proprio figlio come schiavo, mentre nei tempi più antichi di esservi condannato per debiti (il cosiddetto nexum, la garanzia creditoria della propria persona, abolita nel IV sec. a.C.).
Come già accennato, ho tratteggiato un quadro realistico, ma certo il più cupo possibile: nell’arco della millenaria storia di Roma, già a partire dal II sec. d.C. il fenomeno della schiavitù conobbe numerose battute d’arresto, nonché regole sempre meno rigide e severe. Rimane però il concetto sovraesposto: lo schiavo quale bene privato, risultato ultimo del potere dell’uomo, sull’uomo stesso.
Il concetto di schiavitù in Kenshi
A ben vedere il videogioco tratta spesso, en passant, la tematica, quasi sempre puntando alla giustificazione concettuale del selvaggio (un po’ come la tratta degli schiavi afroamericani, moralmente scusata dalla ventilata inferiorità dell’uomo tribale) ed alla semplicistica cattiveria di chi la attua. Ferma restando la presenza di titoli molto più profondi di così, è indubbio che Kenshi sia uno di questi. Il primo impatto con lo schiavismo è, come tutto il videogioco del resto, completamente anonimo e disinteressato. Mentre si è soliti raccogliere pepite di rame da vendere per un pasto e un giaciglio, ogni tanto emergono dalle wastelands gruppi pericolosamente armati, con al seguito uno sparuto codazzo di uomini e donne denutriti. Sono schiavi, ma il giocatore neanche ci fa caso.
Poi però capita che durante un torrido pomeriggio uno schiavo fuggiasco si avvicina al giocatore. Si tratta di un evento considerato utilissimo in quasi tutte le guide di sopravvivenza che si affastellano nell’hub di Steam dedicato a Kenshi. Una volta infatti picchiato il debole fuggiasco, il PG ha a disposizione un punching ball umano, utile sia per aumentare le caratteristiche di lotta che per aumentare la forza, trasportando lo sventurato per tutta la mappa.
È a questo punto, dopo aver seguito meccanicamente i tremendamente efficaci consigli della guida, che rimango stordito dal mio stesso comportamento. Sto davvero trascinando un corpo esanime tra un avamposto e l’altro, solo per diventare “forzuto”? La conseguenza è che mi disinteresso alla crescita del mio personaggio e cerco di approfondire il rapporto del mondo con la mia vittima. Il titolo, pur nella sua mancanza di trame, è molto complesso dal punto di vista sociale. Le fazioni riconoscono amici e nemici, ogni personaggio reagisce diversamente a seconda del comportamento lecito o illecito del giocatore, addirittura alcuni PNG sono dotati di comportamenti casuali che vanno dal chiedere le mazzette per l’utilizzo di un sito minerario, fino alle più brutali aggressioni per spogliarci dei nostri averi.
Comunque sia, in Kenshi non si può andare in giro con un corpo svenuto, né si può prendere a cazzotti chiunque. A meno che quel chiunque non sia uno schiavo. In un ritorno incredibilmente doloroso al diritto romano, il prodotto evita qualsiasi sovrastruttura morale, etica o storica per giustificare il comportamento bestiale dei PNG. Semplicemente lo schiavo è un oggetto e tale è destinato a rimanere.
Il gioco, però, va oltre. La mera mancanza di un supporto narrativo, tale da poter indorare la pillola, ben potrebbe essere solo il sintomo di una scarsa predisposizione al racconto, alla storia. In realtà si tratta di una scelta precisa: al contrario di tanti altri videogiochi, che inseriscono la tematica per poi glissare sul suo impatto all’interno dell’economia di gioco, gli schiavi di Kenshi rappresentano l’ossatura del sistema produttivo di una delle fazioni più potenti.
Per poter controllare con mano, per poter stilare questa specie di meta-reportage, decido quindi di iniziare un nuovo PG, stavolta come slave, appunto. La partenza è brusca e spaventosa: un umano praticamente nudo, ceppi a mani e piedi, senza cibo, costretto a spaccare rocce e a dormire dentro una gabbia per bestie. Al primo tentativo di fuga, nel secondo giorno di prigionia, i miei aguzzini mi riducono in coma. Ed è qui che Kenshi rivela la sua profonda consapevolezza dell’essere schiavo: gli stessi carnefici, una volta eliminata la minaccia del PG, iniziano a fasciarne le ferite. Lo schiavo è una risorsa, è forza lavoro, è un bene scambiabile. Non esiste nulla di romantico, il gioco non sorvola drammaticamente sull’ennesima vita spezzata dai crudeli aguzzini. In Kenshi, da schiavo, non si riesce neanche a morire.
Una volta rotto nel fisico (e nell’animo), il mio personaggio viene lasciato “riposare”, stavolta attaccato ad un palo. Da qui in poi questa diventa la routine del mio PG. Spaccare rocce e farsi spaccare le ossa, nel tentativo di scappare. Un cane che si morde la coda, al quale il gioco non pone alcun tipo di soluzione, se non tentare una fuga disperata. Scappare però non è certo facilitato, non vi sono situazioni scriptate entro le quali rifugiarsi per potersi liberare dalle catene che mi opprimono. Insomma, la giocata è libera ed aperta a molteplici soluzioni, ma come succede in una simulazione efficace, queste soluzioni si scontrano con l’insormontabile difficoltà che deve affrontare uno sventurato mutilato, denutrito e incatenato.
Avvicinandomi alla conclusione, mi rendo perfettamente conto che quanto fin qui esposto consegna un’immagine di Kenshi sì brutale, ma anche completamente asettica. Insomma, quale dovrebbe essere la morale? Quale dovrebbe essere il messaggio in un gioco che sostanzialmente non racconta? Effettivamente, a giudicare dai già citati walkthrough, molti giocatori non sembrerebbero soffermarsi più di tanto sul tema dello schiavismo, preferendo approcciare il titolo nella maniera più efficiente possibile. Eppure sono convinto che il videogioco, da medium complesso e sfaccettato qual è, possa nascondere diversi livelli di lettura e analisi.
Kenshi non fa eccezione: nel suo silenzio racconta molto più di quanto non facciano tante altre produzioni infarcite di luoghi comuni o di stilemi etici e morali. Se si trova il tempo per fermarsi e valutare le proprie azioni, valutare la loro reazione all’interno del microcosmo videoludico in cui le svolgiamo, ci si rende conto che non sono affatto distanti dagli stessi dilemmi che la vita pone lungo il suo cammino. E forse, proprio grazie alla paradossale assenza di comunicazione esplicita, Kenshi narra delle vicende vere e disperate, aiuta a toccare con mano una pagina della storia umana sanguinosa e violenta: quella dello schiavismo e del rapporto dell’Uomo con i suoi simili.