Quando la forma (eccentrica) sublima la sostanza in maniera rozza, ma affascinante
Nel panorama videoludico sono tantissime le opere che hanno lasciato il segno nel cuore degli appassionati, non sempre per una narrativa incredibile o per un gameplay magistrale, molto spesso per quel qualcosa in più che fa la differenza rispetto alle altre produzioni. Non sono infatti pochi i game designer che cercano di proporre la propria visione ludica attraverso espedienti molto peculiari, talvolta eccentrici, riuscendo a veicolare la loro filosofia di videogioco al di sopra di ogni altra cosa. Tra questi possiamo infatti ritrovare Suda51, Tomonobu Itagaki, Hidetaka Suehiro, il team di Platinum Games (tra cui Hideki Kamiya), Yoko Taro, la cara vecchia Rare, Hideo Kojima e tanti altri.
Ciò ha permesso pure a giochi massacrati dalla critica di avere la propria nicchia di appassionati; uno dei casi che più mi sovviene alla mente è Deadly Premonition, realizzato da Hidetaka “Swery” Suehiro, davvero una grande personalità prima di ogni altra cosa.
Ecco, questo è il chiaro esempio di prodotto grezzo, afflitto da svariati problemi, bug, non eccezionale dal punto di vista del gameplay ma che, nonostante tutto, una buona fetta di videogiocatori ha imparato ad amare e apprezzare. Al netto quindi di un’ottimizzazione inefficace, perché l’opera di Swery riesce quasi sempre a conquistare il fruitore pur con le sue innegabili imperfezioni? Probabilmente grazie al connubio eloquente tra risvolti narrativi solidi ed originali, una colonna sonora notevole ed accattivante, un’atmosfera horror dannatamente suggestiva e per quei tocchi di classe e chicche nel game design che risultano appaganti, pur con i chiari difetti di gameplay.
Aggiungete quel po’ di verve à la Twin Peakes, nonché le numerose citazioni a singolari romanzi, serie TV, film e titoli vari e il gioco è fatto. Se volete conoscere meglio il buon Swery, potete trovare qui e qui le nostre interviste. Inoltre, insieme a Suda51 e Keiichiro Toyama, è al lavoro su Hotel Barcelona.
Da Swery a Suda51, tutta questione di autorialità
Come abbiamo potuto appena osservare insieme, nella sua potente imperfezione Deadly Premonition raggiunge il sublime per i suoi grandi valori autoriali più che per quelli ludici; potrà inoltre sembrare un ossimoro, un paradosso di quelli pesanti, ma per certi versi il gioco riesce ad essere maggiormente memorabile proprio perché assai grezzo e impacciato nel gameplay. Chiaro si tratti di un titolo che a molti avrà comunque fatto vomitare (per non usare parole più volgari), ma è innegabile quello che Swery è riuscito a ricreare con la sua creatura; se ancora oggi parliamo di Deadly Premonition un motivo ci sarà. Questo succede soprattutto quando l’autorialità supera la qualità complessiva stessa dell’opera, ma ovviamente non sempre è così; o meglio non sempre i giochi fortemente autoriali ed eccentrici, muniti della famigerata filosofia punk a cui si faceva riferimento nel titolo del pezzo, devono per forza essere rozzi e qualitativamente pieni di alti e bassi per fare la differenza.
A suo tempo quel mattacchione di Yoko Taro aveva dimostrato con Drakengard, prima, e con NieR, poi, di saper conquistare il cuore degli appassionati grazie al suo tocco unico, intriso di parecchi rimandi filosofici e giapponesità in ogni pixel, pur con proposte di gameplay veramente penose. Perché l’autorialità prevale sulla qualità concreta, e quando Square Enix ha deciso di fondere la mente del talentuoso game designer nipponico con quella di uno dei team di sviluppo più brillanti degli ultimi dieci anni, quale Platinum Games, ecco che arriva NieR:Automata, ed ecco come non solo la forma sublima la sostanza, ma anche quest’ultima fa lo stesso al contrario.
Sembra quasi fatto apposta che il comparto tecnico sia piuttosto sottotono in questo titolo; un po’ come se rendendolo grezzo gli permettesse di emergere maggiormente e dislocarsi dall’offerta più mainstream. NieR:Automata è un’opera sopraffina, profonda, sofisticata e caratterizzata da una narrativa deliziosa e incredibilmente filosofica, però non viene meno all’eccentricità del gameplay in quanto vanta sulla collaborazione dei maestri nel settore per ciò che riguarda lʼinsania lasciva. E così il gioco unisce due correnti autoriali opposte, raggiungendo l’arte totale.
Ars lusionis
Se con Swery abbiamo visto l’arte autoriale nella creazione di un contesto originale e accattivante per atmosfere suggestive mentre con Yoko Taro e Platinum Games l’unione di queste caratteristiche con una filosofia di gameplay folle ed egocentrica, di seguito troviamo alcuni sviluppatori che fanno un po’ il contrario. Non posso infatti non citare Tomonobu Itagaki, un game designer che ha senz’altro costruito la sua fama grazie a quel capolavoro immenso che è Ninja Gaiden Black. Se questo è un titolo che sfoggia tutta la potenza della prima Xbox, non si può dire lo stesso della sua ultima fatica minore rilasciata per Wii U alcuni anni fa.
Mi riferisco a Devil’s Third, opera massacrata dalla critica per motivi in parte comprensibili, ma che in realtà restano comunque poco chiari. Intendiamoci, non si tratta certo di un prodotto da premiare con un 8 o 9 in pagella, però è altamente probabile che non sia stato preso per quello che è: un gioco caciarone, ignorante, volutamente scoppiato e fuori dalle righe e di pura natura arcade oriented. Un titolo senza dubbio imperfetto, ma che riesce ad offrire un’esperienza ludica come poche, nonostante le molteplici scelte discutibili e qualche ingenuità.
Non possiamo poi non menzionare quel pazzo di Goichi Suda, in arte Suda51, un game designer che più volte ha dato prova di straordinario talento e follia estrema. Sicuramente molti lo conosceranno grazie a Killer7 e No More Heroes, le sue opere più famose o comunque chiacchierate. Prodotti che mostrano una totale bizzarria nell’offerta proposta, graziati da una filosofia ludica davvero marchio di fabbrica esclusivo del buon Suda. Un autore che riesce ad imprimere in ogni lavoro la sua impronta caratteristica ed è veramente difficile non riconoscere un suo gioco. Se sapete chi è Suda51 e avete giocato alcuni dei suoi titoli, ritroverete il suo carisma in ogni opera su cui mette mano.
D’altronde chi vi ficca delle teste di capra parlanti attaccate a delle porte da sparare per non farsi inghiottire dall’oscurità? Oppure pistole che hanno un’erezione? E questo, cari lettori, era Shadows of the Damned; chi tra voi lo ha giocato lo avrà di sicuro subito riconosciuto. È il suo stile, che non ha perso nemmeno con la realizzazione di Travis Strikes Again, una sorta di produzione indie nella quale il game designer nipponico ha comunque impresso tutta la sua creatività, nonostante gli enormi limiti (essendo un titolo minore e realizzato in low budget). Non da meno sono Killer is Dead e Lollipop Chainsaw, nei quali il tocco di Suda51 è semplicemente inconfondibile (non tutte le ragazze hanno la testa del proprio fidanzato attaccata alla cintura).
Quelli di cui abbiamo parlato sono game designer che hanno una creatività e un modo di sviluppare davvero tutto loro. Sicuramente o li si ama o si odia, ma nel secondo caso è difficile non apprezzare i lavori che realizzano; anche quello più scarso in valori produttivi saprà lasciarvi qualcosa. Poi c’è Jonathan Blow che con Braid, un puzzle platform incredibilmente cervellotico (per molti potrebbe risultare persino frustrante, poiché troppo estremo), riesce a raccontarti una storia profonda, capace di trasmettere tutta la fragilità umana, spingendo quindi il giocatore a superare i suoi limiti nella risoluzione dei rompicapi, accompagnandoci verso uno dei finali più belli che siano mai stati realizzati nella storia dei videogiochi, mettendo pure in dubbio la nostra mania di completismo e perfezionismo nell’ossessiva ricerca delle otto stelle per il finale alternativo.
Sono tanti i giochi che hanno dimostrato come un particolare espediente ludico o narrativo (intriso di atmosfera e/o filosofia) possa fare la differenza e sublimare tutti gli altri aspetti, anche se sottotono. Shinji Mikami con God Hand propose un beat’em up 3D di quelli che non usciranno mai più nella vita. Aveva pretesti narrativi banali e in generale poteva sembrare non all’altezza di produzioni maggiori; eppure sapeva essere anche meglio rispetto a molte di queste. La critica fu tiepida nei confronti del titolo in questione, in quanto è probabile che la maggioranza dei recensori lo analizzò secondo quelli che sono gli stilemi tipici del videogioco.
Certe produzioni, però, li rinnegano totalmente (o forse no, se andiamo a vedere un po’ le origini di tutto), di conseguenza spaccano in maniera totale pubblico e critica, creando una condizione di amore od odio che influisce purtroppo anche nel puro giudizio analitico. Ricordo ancora quando Conker: Live & Reloaded di Rare, il remake di uno dei titoli più folli e brillanti della quinta generazione, ebbe un misero 4 nella recensione di Eurogamer.net. Questo perché il redattore volle massacrarlo dall’alto della sua saccenza, snobbando e ritenendo ridicole le scelte di game design che – secondo lui – potevano risultare divertenti forse per un bambino.
Conker’s Bad Fur Day è sicuramente un prodotto eccezionale sotto tutti i punti di vista, non di certo grezzo. Dargli 4 è un po’ come prendere il mitico Viewtiful Joe di Hideki Kamiya e smontarlo perché il pretesto narrativo e il contesto da Tokusatsu (特撮 indica letteralmente ‘effetti speciali’) sono troppo fuori di testa e trash, non adatti ad un pubblico maturo. Se quindi le produzioni altalenanti, ma al contempo cariche di autorialità, vengono talvolta massacrate dalla critica comunque per reali difetti tecnici e non solo, nel caso di un prodotto di alta qualità come Conker bisogna poi ricorrere all’escamotage da altolocato che snobba a priori tutto ciò che non ha profondità, etichettando il genio e la follia non come qualcosa di bizzarro, spassoso e originale, bensì come semplice banalità.
Le opere videoludiche che racchiudono la cosiddetta filosofia punk si scontreranno purtroppo spesso con i pregiudizi del caso o con analisi fin troppo critiche atte a non dar valore all’originalità della produzione, quanto piuttosto ai numerosi difetti del caso. Perché è più facile bocciare spalando merda sui problemi di telecamera, la grafica di basso livello e il gameplay poco curato piuttosto che avere la cultura necessaria a comprendere la profondità e la brillantezza di produzioni sì rozze, ma pur sempre fortemente autoriali, capaci di lasciare qualcosa che talvolta può andar ben oltre la semplice concezione di videogioco.