La nostalgia è un veleno
21 anni dopo, rieccoci qui, a parlare di nuovo di Trainspotting.
Danny Boyle rimette mano alla telecamera, John Hodge alla sceneggiatura, ed insieme si confrontano con Irvine Welsh, il quale dà il proprio assenso affinché T2: Trainspotting sia un adattamento cinematografico nel vero senso della parola, poiché Porno, romanzo sequel dell’opera sovracitata e dalla quale è stato tratto il film cult degli anni ’90, subisce uno stravolgimento.
Ma tale stravolgimento è un bene o un male?
Ritorno ad Edimburgo
Col famoso bottino rubato agli amici di un tempo, Mark Renton vive ad Amsterdam la sua nuova realtà medio borghese, ed il film inizia nel momento in cui per una serie di circostanze si trova a rimetter piede nella sua Edimburgo.
Qui ritrova Spud, sopravvissuto miracolosamente alla “vita”, ma ancora vittima dell’eroina. E Simon, ovvero “Sick Boy”, che campa di espedienti, ricatti ed estorsioni anche grazie alla sua compagna Veronika (Anjela Nedyalkova). Poi c’è Begbie, che è in prigione da vent’anni ma sta progettando l’evasione.
Il ritorno del figliol prodigo Renton scatena una serie di eventi che riporta i diretti interessati indietro nel tempo, ed anche noi.
T2 è esattamente questo: un ritorno al passato. La nostalgia è il perfetto sottotitolo di questa nuova opera targata Boyle, ed in fondo c’era da aspettarselo da un regista scaltro come lui.
Il passato è un’eco malinconico che si riaffaccia con prepotenza nelle vite dei nostri, ma ad esso viene consegnato anche il compito di stordire lo spettatore. I flashback, brevissimi ma costanti, ci sollevano dalla poltrona trascinando la nostra mente a ciò che fu, e la colonna sonora si insinua in maniera subdola, grazie a poche note ripetute con perseveranza dalle prime battute, in un crescendo infido e impercettibile di cui si prende atto all’improvviso, quando Born Slippy deflagra ed esplode sotto i nostri occhi e le nostre orecchie al momento giusto; perché di questo, sì, Boyle è maestro indiscusso. Ed anche se te ne rendi conto, non puoi fare a meno di eccitarti. Per qualche istante a Boyle gli perdoniamo tutto, siamo come Mark Renton che rientra nella sua cameretta, e mette il vinile sul giradischi entrando in un loop che, per un po’, fa stare bene.
Ma non è la realtà, sono di nuovi i ricordi. E i ricordi sono opachi, come le tinte del primo, vero, Trainspotting, mentre qui lasciano il posto a colori troppo accesi, che bisogna saper guardare e lo si può fare soltanto se si accetta il passato per ciò che è. Passato, appunto.
Sembrano averlo fatto gli attori, che dallo scatolone dei ricordi ripescano solo la grande capacità di far bene il proprio lavoro, ed è grazie a loro che T2 sa emozionare, almeno un po’.
Ewan McGregor ha seguito un percorso non troppo dissimile da quello del suo alter ego, e tra tutti è colui che ha fatto più strada. Qui invece questa distinzione non la percepiamo, perché Johnny Lee Miller (Sick Boy) spacca ancora lo schermo, Robert Carlile (Begbie) è la spinta adrenalinica del film, e Ewen Bremner (Spud) è la fedele riproposizione del sé stesso vent’anni dopo.
Eppure – nonostante questo – T2 non ce la fa proprio a scegliere la vita, e rimane coinvolto nel suo stesso gioco, accecato dalla sua ombra in un tremendo paradosso, dipendente dalla sua nostalgia di cui le due ore di film costituiscono l’overdose.
Il tempo che passa è la base dichiarata dell’opera, ma come al solito Boyle scambia l’impronta personale di cui un prodotto (soprattutto uno che si chiama Trainspotting 2) deve avere con l’occasione per specchiarsi e dirsi “quanto sono bello”. Lo avevamo già visto con Steve Jobs, un film assai diverso ma altrettanto narcisista, schiavo di quell’idea di saper riuscire a realizzare l’opera perfetta perdendosi però nella contemplazione del proprio riflesso. Stavolta si guarda e vede il sé stesso di vent’anni prima, un Danny Boyle nel fiore degli anni ed un Regista con la R maiuscola.
Lo è ancora? Ne siamo certi; speriamo che trovi la forza di distogliere lo sguardo e ricominciare a posizionarlo dietro l’obiettivo.
Conclusioni:
Torniamo ad Edimburgo insieme a Mark Renton, ma è un viaggio nei ricordi che diventa ben presto vittima del suo stesso gioco.
Danny Boyle ammanta di nostalgia l’intera opera, e T2 ci sembra un’eco a colori di un ricordo sbiadito, un loop di nostalgia tradotto in flashback e racconti provenienti dal passato. Trascritti su carta da Spud, braccio armato dello sceneggiatore Hodge, e rivisitati da Boyle, che come al solito si specchia, guardandosi e pavoneggiandosi, senza osservarsi veramente. Il regista finisce inghiottito nel suo stesso vortice: ci racconta che il tempo passa per tutti, ma sembra il primo a non accorgersene. Peccato, perché siamo certi che distogliendo lo sguardo dallo specchio per riposizionarlo dietro l’obiettivo riacquisirebbe lo smalto di una volta.
T2 prova a campare di rendita e nostalgia, ma questa pesca nello scatolone dei ricordi non fa altro che evidenziare le differenze tra il passato ed il presente. E senza un cambiamento il passato vince sempre.