Supercazzole, zingarate, gag fantastiche e una terminologia iconica. Amici miei è un cult che dovrebbero scoprire anche le nuove generazioni
arapia tapioco, prematurata la supercazzola come se fosse antani.
La leggendaria supercazzola del Conte Mascetti e gli altri ha contribuito a rendere il cult di Mario Monicelli e Pietro Germi, Amici miei, un’opera immortale.
A quasi 50 anni dall’atto I, la trilogia di Monicelli completata da Nanni Loy preserva un fascino intramontabile che tuttavia ha perso la sua capacità multigenerazionale fino a qualche tempo fa preservata, di cui ormai millennial e post millennial sono quasi all’oscuro.
Riscoprire il fascino di questo cult imperituro tuttavia è sempre un piacere, così come lo è riassaporare con un gusto una visione dei suoi tre atti a distanza di così tanto tempo dal primo, riflettendo sull’acume e la genialità delle trovate di Monicelli & co.
Se dovessimo mettere in fila i meriti del successo di Amici miei ci troveremmo in grande difficoltà, ma di certo nel calderone non potrebbe mancare la fantasia dello script a cui hanno contribuito Pietro Germi, Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi e Tullio Pinelli, ma dovremmo citare poi la completezza e l’alchimia di un cast sfavillante, dal Perozzi di Philippe Noiret, voce narrante dell’opera del ’75, al leggendario Conte Mascetti di Ugo Tognazzi, al barista Necchi (prima Duilio Del Prete poi sostituito da Renzo Montagnani), passando per l’illuminato dottor Sassaroli interpretato da Adolfo Celi, fino al fragile Rambaldo Melandri di Gastone Moschin e ai molti, fondamentali comprimari. E poi ci sono luoghi simbolo della narrazione, a partire dal Bar di Necchi o la clinica del Sassaroli, fino alla casa del Mascetti e il suo famoso “studiolo”.
Il tutto in una Firenze rionale sfondo perfetto della narrazione del Monicelli, fortemente voluto dal regista nonostante Germi avesse inizialmente pensato la storia nella città di Bologna.
Ma ogni rione di quella Firenze post sessantottina aveva dei luoghi di aggregazione capaci di unire persone di qualsiasi classe sociale, come per i personaggi del film. Dal bar alla parrocchia, dal cinema alla trattoria, quei posti erano depositari di una lingua vernacolare fatta di battute e tanta irriverenza, tramandata di generazione in generazione, almeno fino a un po’ di tempo fa.
Monicelli, sebbene fosse romano di nascita, si sentiva toscano dentro e anche gli altri autori lo erano, e poi quel linguaggio e quel tipo di comicità “avevano il gusto della novella toscana del Rinascimento”, sosteneva Monicelli. Infatti, nel clima fiorentino, questi personaggi agiscono con naturalezza, dando vita alla comica disperazione di un gruppo di amici che non vogliono accettare l’avanzare dell’età e il sopraggiungere della vecchiaia.
In un certo senso è per questo che Pietro Germi aveva pensato e scritto il film, quasi a voler esorcizzare la morte, “a farle uno sberleffo” – per usare ancora le parole del Monicelli – e in questo è facile notare un’attinenza col Perozzi, che pure in punto di morte pensa a fare la supercazzola al prete e si rivolge agli amici con un “ora levatevi dai coglioni, che devo morire”.
Non tutti sanno infatti che all’inizio Amici miei l’avrebbe dovuto dirigere proprio Germi, ma per via dell’aggravarsi di un brutto male di cui soffriva lo cedette di fatto all’amico Monicelli, anche se nei titoli di testa è riportato significativamente “un film di Pietro Germi” e «regia di Mario Monicelli”, ad omaggiare così l’autore che purtroppo non riuscì nemmeno a partecipare alle riprese, lasciandoci prematuramente nel dicembre 1974.
Ci sarebbe tanto di cui parlare, dicevamo, riscoprendo e riassaporando dopo così tanto tempo Amici miei, ma tra gli aspetti principali non si può fare a meno che riflettere proprio su quella figura di Giorgio Perozzi citata poc’anzi, il caporedattore amante della vita e delle avventure extraconiugali.
“L’idea di andarmi a chiudere tra quelle quattro mura dopo una notte passata al giornale, non mi attira per nulla”. È questo uno dei primi perentori commenti del Perozzi, che delineano da subito uno dei personaggi chiave del racconto, non per niente voce narrante di Amici miei.
Quello che non trova nelle mura casalinghe, il giornalista lo cerca in qualche amante e soprattutto negli amici, nel bar, nel biliardo: questa è la sua comfort zone.
“Ecco, gli amici, quelli sì che ho voglia di vederli e star con loro”. Ognuno di loro è diverso dall’altro, ha le sue abitudini e – come detto poco fa – differenze sociali o una diversa condizione economica, ma tutti vorrebbero mettere indietro le lancette dell’orologio della vita, o quantomeno fermarle.
Per farlo danno vita alle famoso “zingarate”, partenze di gruppo senza meta ma con uno scopo: divertirsi in modo spensierato, alzando sempre più l’asticella. Se chiedevi a Gastone Moschin cosa fosse la zingarata, lui ti rispondeva “era un’auto, e noi sopra. Monicelli accendeva la musica e dava il ciak”.
Tanta improvvisazione, che generava però gag e scene rimaste negli annali della commedia italiana e che riportare tutte in un articolo è di fatto impossibile.
Un umorismo nero senza freni, che non risparmiava nessuno, neanche loro stessi a volte vittima della crudeltà degli altri membri del gruppo, con alcuni perseguitati più di altri, come appunto il Melandri di Moschin. La scena del battesimo, per dirne una, strappa risate a non finire.
E poi chiaramente vittime esterne, sconosciuti, come un marito che piange sulla tomba della moglie, ma nemmeno di fronte alla disperazione gli amici si fermano. Perché quando fa il suo ingresso il genio, non si può arrestare la fantasia e la velocità di esecuzione è tutto.
Quando finisce la zingarata però c’è il ritorno a casa, contraddistinto da un’amarezza di fondo un po’ per tutti, ma non tanto per il ricongiungersi con la moglie e la famiglia, quanto per la presa di coscienza di ritorno alla realtà, alla vita di tutti giorni e le mille difficoltà di cui ognuno si deve far carico, dal lavoro alle tante responsabilità. Almeno fino alla prossima zingarata.
Questo è probabilmente il significato più importante di Amici miei, un’opera che si presta a mille interpretazioni e in cui vivono decine e decine di sottotematiche più o meno analizzate, dalla misoginia, alla politica, alle differenze sociali, all’amore, e tanto altro, ma – come il titolo piuttosto esplicitamente sottolinea – pone nell’amicizia le sue basi. Perché in alcune situazioni, per citare ancora il Perozzi edulcorandolo un po’, serve qualcuno con cui ridere e parlare. Ma non una donna… Un amico.