In Giappone il tè ha condizionato profondamente tradizioni e cultura
ggi viene servito a tavola come fosse acqua e se ne trova di tanti gusti diversi nei distributori automatici, ma il tè in Giappone ha svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo culturale del Paese, soprattutto per quanto riguarda la famosa cerimonia del tè. Tale coinvolgimento nelle tradizioni giapponesi lo ha reso però molto più di una semplice bevanda, assumendo fin dall’inizio un certo valore sotto vari aspetti.
Nell’VIII secolo, la pianta del tè arrivo dalla Cina con la quale il Giappone stava intrattenendo rapporti che vennero gradualmente interrotti a partire dall’XI secolo. Durante questi anni, la Cina influenzò notevolmente il Giappone, sia dal punto di vista politico che da quello puramente sociale e culturale, a cominciare dagli aspetti quotidiani come l’abbigliamento e l’uso di alcuni prodotti.
Dapprima, infatti, il tè venne perlopiù utilizzato nel campo della medicina e solamente nel periodo Kamakura (1185-1333) il monaco Eisai introdusse il tè nella sua varietà matcha come bevanda d’accompagnamento alla pratica del Buddhismo Zen. Questa nuova corrente si affermò poi con l’elaborazione di una cerimonia da parte di due monaci del XIII secolo, Ikkyu Sojun e Murata Shuko: questi riconferirono sobrietà alla bevanda, fino a quel momento usata per i divertimenti mondani degli aristocratici desiderosi di ostentare le loro ricchezze. Tra gli altri, lo shogun Yoshimasa Ashikaga fu uno dei maggiori promotori della cerimonia del tè, invitando Murata presso la sua villa-tempio ora conosciuta come Ginkakuji, situato a Kyoto.
Ora considerato utile per le sue proprietà benefiche per la concentrazione e i riflessi, in Giappone il tè divenne parte, tra le altre cose, del Bushido, la Via del Guerriero: i samurai, dunque, assunsero i principi di Murata come fondamentali per entrare in contatto con lo spirito, la natura e perciò procedere sulla via dell’illuminazione, oltre al rispettare il codice d’onore che erano tenuti a seguire.
La cerimonia del tè
Cha no Yu, letteralmente “acqua calda per il tè”, è il nome della cerimonia di cui poi divenne il maggior rappresentante Sen no Rikyu. Una figura importantissima per esser stato anche maestro del tè di grandi condottieri del Giappone come Nobunaga Oda e Toyotomi Hideyoshi, quest’ultimo amante di uno sfarzo rifuggito da Sen no Rikyu, che raccolse l’essenza del suo pensiero riguardo il tè nel concetto del wabi-cha.
Il wabi fa parte anche del concetto di wabi-sabi, che sottolinea l’ideale di bellezza semplice, quasi solitaria e più vicina semmai alla natura, creando un’impressione di “povertà ricercata”. D’altronde, proprio la natura si inserisce perfettamente come parte integrante della cerimonia del tè: a cominciare dai kakemono, i rotoli verticali esposti nei tokonoma, nicchie rialzate presenti nelle stanze tradizionali giapponesi. Qui vi vengono anche posizionate composizioni floreali adatte alla stagione secondo l’arte ikebana, oppure bonsai, entrambi esempi di semplicità coerenti coi principi di Sen no Rikyu.
La creatività artistica presente nelle chashitsu (stanze da tè) era improntata sul “vuoto”, l’assenza di attaccamenti a oggetti o esperienze di vita mondana, lasciati quindi fuori da questa stanza dove ci si può centrare e raccogliere la consapevolezza di tale allontanamento dai beni terreni. Tutti coloro che vi entrano sono uguali e obbligati a seguire tali regole volte allo “svuotamento” della mente, ottenibile seguendo con grande attenzione e cura la cerimonia e le sue basi. Sen no Rikyu, infatti, individuò anche quattro principi cardine, ovvero armonia, purezza, tranquillità e rispetto, nei quali si rispecchiano le azioni compiute durante la cerimonia, gli oggetti utilizzati (realizzati in legno o ceramica e decorati sempre secondo la stessa estetica) e anche le formule utilizzate dagli ospiti, per una perfetta unione di virtù volte all’illuminazione.
Sapori tradizionali nella moderna quotidianità
Quindi il tè è stato una delle fonti principali di tutta l’arte che circonda in particolare il Buddhismo Zen e soprattutto il matcha ha guadagnato popolarità anche al di fuori del Giappone poiché, a differenza degli altri consumati in foglia, viene servito sciogliendo la sua polvere verde brillante nell’acqua. Grazie a questa caratteristica, in realtà, esso si rende particolarmente versatile e a qualsiasi cosa venga abbinato il tè matcha donerà un sapore leggermente amaro che si sposerà benissimo specialmente con i dolci.
In effetti, l’evoluzione naturale del suo utilizzo non poteva che essere la sua presenza anche nell’arte culinaria, in particolare come ingrediente principale per dolci di pasticceria e snack industriali. Dai wagashi tipici delle cerimonie del tè, spesso contenenti fagioli rossi azuki che si sposano bene col sapore amaro del tè, in perfetta armonia con tutti i principi di cui abbiamo parlato, si è passati a dolcetti di vario tipo proprio al gusto di tè verde, caratterizzandoli con lo stesso colore acceso che li rende particolarmente attraenti soprattutto all’occhio occidentale.
In Giappone dunque possiamo trovare il tè incorporato in tantissimi snack come i classici Pocky (che non sono altro che i nostri Mikado, prodotti sempre dall’azienda Glico), gli Oreo, i Kit Kat (Kitto-Katto, in giapponese!) ma anche in dessert serviti in bar e café un po’ fancy, ad esempio soft ice cream, pancake, mousse o rivisitazioni di dolci classici come taiyaki strabordanti di crema al tè matcha… Insomma, qualsiasi forma che possa continuare a mantenere vivo l’amore per il tè, come al solito facendo in modo che l’elemento centrale sia in bilico, come molte altre cose in Giappone, tra modernità e tradizione.