Il sakoku come serra: lo sviluppo del teatro giapponese
Quando si pensa a uno degli aspetti più tradizionali e caratteristici del Giappone, la mente non può non volare anche al suo teatro. Nonostante si sia sviluppato più tardi rispetto alle sue controparti di altri paesi, ha un’identità tutta sua che affonda le proprie radici nella cultura sciamanica e ritualistica dell’estremo Oriente, prendendo in prestito anche elementi religiosi da buddhismo e shintoismo. Forse anche grazie al sakoku, la politica di isolazionismo implementata in epoca Edo da Tokugawa Iemitsu, il teatro giapponese si sviluppò per la maggior parte in maniera pura o, tutt’al più, assimilò alcune influenze dal continente – principalmente Cina e Corea. Si diramò in vari generi, ognuno sviscerato al massimo delle sue potenzialità e pensato per pubblico e temi differenti: Nō, Kyōgen, Bunraku e infine il Kabuki, forse quello più iconico e conosciuto anche all’estero.
In particolare, il kabuki è contraddistinto da attori che si specializzano in una determinata tipologia di ruolo, parrucche voluminose, trucco esagerato per far risaltare gli occhi e la linea della bocca, pose eleganti e/o esagerate, segmenti di danza e scontri ad armi bianche coreografate. Riferimenti a questa forma d’arte si possono trovare dappertutto, anche nei prodotti di intrattenimenti popolare come anime e manga. È un elemento di tradizione da cui i giapponesi traggono estremo orgoglio e la fascinazione per questa forma d’arte attraversa anche confini oltremare.
Il percorso di iniziazione del kabuki
In questi giorni, ho avuto il piacere di guardare il nuovo documentario di Netflix a tema kabuki, ovvero Touma Ikuta – La sfida del Kabuki che mi ha dato alcuni spunti di riflessione interessanti. Seguiamo infatti Touma, protagonista del documentario, nel suo percorso per la preparazione della prima esibizione di kabuki della sua vita. Essendo la prima volta che si approccia al genere del teatro kabuki, Touma dovrà non solo imparare tutto da zero, ma anche dimostrare che un passato da idol non lo rende meno capace di adempiere al ruolo assegnatogli. Nonostante abbia studiato cultura giapponese all’università, il teatro è qualcosa su cui non sono troppo ferrata, visto anche il corso apposito che io, però, non ho intrapreso. Tuttavia, non appena Touma ha iniziato a parlare delle sue difficoltà da “outsider”, da esterno rispetto al kabuki sia in termini di cultura che di educazione, sono stata folgorata.
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Come moltissimi aspetti di una cultura tradizionale, specialmente quelle giapponesi, per poter approcciarsi bisogna come prima cosa intraprendere un percorso iniziatico. Dopo un lunghissimo periodo in cui il discepolo imparerà regole e riti dal maestro, si farà strada su una tortuosa scala gerarchica e, solo dopo essere stato riconosciuto come “degno” potrà affermare di aver compreso la via. Vi ricorda qualcosa? Arti marziali, religione, filosofia, danza, musica e molto altro sono sempre stati vivisezionati, ridotti fino agli elementi più minuscoli e categorizzati, tramandati tramite tradizione generalmente orale.
Il teatro giapponese e, in particolare, il kabuki, non è diverso. Ancora di più dal momento che si tratta di uno degli aspetti culturali giapponesi più caratteristici e conosciuti: è una forma d’arte che attinge appieno dalla cultura ancestrale giapponese, figuriamoci se non bisogna padroneggiare alla perfezione anche il minimo sguardo o posa per potersi esibire! Un’ovvietà, certo; ma è stato comunque interessante riuscire a collegare i puntini.
Come se fosse un’eredità dinastica, nel corso dei secoli la tradizione è permeata persino nel tessuto di alcune famiglie, che sono diventate capisaldi delle rappresentazioni teatrali kabuki. Generazione dopo generazione, il percorso iniziatico del kabuki si è ristretto sempre più alla sfera familiare, finendo per venire tramandato da genitori a figli al punto che già alla nascita i pargoletti vengono battezzati con tradizionali nomi “per attori” di kabuki – che generalmente terminano con suffissi come jiro, goro o suke per mantenere la tradizione dei nomi composti da tre kanji.
Tutto questo ha conferito al kabuki un’aria ancora più elitaria di quanto già non fosse, rendendo difficoltoso – e malvisto – per una persona esterna alla cerchia entrarvi. Nel caso del povero Touma il caso è ancora più spinoso, poiché l’idol è visto come una forma d’intrattenimento estremamente bassa e non paragonabile a qualcosa di raffinato come il kabuki. Ma è sempre stato così?
Teatro kabuki, ruoli di genere e prostituzione: reggetevi forte alle vostre collane di perle!
Nonostante al giorno d’oggi il kabuki sia venerato come una delle eredità culturali più preziose del Sol Levante, ha delle origini estremamente umili, nonché eccezioni volgari che farebbero venire i capelli bianchi ai puristi odierni. Il kabuki, infatti, non solo nacque e si sviluppò nei quartieri di piacere e in particolare nei bordelli in periodo Edo, ma fu creato da una donna, Izumo no Okuni, una ballerina itinerante che ebbe l’idea di attingere a danze tradizionali già conosciute dai suoi clienti e declinarle con gestualità erotiche. Le sue emulatrici furono altre lavoratrici dei bordelli che, grazie alla popolarità di questo nuovo genere, fecero faville tra il pubblico.
Tuttavia, lo stato vedeva il kabuki e le sue attrici come qualcosa di scandaloso, proibendo alle attrici di partecipare agli spettacoli e accusandole di essere prostitute. Sì, era palese che lo fossero – d’altronde lavoravano in un bordello, nei quartieri di piacere! – ma il Giappone a quanto pare ha fin dall’alba dei tempi la tendenza a nascondere la polvere sotto al tappeto.
Come anche le soapland odierne, anche in passato le attività del quartiere a luci rosse venivano “nascoste” da una maschera: le case da tè izakaya. Il governo era perfettamente a conoscenza di cosa accadesse realmente lì dentro, ma finché non avesse intaccato la propria virtuosa e onorevole facciata e fosse plausibilmente negabile, qualsiasi cosa era permessa.
Cosa successe, quindi, al teatro kabuki? Beh, vista l’assenza delle colleghe, qualcun altro si fece avanti per ricoprire i ruoli femminili lasciati scoperti: i kagema, prostituti. Questo termine diventerà nel tempo un sinonimo per un apprendista maschile di kabuki – e vi lascio immaginare il motivo. La maggior parte di essi erano giovanissimi, dai tratti ancora androgini, biologicamente uomini ma socialmente quasi un terzo genere: i wakashu.
Se già normalmente venivano considerati a volte addirittura più desiderabili delle donne, il ricoprire ruoli femminili – onnagata – e il poter pagare per “richiedere i servigi privati” di un attore di kabuki li fece letteralmente esplodere in popolarità. Lo shogunato dovette intervenire nuovamente, definendo quel nuovo genere di teatro erotico un preludio alla prostituzione e obbligando gli stabilimenti ad implementare uno sviluppo narrativo verosimile nelle loro rappresentazioni. Una modifica un pochino ipocrita da parte del governo, visto che questo tipo di spettacoli non erano adorati solo dall’emergente classe borghese, ma anche dagli onorevolissimi samurai e persino da monaci buddhisti – abituali frequentatori dei bordelli maschili.
Il teatro giapponese oggi: dalla celebrazione della tradizione a opere meno impegnate
Nonostante le origini volgari, le connotazioni sessuali e gli sbiaditi ruoli di genere, quindi, il kabuki è stato sottoposto ad uno sviluppo che, sebbene forzato, l’ha portato ad essere la forma d’arte che conosciamo oggi. Alcuni aspetti sono stati rimossi, come il fatto che gli attori fossero sex workers, nonché la loro prostituzione al termine degli spettacoli. Altri, gli onnagata, sono stati mantenuti. Il target borghese, invece, è stato modificato, elevando il prestigio di questo genere teatrale nel corso dei decenni.
Tuttavia, il teatro giapponese non è rimasto ancorato solo alla tradizione: a fianco di generi ancestrali come kabuki, no, bunraku e simili se ne sono sviluppati altri. Grazie all’apertura del Giappone al mondo, al giorno d’oggi abbiamo le declinazioni giapponesi di generi teatrali occidentali come lirica o le commedie. Curioso, poi, notare come anche nel teatro occidentale ci sia stato un periodo in cui gli erano gli uomini a ricoprire ruoli femminili: era così nell’antica Grecia, così come nel teatro rinascimentale – sempre per il solito motivo, ovvero che alle donne fosse proibito esibirsi su un palco. Nel caso del kabuki è ancora più assurdo, visto che è stata proprio una donna a creare il genere. Purtroppo, non è un unicum nella storia.
Ma esistono anche alcune nicchie nate proprio nella terra del Sol Levante e legate intrinsecamente alla cultura dell’intrattenimento popolare: gli stage play. Essi altro non sono che delle esibizioni teatrali basate su anime, manga e videogiochi con attori in cosplay a interpretare i nostri personaggi preferiti. Vengono anche chiamati “teatro in 2.5D” per il loro essere basati su prodotti in 2D ma con attori in carne e ossa e fanno uso massiccio di elementi di musical. Vengono adattati i prodotti più disparati di ogni genere e target – quello di Haikyuu!!, per esempio, è stato particolarmente di successo, guadagnandosi oltre 320.000 spettatori.
Anche gli stage play, come i generi teatrali più tradizionali del kabuki e del bunraku, sono nativi del Giappone. Il loro è un target prettamente più “popolano” e, al contrario del kabuki moderno, proprio per questo motivo è aperto a tutti. Nonostante ci sia, ovviamente, bisogno di esercitarsi per mettere in scena uno spettacolo ben preparato, non ci sono elitarismi di sorta: è un genere a cui chiunque si può approcciare.
È anche più digeribile e apprezzabile da un pubblico giovane e/o straniero, essendo anche più simile all’interpretazione attoriale delle serie tv più “all’occidentale”. A onor del vero, però, anche nell’ambito del teatro tradizionale le nuove generazioni stanno lentamente scardinando ordine costituito e preconcetti – come fa anche Toouma nel documentario: un passo alla volta, o meglio… un roppo alla volta!