Cosa resta, quando una persona non esiste più?
Fotografie, ricordi, storie; nella nostra società, quando i fiori appassiscono e le lacrime si asciugano, resta l’aridità delle pratiche giuridiche, resta il testamento del caro estinto.
I testamenti altro non sono che messaggi dall’aldilà, ultime indicazioni con cui la persona scomparsa suddivide i suoi beni terreni, frammenta la sua eredità, come la concubina del Levita smembrata in dodici pezzi, tra coloro che sono rimasti. Ma testamenti è anche una parola religiosa, che evoca l’antico e il nuovo, il patto di Dio col suo popolo, un’eredità di parole su cui costruire comunità, nazioni, veri e propri imperi.
Non un impero, ma una teocrazia puritana è quella di Gilead, immaginata trentacinque anni fa dalla scrittrice canadese Margaret Atwood, che torna adesso a questo suo totalitarismo nel cuore degli Stati Uniti d’America, in cui la Costituzione viene cancellata con un colpo di spugna e di stato, e le donne perdono all’istante ogni diritto, compresi quelli sul proprio corpo.
Ne Il racconto dell’ancella, long-seller tornato alle luci della ribalta grazie alla serie tv Hulu con protagonista Elizabeth Moss, veniamo a conoscenza del rigido sistema di classi che regola la vita femminile nei nuovi States: Mogli, Zie, Marte, Ancelle, tutte votate al benessere dei Comandanti, uomini silenziosi, pericolosi, che sembrano non esprimere mai nessun tipo di sentimento o emozione. Una distopia vera e propria, una previsione catastrofista, ridicola, come se un giorno il governo decidesse di far combattere tra loro degli adolescenti, giusto?
Non proprio: ne I testamenti, come già era successo per Il racconto dell’ancella, l’autrice mantiene la sua attitudine al realismo: bambini strappati dalle braccia dei genitori, pericolosi ed estenuanti viaggi fuori dalla propria terra, centri di detenzione in cui mancano le più basilari norme di igiene e rispetto. Del resto la Atwood non ha mai fatto mistero di descrivere solo situazioni realmente avvenute, somewhere, sometime nella storia dell’umanità. “Non voglio che le persone dicano, come è già successo: come ti è venuta in mente una cosa così malata?” ha affermato per l’ennesima volta a Lucy Feldman, che l’ha intervistata per Time proprio in occasione dell’uscita de I testamenti.
“C’era ben poco che fosse veramente originale o esclusivo a Gilead: la sua caratteristica fu la sintesi” sono le parole con cui il Professor James Darcy Pieixoto descrive la teocrazia (e la Atwood metacommenta la sua tecnica narrativa) durante il Dodicesimo Simposio di Studi Gileadiani. Per la Atwood, nelle distopie nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto è, allo stesso tempo, memoria del passato e premonizione del futuro.
Negli ultimi anni, infatti, la distopia misogina di Gilead è diventata un vero e proprio slogan: cartelli con scritto NOLITE TE BASTARDES CARBORUNDORUM e MAKE MARGARET ATWOOD FICTION AGAIN sono stati avvistati alla Women’s March del 2017, mentre donne in tenuta da ancella hanno manifestato in vari punti del globo contro leggi pro-life. Del resto, come afferma Zia Lydia nel suo testamento, “non ti convinci che il cielo sta crollando, finché non te ne cade un pezzo addosso”.
Proprio Zia Lydia è una delle tre protagoniste de I testamenti: la madre fondatrice di Gilead si racconta, dialoga col lettore, smaschera le debolezze di un regime che, come ogni regime della storia, è destinato a cadere sotto il peso delle sue colpe. Gilead non durerà, e questo già lo sapevamo dall’epilogo della storia di Offred, resta solo da scoprire come, in questo nuovo viaggio in cui ci accompagnano, oltre a Zia Lydia, due giovani dalla storia opposta e complementare, un po’ Cenerentola e un po’ Raperonzolo: se ne Il racconto dell’ancella il peso della narrazione era interamente sulle spalle di una donna, portavoce del prima e del dopo, in questo caso Agnes e Daisy rappresentano le due facce di una stessa medaglia, due impianti di pensiero completamente diversi, che si scontreranno con ciò che si trova appena fuori dal cortile di casa loro.
Margaret Atwood, che forse non sarebbe tornata a scrivere di Mogli e Comandanti senza il grande successo della serie tv, abbandona del tutto il mondo delle ancelle, svelandoci il dietro le quinte del world-building di Gilead, allargando il campo di azione delle sue protagoniste, allontanandosi dal monologo intimo e intimista di Offred per dare spazio a una scrittura che si avvicina alle dinamiche e alle esigenze di una serie tv. I testamenti è un romanzo figlio dei suoi tempi, che si scosta dal suo predecessore e non può contare sull’impatto emotivo che la totale immersione nella vita di un’ancella regala al lettore de Il racconto.
Le tre donne de I testamenti lottano per trovare il loro posto nel mondo, per correggere le storture, usando ogni arma a loro disposizione, pronte a tutto pur di permettere ad altre donne di uscire dal gioco dei Comandanti, degli Occhi, degli Angeli. Ci riusciranno, l’esistenza stessa dei loro testamenti è prova della fine del regime, del ritorno alla normalità.
Ma che cos’è la normalità? La normalità sono le battute a sfondo sessuale del già citato Professor James Darcy Pieixoto, che torna alla fine de I testamenti, relatore del Tredicesimo Simposio di Studi Gileadiani, con un atteggiamento sbruffone e rivela, con quel tipo di ironia velatamente aggressiva tipica di chi non ama che altri oltre a lui abbiano gli stessi diritti, che la normalità del 2197 è quella che viviamo oggi.
“Ora che i posti di potere vengono usurpati in misura così inquietante dalle donne”, è il suo commento alla promozione della sua collega a Rettore. Una conclusione amara, quella scelta dalla Atwood, una conclusione, in linea con la sua idea, realista.
Un futuro che non ha fatto tesoro del passato, ma che si limita a ricordarlo con congressi e rievocazioni in costume, senza affrontarne i difetti lasciati in eredità dalla società, un testamento di disparità nascosto sotto un velo di magnanima tolleranza nei confronti del sesso debole. Perché l realtà è che puoi anche uscire da Gilead, ma Gilead non uscirà mai da te.