Con The Devil in Me si chiude la prima season di The Dark Pictures Anthology: tiriamo le somme di questa prima stagione
l lavoro di Supermassive Games si inserisce da sempre nella tanto chiacchierata ricerca di un punto di raccordo tra videogiochi e cinema (o serie tv). Perché sia tanto caro al pubblico e a una parte della critica questo avvicinamento non è chiaro, come se il videogioco avesse bisogno del cinema per nobilitarsi. La produzione si Supermassive Games però non vuole rendere il videogioco più cinematografico à la Sony, quanto semplicemente raccontare storie che guardano a un certo tipo di cinema (horror) lasciando al giocatore limitate interazioni utili a direzionare la storia.
Niente che non si sia già visto, per carità, ma trovo che ci sia un’onestà di fondo nel lavoro di Supermassive Games che manca nel suo principale competitor, Quantic Dream. Se lo studio di David Cage si racconta come se di volta in volta dovesse proporre una storia mai vista prima (spoiler: Detroit Become Human lo avevamo già visto o letto in tutte le salse), Supermassive Games racconta storie horror non particolarmente rivoluzionarie, ma all’interno delle quali il controllo del giocatore ha ruolo importante nella semplicità del racconto stesso, coerentemente e contrariamente ai titoli Quantic Dream che sembrano volerci fare paternalisticamente discorsi in definitiva ingenuotti (sì, parlo sempre di Detroit).
L’ambizione a produrre intrattenimento di qualità è evidente nel progetto The Dark Pictures Anthology, che con The Devil in Me giunge al completamento della prima stagione. Una serie antologica di quattro giochi in cui quattro storie slegate tra loro – ma che ci viene suggerito a più riprese essere ambientate nello stesso universo narrativo – ci vengono proposte dall’unico vero filo rosso della stagione che è il Curatore, un bibliotecario che di volta in volta è il nostro Virgilio mentre scendiamo nei meandri dell’orrore.
Dalla sua biblioteca prende libri, suggerisce soluzioni, cita autori e tira le somme come un narratore onnipotente che non interviene mai nel racconto stesso.
The Dark Pictures Anthology funziona come appuntamento annuale perché ci propone sempre qualcosa di nuovo ma allo stesso tempo familiare: i singolo episodi evolvono timidamente le meccaniche, ed è evidente il passo avanti fatto da Men of Medan a The Devil in Me, ma nonostante questo rimangono sempre gli stessi nelle fondamenta. Il risultato è quello che ci si aspetta da una serie antologica: potenzialmente claudicante ma anche una garanzia.
Claudicante perché il livello qualitativo degli episodi non è sempre lo stesso, e frugando per la rete mi sono accorto di come questo dipenda molto dai gusti personali del singolo più che da limiti intrinseci dei singoli giochi. Mi è capitato spesso di leggere come Little Hope sia il miglior episodio dei primi tre, mentre lo trovo francamente il più debole di tutti. È anche normale quando si parla di racconti di genere, e soprattutto quando si parla di horror: c’è chi può essere più affascinato da un racconto di caccia alle streghe e chi preferisce la mitologia sumera, per dirne due.
Sotto un punto di vista il più obiettivo possibile però The Dark Pictures però mantiene un livello stabile nel corso delle sue quattro uscite, avendo sempre ben chiari i punti fermi del gioco: una presentazione grafica eccellente, attori di ottimo livello (in The Devil in Me c’è ad esempio Jessie Buckley, sicuramente nota a chi ha visto Sto Pensando di Finirla Qui di Kaufman) e una serie di QTE e scelte a tempo limitato.
Come si accennava, l’evoluzione nella serie è palpabile, e già a partire dal terzo episodio mi sono accorto di come l’inazione fosse diventata importante come l’azione così come di quanto il ragionare velocemente e sotto stress fosse diventato più rilevante dell’essere veloci a premere i tasti al momento giusto, aggiungendo così un livello di sfida maggiore anche per chi avesse dimestichezza con i videogiochi.
The Devil in Me è quello che porta più novità nella formula di gioco, seppure queste non siano sostanziali o rivoluzionarie. Fondamentalmente si tratta di maggiori possibilità di navigazione all’interno delle mappe di gioco, un sistema di inventario e di semplici puzzle. Il risultato è un gioco che ha il sapore di qualcosa di più libero, pur non essendolo nei fatti, e che restituisce la sensazione di qualcosa di meno lineare.
L’abbozzata verticalità e i puzzle variano quindi un po’ la struttura senza snaturarla e contemporaneamente senza aggiungere nulla di realmente nuovo. Nonostante questo però l’introduzione è bene accetta seppure poco funzionale, perché in fondo il core di The Devil in Me è sempre il racconto, che Supermassive Games dopo averci fatto visitare navi abbandonate, paesini fantasma della provincia americana e antiche rovine irachene sposta in un hotel su un’isola.
Non un hotel qualsiasi però, perché nei panni di una troupe televisiva specializzata in true crime ci troveremo imprigionati nella riproduzione dell’hotel di H. H. Holmes, il primo serial killer americano. Per chi non conoscesse la storia (o meglio, la sua rilettura nella cultura popolare), Holmes aveva progettato un hotel pieno di trappole, pareti mobili, stanze nascoste con lo scopo di attirare turisti per poi ucciderli.
Nella realtà l’intera vicenda era un po’ meno “romantica”, ma come è giusto che sia The Devil in Me si basa su come il Murder Castle di Holmes è stato raccontato. Così il nostro gruppo di personaggi, ognuno con i suoi oggetti specifici e le sue capacità peculiari, dovrà sopravvivere alla notta cercando di sfuggire a un emulatore del noto serial killer.
La struttura è quella dello slasher più classico, con il gruppo braccato e diviso da un assassino che sembra essere onnipotente e onnipresente. L’hotel che pian piano inizia a mostrarsi per quello che è realmente diventa velocemente il vero protagonista, con le sue stanze segrete, le sue camere per le torture e gli animatronics che lo popolano.
Nonostante preferisca ancora House of Ashes, devo constatare che The Devil in Me è l’episodio più efficace e ricevibile della serie, raccontando qualcosa di più “universale” come la paura di essere inseguiti da un serial killer, rispetto agli episodi precedenti.
Quello che mi interessava fare con quanto state leggendo però era cercare di mettere ordine in una serie di giochi che ha cercato di fare qualcosa di nuovo nella formula della distribuzione senza però avere pretese di rivoluzionare il medium.
Perché i vari The Dark Pictures sono oneste storie horror che funzionano bene, a volte di più e a volte meno anche a seconda dei vostri gusti, che riescono a intrattenere e spesso a spaventare genuinamente. La rigiocabilità è garantita non solo dai diversi finali o dai possibili errori che facciamo durante la partita, ma anche dalle diverse route proposte nella seconda partita e nella possibilità di giocare tutta l’avventura in multiplayer.
Se The Devil in Me potrebbe risultare un ottimo punto di ingresso nella serie, io vi consiglio comunque di giocarli in ordine, anche di fila, cercando di fare del vostro meglio per far sopravvivere tutti e studiando con attenzioni gli indizi. I giochi sono pieni di cose da scoprire e di dettagli che è necessario collegare autonomamente per capire effettivamente cosa succede negli episodi (e tra gli episodi).
Anche il Curatore, apparentemente distaccato, sembra pian piano sbottonarsi e far trasparire che sta nascondendo qualcosa…