L’uscita di The Last of Us Parte 2 ha scatenato orde di omofobi e alt-righters su Metacritic. E non è il primo caso, solo il più plateale. Che fare, quindi?
Il 19 giugno 2020 è un giorno che potrebbe essere ricordato negli annali della storia videoludica: è uscito infatti The Last of Us Parte II, uno dei seguiti più attesi in assoluto per il mondo PlayStation 4 e non solo. Sette anni fa, il suo predecessore fu uno spartiacque generazionale, non solo per aver sfoggiato la miglior grafica ottenibile su PlayStation 3 ma anche per aver abbracciato, sotto il profilo narrativo, la capacità di raccontare una storia seguendo canoni cinematografici, con una sceneggiatura solida e che ha aperto gli occhi anche ad un pubblico mainstream, generalmente più votato all’azione spicciola che alla profondità del racconto.
Sette anni dopo, The Last of Us Parte II raccoglie il plauso della critica, ma anche un odio indiscriminato nei suoi confronti sul celebre portale Metacritic. Il noto sito/aggregatore di recensioni, ha cominciato sin dal day one del gioco ad essere subissato di voti altamente negativi, come abbiamo già descritto nella nostra news dedicata.
Fossimo ancora nell’epoca del primo titolo, si potrebbe pensare a invidia nei confronti di un’esclusiva di successo, una cosa comune nell’eterna lotta della settima generazione tra Sony e Microsoft. Purtroppo, però, i problemi sono ben altri, già evidenziati nei mesi precedenti l’uscita di The Last of Us Parte II e che vedono, in ordine sparso, atteggiamenti di misoginia, omofobia e persino antisemitismo.
La notizia è stata giustamente ripresa da tante testate, eppure non è stato possibile non rimanere interdetti nel vedere la questione considerata in molti casi alla stregua di una bravata, un gesto atto solo ad infastidire e creare un po’ di scompiglio ad opera di gente invidiosa. In sintesi, una vigorosa scrollata di spalle che non fa bene a nessuno, se non agli stessi gruppi politicizzati che guadagnano l’ennesimo trofeo da esporre: l’indifferenza generale e nuove occasioni di proliferazione.
Come abbiamo già detto, sin dal trailer presentato in occasione dell’E3 2018, il titolo Naughty Dog fu bersagliato di critiche per aver mostrato platealmente un bacio omosessuale. Benché la cosa fosse relativamente impressionante (basti pensare alle romance che è possibile intraprendere in altri titoli come Mass Effect), il solo fatto di aver mostrato questo gesto d’amore ha saputo aizzare folle di personaggi dell’alt-right, infiammate ulteriormente dalle affermazioni politiche del game director, Neil Druckmann, fino ad arrivare a rigurgiti antisemiti che speravamo di aver sepolto, tornati per le origini di Dina, la ragazza di Ellie, la cui famiglia ha origini ebraiche ed è scampata all’orrore dell’Olocausto.
Ci tengo a ribadire un concetto già espresso: nessuna testata giornalistica o influencer ha, in alcun modo, difeso questo posizioni idiote, tuttavia nessuno di noi può considerarsi estraneo a fenomeni simili, soprattutto nel momento in cui accadono nel nostro settore di competenza e, di conseguenza, ignorarne l’esistenza come polvere da nascondere sotto al tappeto.
Lo scontro non è più evitabile e, a dimostrazione di ciò, basta dare uno sguardo alle uscite degli ultimi mesi per trovare titoli tanto blasonati quanto portatori di messaggi profondi e realistici.
Death Stranding, ultima opera di Hideo Kojima, ha mostrato un mondo in fase terminale ed un’umanità che non ha alcuna possibilità di sopravvivere se non creando ponti e connessioni, collaborando per un futuro migliore anche di fronte alla pesante consapevolezza che tutto finirà. Possiamo poi citare il recente remake di Final Fantasy VII che, rispetto alla sua versione originale di oltre vent’anni fa, sottolinea in modo più marcato argomenti tremendamente attuali come la difesa dell’ambiente ad ogni costo, l’ecoterrorismo e la lotta contro le corporazioni che sfruttano il sistema in virtù del profitto senza alcun riguardo per la salute del mondo e di chi lo abita.
Al di la di questi esempi sono anni che il videogioco, soprattutto sul versante indipendente, modella in codice e pixel la realtà che ci circonda e parla di problemi che trovano un corrispettivo nella nostra realtà; o, più semplicemente, il videogioco è diventato un medium abbastanza maturo da non sentirsi più inadeguato a raccontare determinate storie o ad affrontare argomenti scottanti e, per qualcuno, pericolosi.
Se dunque il videogioco ha saputo crescere e maturare, dando vita ad un’industria che, oltre ad essere florida sotto il profilo economico anche in tempi di pandemia, inizia ad investire in modo marcato non solo sull’intrattenimento puro bensì anche su narrazioni capaci di influenzare le masse, la stessa stampa ha il dovere di adeguarsi ed elevare il discorso sul medium, per il proprio bene e di quello di lettori presenti e futuri. Se finora il porsi in modo neutrale pur di favorire la diffusione del videogioco è stato un modo di fare accettabile e dalle intenzioni positive, è necessario prendere atto dei nuovi antagonisti e, se necessario, fornirgli gli strumenti per analizzare e contestualizzare ciò che giocano.
Non credo sia necessario ricordarvi che, negli ultimi anni, il dibattito videoludico e non si è impoverito in modo drammatico, tramutando le opinioni personali in posizioni spesso inamovibili e da difendere con tifo indiavolato.
È altrettanto vero, però, che il sistematico ignorare questo tipo di idee provocatorie ha avuto come unico effetto quello di renderle ancora più solide e persuasive, e ancor peggio ha fatto il ridicolizzare queste posizioni, dando per scontato che un’idea simile non possa evolversi e cambiare nella testa di alcune persone.
Risolvere un problema simile non è semplice, tutt’altro: rispetto ad altri medium esistenti, non è possibile lavorare sulla contestualizzazione di un videogioco al pari di, ad esempio, il cinema o la letteratura. Un’opera letteraria controversa come Lolita di Vladimir Nabokov, ad esempio, può essere supportata da prefazioni e note volte a spiegarne il contesto, offrendo punti di vista ed interpretazioni diversi per migliorare la fruizione del romanzo e comprenderne i sottotesti meno espliciti.
È sostanzialmente ciò che sta accadendo anche nel cinema dopo l’omicidio di George Floyd, con quello che per molti risulta essere un revisionismo storico ma, purtroppo, giustificato per andare incontro ad una parte di pubblico ampia che, purtroppo, non è in possesso di strumenti e di conoscenze validi per comprendere ciò che vedono.
Potremmo stare a parlare ore delle responsabilità oggettive di questo decadimento, forse non basterebbero decine di articoli per sviscerare a pieno l’argomento. Ciò che mi preme, però, è che la comunità videoludica ha purtroppo dimostrato una forte immaturità collettiva: quella che si unisce ogni qual volta il videogioco diventa capro espiatorio di violenze dalle radici ben più profonde (come accade spesso per le sparatorie statunitensi) ma che, al tempo stesso, rifugge dall’idea che oltre l’intrattenimento ci possa essere uno storytelling più o meno controverso ma capace di riflettere la realtà che ci circonda, anche quando non ci piace o ci risulta scomoda.
È dunque giunto il tempo che tutti si assumano la propria responsabilità, anche noi che siamo una parte “viva” del sistema, quel giornalismo che si impegna quotidianamente per informare sul mondo videoludico e, più in generale, di quel mondo nerd che spesso cade vittima di fenomeni come il gatekeeping senza comprendere l’inclusività di fondo di qualunque produzione nata negli ultimi cinquant’anni, soprattutto per quanto riguarda quella rivolta ad un target “teen” che ha sempre tenuto conto dell’evoluzione del mondo e del costume.
Ed ora che lo fa in modo esplicito, attira le critiche di chi non è stato capace di intercettare questa evoluzione, forse ritenendo il futuro del videogioco più incisivo solo quando si parla di teraflops e non quando si parla di diritti umani.