“Il flusso del tempo è sempre crudele. La sua velocità sembra diversa per ogni persona ma nessuno può cambiarlo. Una cosa che non cambia con il tempo è il ricordo, il ricordo dei giovani giorni”
Nel corso della mia esperienza, sono moltissimi i giochi che ho avuto il piacere (e spesso il dispiacere) di recensire. Tra questi, una piccola fetta mi ha messo in difficoltà, costringendomi a sessioni ancor più lunghe, a riflessioni ancor più profonde. Perché succede, purtroppo di rado, che metti nella console un gioco la cui visione ti spiazza, quasi ti annulla. Tu sei lì con il pad in mano, e vivi un turbinio di emozioni, talvolta contrastanti, perdendoti pian piano nel codice, e nel mondo di gioco che esso ti offre. Sono situazioni bellissime ed allo stesso tempo terribili per un recensore, tali da lasciarti con il dubbio che quello che poi scriverai non sia abbastanza. Vorresti spiegare per bene al tuo lettore quello che hai vissuto, il perché di certe magnificenze, ed anche il perché di certi contrasti, ma finisci per scontrarti con il muro delle parole, con la stanchezza di una stesura lunga e, alla fine, resterai nel dubbio che forse potevi fare meglio, di più, consegnare prima.
The Legend of Zelda: Breath of the Wild parte per me con questa premessa. E forse, tu che stai leggendo e che magari hai già messo mano alla perla Nintendo, capirai perfettamente cosa voglio dire. Perché questo Zelda è un gioco che mette in difficoltà. Una difficoltà non data tanto dal gameplay, ma dal turbinare delle emozioni che esso può (o non riesce) a far scaturire nel giocatore. Eiji Aonuma aveva evidentemente uno scopo: quello di coniugare la tradizione di Zelda (di ogni Zelda edito negli ultimi trent’anni) in un unico grande gioco. Un nodo, che tenesse a sé i fili dei molteplici mondi, delle diverse Hyrule. Un’opera titanica di non facile realizzazione, e quando giocando ti rendi conto che, tutto sommato, Aonuma è riuscito nel suo intento, tu semplicemente non puoi che constatarne la grandezza.
L’eroe che era, l’eroe che è, l’eroe che sempre sarà
La premessa narrativa di Breath of the Wild è semplice e asciutta. Schietta. Come nella migliore tradizione della serie: la Calamità Ganon imperversa sul mondo di Hyrule. Concentratasi attorno al castello, nella forma di un miasma mostruoso e volteggiante, la Calamità ha corrotto il mondo, costringendo i suoi abitanti ad una vita sull’orlo della fine. La cupa rassegnazione delle sue popolazioni si contrappone alla speranza che segretamente covano nel cuore. Speranza che trova nuovo vigore quando, dopo ben 100 anni di sonno profondo, Link, l’eroe della leggenda, si risveglia misteriosamente da un magico torpore. L’eroe non ha ricordi di sé stesso, né del perché si fosse assopito. Quel che si sa è che il mondo è vessato dal male più o meno dall’inizio del suo sonno, quando la guerra contro Ganon lo vide sconfitto e con lui, quattro gloriosi guardiani a guida di macchine antiche e titaniche: i Colossi.
L’ultimo baluardo rimasto tra fioritura e fine della vita è lei, la principessa Zelda, esiliatasi ai confini del castello nella speranza di contenere col suo potere il male tentacolare che ha esteso la sua influenza su tutto il mondo. A Link, eroe di ieri e di oggi, il compito di rimettere a posto le cose, consci che il male non può essere sconfitto ma solo arginato. Perché Ganon, come l’eroe, è qualcosa che sempre c’è stato e sempre sarà, in una battaglia manichea tra Yin e Yang. Un insegnamento che The Legend of Zelda ci ha impartito trent’anni or sono e che è sempre valso nella mitologia della serie. Il nostro obiettivo, dunque, è quello di viaggiare per il mondo nel tentativo di sconfiggere il male, la qual cosa può riuscirci nei modi che più ci aggradano, tanto lanciandoci verso il castello praticamente subito e senza cognizione di causa, tanto seguendo quello che è l’incipit della trama e cercando, dunque, di riportare innanzitutto i gargantueschi Colossi dalla parte del bene.
Questo è tutto quello che c’è da sapere. Questo è quel che il gioco vi chiede nelle prime ore, ed il resto, ricordi di Link compresi, è demandato direttamente a voi, ed alla vostra esperienza di gioco.
Si tratta di un vero e proprio viaggio di formazione che trascende i limiti imposti dallo schermo e finisce per diventare il nostro personalissimo cammino verso il mito e la conoscenza. Giocate a Zelda due volte di fila o contemporaneamente ad un amico e ve ne renderete conto da soli: non possono esserci due esperienze uguali, ma solo momenti vagamente simili. Una filosofia di game design che trascende il mezzo e che ci trasporta direttamente nella mitologia del gioco: non esistono due The Legend of Zelda uguali, ma solo personaggi vagamente simili.
Le storie di Link, di tanti, diversi eroi, tutti uniti da un unico obiettivo, quello di sconfiggere il male, e tutti alla ricerca di un futuro da consegnare al mondo di Hyrule. Già, Hyrule, meravigliosa e sconfinata meraviglia, carica di bellezze e di orrori, unica e inossidabile protagonista del mythos e qui, più che in passato, di una centralità assoluta. The Legend of Zelda: Breath of the Wild è un racconto che sembra fare il verso ad un altro “racconto dei racconti”. Per quel che mi riguarda non posso che pensare alla Torre Nera di King, ed al viaggio eterno di Roland per sconfiggere il male del suo mondo. Un viaggio ciclico e infinito, destinato a ripetersi di volta in volta con talune dolorose varianti. Sicché come Roland arriva alla Torre per sconfiggere i demoni del mondo, Link perpetra lo stesso intento, arrivando al castello e sconfiggendo Ganon. Un ciclo infinito fatto di infiniti mondi, la cui Torre/Castello è la rappresentazione di un nexus di realtà e universi, da cui si snodano innumerevoli storie passate e presenti.
Il trascendere sta proprio qui, nel porre questo Breath of the Wild quasi al centro della cosmogonia zeldiana, mettendo questa hyrule quasi al centro di tutto, e nel farlo ripescare innumerevoli riferimenti al passato, come un gioco di incastri di impareggiabile fattura.
La storia stessa si snoda su due piani narrativi diversi, uno diretto e presente, uno indiretto e passato (100 anni prima), in cui Link e il giocatore scoprono e crescono insieme, raggiungendo la consapevolezza solo con la ricerca e con il desiderio, e senza che questa conoscenza sia un obbligo imposto dal gameplay, in quello che è un raffinato lavoro di poietica. Si può insomma sacrificare senza alcuna remora la consapevolezza del passato e concentrarsi solo sul presente, o diluire a dismisura il tempo di gioco e permettere a Link di tornare ad essere l’eroe di una volta in tutto e per tutto. Attorno a noi c’è poi la sconfinata bellezza del nostro “nexus dei mondi”, una Hyrule bellissima e diversa, in cui popolazioni vecchie e nuove si incontrano per la prima volta. In cui da qualche parte c’è sempre qualcuno che aspetta di prendere il proprio posto nell’epopea di Link. In cui c’è chi chiede aiuto, c’è chi racconta storie, c’è chi vive nella sottesa consapevolezza che questo è solo uno di infiniti mondi.
“Immersive Sim”
Crocevia tra passato, presente e futuro, tanto dal punto di vista narrativo che delle meccaniche ludiche, Breath of the Wild è fondamentalmente un open world, nell’accezione più libera e pura che il termine può offrire. Il gioco non mette nessun paletto al giocatore, se non quello della propria volontà di esplorare il mondo che lo circonda, riconsegnando nelle mani di Link, praticamente nella prima oretta di gioco, tutti quelli che sono gli strumenti per cominciar il suo viaggio. Non c’è alcun limite imposto dalla trama che non sia l’obiettivo finale, ed anzi tutto quello che vi spingerà avanti sarà l’ambizione all’esplorazione unita alla quantità (e qualità) dei mezzi di sostentamento che avrete reperito nel corso delle vostre scampagnate. Non c’è fretta in Breath of the Wild, solo libertà. Non c’è alcun vincolo, non ci sono aree inaccessibili. Ci sono solo possibilità nascoste agli occhi, che saranno prima o poi svelate dall’esperienza. Il game design è letteralmente alla mercé del giocatore, nella misura in cui ogni aspetto del gioco si offre a schemi e soluzioni diverse. L’interazione ambientale, ad esempio, è di altissimo livello, come forse mai si era visto in un titolo solo vagamente simile. Potreste trovare reminiscenze di situazioni analoghe ad altri giochi, così come potreste ricordare di aver assaporato una libertà anche solo vagamente simile, ma la realtà dei fatti è che questo capitolo di Zelda si pone al massimo di ogni altra esperienza aperta ed open world, andando a riprendere impostazioni ludiche e strutturali che sono proprie di altri generi e di altre situazioni. Il mondo di gioco aperto, la possibilità di esplorarlo come si vuole, l’interazione con l’ambiente e la gigantesca immersione che esso propone, fanno traslare l’esperienza dal canone open world a quello più di “nicchia”, e fino ad oggi appannaggio di titoli in prima persona, delle avventure narrative tanto care ad autori come Warren Spector e Ken Levine.
È un lavoro di impareggiabile coraggio, il cui rischio era quello di costruire un’esperienza dispersiva e scialba sotto troppi punti di vista. Eiji Aonuma confeziona invece una sintesi funzionale di quanto detto sopra, tanto che Zelda è, secondo chi vi scrive, il primo titolo in terza persona a potersi fregiare del pedigree di una “immersive simulation”. Breath of the Wild è infatti un’esperienza catturante, ed il fatto che il mondo in cui essa è costruita sia credibile e realistico, definisce il gioco in quegli stessi parametri in cui si configurano grandi masterpiece come Bioshock, The Elder Scrolls o il più recente Dishonored 2. I dettami del genere degli immersive sim sono stati consegnati alla storia da Warren Spector, e definiscono una serie di titoli tipicamente in prima persona, capaci di portare il giocatore a vivere un’esperienza tanto realistica da risultare quasi simulativa. Ebbene in questo BotW riesce, risultando, come altri esponenti del genere, una perla di narrativa verticale e game design, con il suo stile anti-costrittivo e la sua volontà di mettere il giocatore costantemente alla prova con sé stesso e con le meccaniche di interazione.
Non c’è qualcosa che in Breath of the Wild non si possa fare, non c’è mai una sola strada da intraprendere e non ci sono soluzioni ovvie. Certo il gioco ha tutta una serie di limiti (di cui presto parleremo) ma resta un’esperienza a 360° senza mezze misure che anzi, ma di questo parleremo altrove, quasi sovverte le regole classiche del genere avventuroso, mettendo in secondo piano dinamiche assodate come il combattimento. Questo perché, come detto, il gioco ci pone in una condizione di assoluta libertà sin da subito, rimettendoci tra le mani quelli che erano gli strumenti che, in altri mondi, in altri racconti, Link aveva faticosamente reperito in giro per Hyrule. Abbiamo dunque il Kalamitron, enorme magnete capace di sollevare qualunque oggetto metallico, per forma e dimensioni; lo Stasys, che congela un oggetto nel tempo, lasciandolo in balia della fisica del mondo; il Glacyer, in grado di erigere e distruggere colonne di ghiaccio; e infine le ben note bombe, qui sia sferiche (e soggette a pendenze e forze esterne) che cubiche. A ciò si aggiunge poi la Paravela, con cui planare dalle alture senza il rischio (comunque mai annullato) di schiantarsi e morire al suolo.
Nella sua natura di “simulazione immersiva”, ognuno di questi oggetti è legato al mondo di Hyrule non solo per mezzo dei segreti che essi possono rivelare, ma anche per mezzo delle situazioni che possono creare interagendo con la fisica, precisa e realistica, che il mondo offre ai suoi esploratori. Anche qui il massimale di quest’espressione è dato dalla fantasia, dall’ingegno, dall’inventiva. Sicché soluzioni giuste non esistono, ci sono solo diversi livelli di adattabilità del giocatore rispetto al problema. Non esistono problemi semplici o complessi in Breath of the Wild, esiste solo la logica che può risolverli e quella logica è demandata, ancora una volta, all’esperienza. E questa è estasi del game design, nuda e cruda.
La scoperta dell’uso degli strumenti, e il reperimento di oggetti utili (ma non vincolanti) per il superamento degli ostacoli narrativi ed ambientali pone il giocatore nella pregevole condizione di poter scegliere come e quando fare quello che più lo aggrada, arrivando poi al succitato estremo del poter affrontare il boss finale da subito in ciabatte e pigiama. Anche l’equipaggiamento in tal senso assume funzioni tutte da scoprire, e persino le armi possono risultare ben più utili di quello che è il loro ovvio e basilare compito. Vuoi accendere un fuoco e non hai una torcia? E se fosse la tua clava a darti una mano? Devi passare la corrente da una parte all’altra? E se fosse una lancia metallica a fare da conduttore? Questi sono solo un paio degli innumerevoli esempi di interazione offerti dal nostro equipaggiamento, il che crea anche un gusto ed un fascino notevole nel reperimento di armi e quant’altro che, a differenza delle armature, sono persino deperibili e possono abbandonarci proprio al momento sbagliato a causa dell’usura. La strana, ma funzionale meccanica delle armi che si rompono è un po’ croce e delizia dell’avventura di Link, e ci lascia sempre il dubbio sul cosa portare con noi e perché, specie se non si è ancora avuta occasione di ampliare le proprie borse da viaggio. La scoperta comunque non si limita al mero equipaggiamento, e con invidiabile classe, BotW riscrive in modo intelligente quella che è un’attività del tutto secondaria di molti giochi con un impianto parimenti aperto: ossia quella del reperimento materiali e relativo crafting. Non esiste crafting in Zelda, o meglio non esiste nel modo tipicamente inteso di armi e armature, ma c’è la cucina, e le relative ricette. In giro per il mondo ci sono decine e decine di reagenti diversi, sia naturali che mostruosi, e questi ultimi vanno ricercati proprio nel combattimento con i mostri, tra zanne, occhi, cuori e simili. In questo senso, come immaginerete, non mancano attività come la caccia o la raccolta di frutta e piante varie, e tutto va a riempire l’apposita borsa di materiali da cui, nei pressi di un pentolone, è possibile estrapolare il necessario per inventarsi manicaretti, pozioni o immangiabili poltiglie. La cucina, praticamente l’unico strumento attraverso cui ottenere oggetti che ricarichino un buon numero di cuori, è un’attività equilibrata e ben bilanciata, e si presta anche alla risoluzione di certi crucci ambientali; mettiamo il caso: il bisogno di una pozione che ci faccia affrontare meglio il caldo del deserto. Tutto, insomma, nonostante limiti più o meno chiari sin da subito, è confezionato per avere un proprio posto nell’economia di gioco. Sicché, però, tutto è utile ma niente è davvero indispensabile. All’inverso, niente è davvero indispensabile, ma una conoscenza e la pratica svelano quello che è il disegno completo dell’incredibile lavoro di cesellatura e game design che il gioco mette nelle mani del giocatore. Ancora una volta: estasi.
Il senso della solitudine
Occorre comunque chiarire che chi si aspetta un open world “ricco” come poteva essere quello di The Witcher 3, resterà forse un po’ deluso. BotW, probabilmente per limiti tecnici, forse per una certa coerenza narrativa (un mondo devastato, ormai in guerra da 100 anni) propone a volte delle situazioni di “vuoto”, in cui la superba paesaggistica non si presta a nulla più che allo scorrazzamento libero ed al silenzio. Per dirla in soldoni, scordatevi di incontrare chissà quanti pellegrini durante il vostro viaggio, ed anche i mostri sono presenti in un numero risicato di razze (con opportuni reskin) ed in quantità piuttosto ridotte. Certo le cose cambiano di zona in zona, anche con una certa logica (se una montagna è gelida ed ha un clima seccco e glaciale, le forme di vita che la abitano sono pochissime) ma la realtà dei fatti è che l’open world offerto da BotW ha i suoi limiti, e questi sembrano più che altro risedere nella macchina/e sui quale il gioco è stato sviluppato. La furbizia del team di sviluppo sta nel non farci vivere la cosa come un peso, ed accentuando invece il senso di solitudine e smarrimento che, narrativamente, sta vivendo lo stesso Link.
Siamo dalle parti dei pretesti narrativi di Wind Waker quando, per limiti tecnici del tutto simili, talvolta l’esplorazione si lasciava andare ad una certa quietezza. Il mondo di gioco, come per il celeberrimo capitolo GameCube, si presta molto a questa verve, occasionalmente sottolineata da temi musicali leggeri e piacevoli, che sembrano sposarsi adeguatamente ad ogni situazione esplorativa. Il viaggio in BotW è quasi spirituale, per certi versi ascetico, e – messo da parte il senso di solitudine – regala delle soddisfazioni notevoli. Il mondo di gioco, per dire, ha una lore che è sorretta da una quantità di miti, civiltà, usi e costumi le cui vestigia si trovano un po’ ovunque, talvolta davanti ai nostri occhi, altre volte nascosti alla vista, in dettagli impalpabili, spesso segreti. È la furbesca perizia del team di sviluppo, che rende l’esplorazione una scoperta continua, anche quando capita di non toccare arma o di non dialogare con nessun NPG per un’ora buona. Una sorta di mistico ritorno alla natura, che ancora una volta, trascendendo il codice, si trasforma in un viaggio personale del tutto sovrapponibile a quello dell’eroe e, in diverse misure, intriga e invoglia ad andare avanti. Giocate a Switch schermo alla mano, cuffie alle orecchie, e vivrete una sorta di “distacco”, come plausibilmente lo vive lo stesso Link, fuori dal suo tempo massimo, immerso in un mondo che ormai fatica a riconoscere e ricordare. A questo punto, il senso di vuoto che spesso pervade l’avventura può, come no, annullarsi. Ma ancora una volta questo è un qualcosa che prescinde dal gioco in sé, e tocca le corde più profonde del giocatore. Difficile pertanto additarlo come difetto, è questione di sensibilità. I limiti, inutile girarci attorno, ci sono. L’assoluta “dolcezza” con cui essi vengono aggirati è comunque un lavoro di una fattura pregevole, e demandato unicamente alle sensazioni che il gioco può, o riesce, a suscitare. Il punto è che essendo tutto al suo posto, bisogna avere un problema molto più profondo con il gioco per non apprezzarlo, anche se non è da escludersi che ciò comunque non contrasti una certa pigrizia, data da un titolo che può durare 30, come 60 come anche 100 ore buone.
Errori di sintassi
Se da un lato abbiamo dunque il più grande tavoliere digitale di composizioni e funzioni, dall’altro abbiamo problematiche non da poco, che sono poi il cruccio di qualunque giocatore che abbia navigato in Breath of the Wild per più di una ventina di ore. E qui veniamo un momento a quanto leggerete ben presto nel giudizio finale. Breath of the Wild non è un gioco perfetto dal punto di vista ludico, ma lo è nella complessità del suo impianto e nella perfetta aderenza tra la sua visione e la presa che essa ha sul giocatore. Passi falsi ce ne sono eccome, e possono alla lunga minare la vostra voglia di continuare ad andare avanti, specie se avrete archiviato con velocità quelli che sono i due principali obiettivi del gioco: riconquistare i colossi e sconfiggere la Calamità Ganon.
Primo e fondamentale scoglio nell’esperienza di gioco sono forse proprio i dungeon, che non sono in grado di competere con i fasti del più recente passato, lasciando che Ocarina of Time e il bellissimo (ma controverso) Twilight Princess restino al vertice della saga per bellezza e complessità. I dungeon di Breath of the Wild sono piccoli, striminziti, e non offrono quasi mai una sfida veramente intrigante, salvo che in quelle interazioni in cui mettono il giocatore nella condizione di sperimentare nuove e ignote soluzioni tra fisica e strumenti di gioco. Tuttavia resta il sentore che non ci sia alcunché di memorabile, ed anche quando le premesse sembrerebbero diverse (parliamo ovviamente dei Colossi, creature meccaniche immense, con all’interno piccoli e “articolati” dungeon) il gioco finisce per non offrire poi granché. Si tratta naturalmente di un limite, e se si considera che i dungeon (o Sacrari secondo la nomenclatura del gioco) sono oltre un centinaio, capirete come il tutto possa presto venirvi a noia. La forza di questo sistema è solo nella sua continua riproposizione, nella misura in cui una formula sparpagliata in oltre 100 punti di una mappa vastissima, crea comunque una certa continuità in termini di enigmi e divagazioni “fisiche”. Questo, come intuirete è sia un bene che un male, seppure ha dalla sua una certa dose di fascino che, specie nelle prime ore (dove “prime” si intende la prima buona trentina) vi terrà costantemente attenti nella ricerca di sotterranei e varie. Anche il combattimento, per quanto abbastanza importante ai fini delle meccaniche di crafting, diventa ben presto un puro esercizio di stile, non essendoci nel gioco alcuna progressione, né dal punto di vista del personaggio, né da quello delle abilità ad esso collegate. Non ci sono, per dire, combo complesse o particolarismi che possono invogliare a volteggiare la spada, e questo per quanto magnifico e “sovversivo” nelle prime ore, diventa poi limitante sulla lunga. Potreste, per dire, divertirvi a continuare a combattere, ma se si pensa alla meccanica delle armi già espressa, ed al fatto che l’end game non pone alcun accento su questo genere di sfide, potreste semplicemente evitare i nemici ed appendere la spada al chiodo. Anche questo è in effetti una sintesi della perfetta possibilità di “scelta”, ma per taluni può essere un limite e forse, di fatto, lo è.
La sintesi della bellezza
Checché se ne dica: The Legend of Zelda: Breath of the Wild è ben lontano da essere quel capolavoro tecnico che ci era stato promesso ai tempi del suo annuncio. Sia in termini di poligoni che di texture, è evidente che il capolavoro di Aonuma sia stato enormemente ridimensionato, lasciandolo un po’ manchevole sotto il punto di vista tecnico. La diagnosi è quella tipica di un titolo cross-generazionale, con la probabile aggravante di uno sviluppo traslato solo in corsa sulla nuova console, e originariamente previsto come esclusivo per Wii U. Intendiamoci, parliamo comunque di un cross-gen con tutti i crismi, fatto sta che vuoi per lo sviluppo travagliato, o forse per i limiti già evidenti di Switch, Breath of the Wild ne esce fuori certamente meno pomposo di quanto non ci era stato promesso.
I problemi sono fondamentalmente due: la qualità delle texture e il frame rate, che sembra incapace di trovare pace tra le due anime della console, portatile e casalinga. Di fatto, l’hardware adatta il segnale di uscita in base alla sua configurazione. Un 900p in upscale sulla TV, ed un nativo 720p sullo schermo di Switch. Il risultato è che la migliore versione del gioco è certamente quella “portatile”, dove il segnale è gestito senza mezzi termini e dove il colpo d’occhio è senz’altro più piacevole e pulito. Il punto di forza del gioco, che poi stempera ogni discussione relativa alla mera conta poligonale, è certamente la sua direzione artistica, un’autentica sintesi di bellezza e piacevole armonia, tale da riuscire a mettere da parte i difetti evidenti del software, giusto ritoccati in sede di patch (uscita al day one) ma comunque incapaci di offrire un lavoro stabile e privo di incertezze. Senza voler essere cattivi, ma per giustezza, è doveroso specificare che i pop-up, così come molte texture poco rifinite sono all’ordine del giorno, e la console sembra soffrire di cali ogni qual volta nel mondo imperversano agenti atmosferici particolarmente violenti come tempeste fortissime di acqua o di sabbia. Più raramente, il gioco rallenta quando si ha a che fare con un’estesa interazione tra fisica e ambiente, cioè quando, ad esempio, il vento soffia su un folto prato che è contemporaneamente soggetto ai nostri colpi di spada (venendo reciso). Si tratta di dettagli, che comunque poco influiscono sul nostro giudizio circa l’esperienza in sé, ma che comunque non possono che lasciare l’amaro in bocca. Non tanto per facili, quanto inutili, paragoni con la più recente concorrenza, ma per quel dubbio se sia il codice del gioco ad essere acerbo, o se sia la console ad essere già al suo capolinea tecnico.
La versione Wii U
E visto che abbiamo citato Wii U: come tutti sappiamo The Legend of Zelda: Breath of the Wild nasce originariamente proprio come esclusiva per la sfortunata console Nintendo, ed è stata solo successivamente messa in sviluppo una versione per Nintendo Switch. Ma come si comporta quindi il gioco sulla console per la quale era stato concepito, considerando le performance superiori di Switch? Bene, ma non benissimo: questa è la risposta secca che possiamo dare a chiunque sia titubante sulle prestazioni del gioco.
Il primo problema, e anche l’unico definibile come tale in senso stretto, è quello degli sporadici cali di frame rate. Sporadici ma non casuali, perché questi si verificano praticamente solo all’interno dei villaggi, dove evidentemente ci sono più personaggi a schermo tutti assieme, ma anche dove evidentemente è meno necessario un frame rate stabile, data l’assenza di situazioni concitate. Nel resto degli ambienti, a prescindere dalle condizioni meteo, il gioco si comporta più che bene: l’erba si muove accarezzata dolcemente dal vento, mentre questo innalza da terra le foglie e prende forma in estemporanee nuvolette che subito si dissolvono. Ovviamente le texture e la mole poligonale, così come la pulizia, non sono equiparabili a quanto fu mostrato in sede di presentazione, ma la resa generale è comunque di buon livello grazie ad una direzione artistica d’impatto. Il gioco viene renderizzato a 720p, risultando quindi lontano dal poter essere detto definito. Quanto vediamo in lontananza (ma non solo) sono quindi texture slavate e decisamente spalmate sulle superfici sulle quali sono applicate, mentre la scena prossima al giocatore risulta decisamente più piacevole. Questo non deve però far pensare ad un gioco sgradevole alla vista, anzi, siamo ad un livello superiore a quanto avevamo potuto apprezzare per Xenoblade Chronicle X, altro open world di spicco della libreria Wii U, tanto che, giusto per citare un esempio, Breath of the Wild non soffre di quell’effetto pop up che invece affliggeva l’opera Monolith Soft., con una resa generale che risulta assai migliore anche per ciò che concerne le animazioni. In definitiva, presi in considerazione i limiti tecnici della macchina sulla quale il gioco gira, non si può che ritenersi soddisfatti del lavoro svolto dal team guidato da Aonuma. Chiudiamo constatando che Breath of The Wild, contrariamente a quanto ci era stato mostrato mesi fa, non sfrutta in alcun modo il GamePad, se si esclude la possibilità di giocare off screen.
Verdetto
Una volta Sam Keen ha detto che “noi ci innamoriamo non quando troviamo una cosa perfetta, ma quando arriviamo a considerare perfetta una cosa imperfetta”. Questa è forse la miglior espressione del rapporto che abbiamo con The Legend of Zelda: Breath of the Wild. Il gioco è lungi dall’essere perfetto, ed anzi la sua assenza di limiti finisce, talvolta, per mettere il giocatore in una posizione quasi limitante. Ma la verità è che l’esperienza è tessuta ad arte, e riesce nella sua magnificenza a farci aderire perfettamente a quello che è il viaggio di Link. Di questo Link, e di quello che è il suo rapporto con il mondo di Hyrule. Differenza del passato, e di tanti altri titoli anche solo vagamente simili, è l’esatta aderenza tra la nostra esperienza diretta e quella dell’eroe, partecipi assieme delle stesse scoperte, degli stessi segreti e, infine, della medesima esplorazione degli orizzonti. Siano essi fisici, ludici, narrativi: The Legend of Zelda: Breath of the Wild ci riconsegna un’esperienza così immersiva e immedesimante capace di rivaleggiare con poche altre e sparute avventure. Quasi tutte comunque prive della stessa libertà, dello stesso grado di interattività e, soprattutto, della stessa potenza immaginifica. Togliete a questo voto la cifra che volete, se proprio siete di chi sente l’esagerato (e inutile) bisogno di contare frame o di snocciolare competenze tecniche. È affar vostro, siete liberi. Pensate, questo gioco vi rende così liberi da poter fare anche cazzate simili. Stupido e insensato come colpire tre volte un pollo, but still: puoi farlo.