The Liberator è la nuova serie originale Netflix che racconta una storia vera, quella del Colonnello Sparks e dei suoi uomini
La guerra è sempre stata al centro della produzione cinematografica e seriale, principale motore del soft power statunitense dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale. Successivamente le opere di questo genere sono maturate, senza però perdere mai del tutto quella spina dorsale celebrativa del soldato che si è fatta pian piano celebrazione dell’uomo durante la guerra, nel tentativo di raccontarci le umanità che costituiscono i regimenti, e le relazioni che all’interno di questi esistono e si formano in uno scenario limite come quello della guerra. E The Liberator, nuova serie originale Netflix, non fa eccezione, inserendosi assolutamente in questo filone seppur con un twist particolare: l’utilizzo dell’animazione.
The Liberator segue le vicende del 157° reggimento di fanteria, inviato dapprima a Salerno, che sarà destinato a risalire l’Italia per poi passare per la Francia ed arrivare infine a Dachau.
La vicenda non è però tanto incentrata sulle operazioni militari, comunque importanti nell’economia della serie, quanto sulle persone che compongono la squadra del Colonnello. Protagonista assoluto è Felix Sparks (Bradley James). Suo è il punto di vista e sua è la voce narrante che commenta le vicende attraverso l’espediente delle lettere alla moglie che lo aspetta a casa.
Gli uomini di Sparks sono l’altro elemento fondamentale del racconto: si tratta di un gruppo di nativi americani, ispanici e cowboy, che il protagonista incontra per la prima volta come prigionieri dati i loro trascorsi non proprio idilliaci con l’autorità militare. Il perché è facilmente spiegato: le minoranze nell’esercito americano dell’epoca non vivevano una situazione migliore di quella che normalmente affrontavano come civili, e anzi la peculiare rigidità della gerarchia militare faceva scontrare queste persone con situazioni ancora più dure rispetto a quelle a cui erano abituati.
Sparks però appare fin da subito una figura “illuminata”, non colpito dai pregiudizi razziali che imperversa(va)no negli Stati Uniti. Un uomo con una morale sana, interessato alle condizioni dei suoi uomini e volenteroso di combattere una guerra giusta, rispettoso del nemico. Il tratteggiare la squadra di Sparks come un’oasi felice – almeno per quanto concerne le tensioni razziali – ci è sembrata una rappresentazione un po’ paracula della guerra, quasi a voler tornare indietro rispetto a quanto si diceva in apertura rispetto all’evoluzione del genere.
Allo stesso modo i nobili gesti di Sparks nei confronti del nemico e della popolazione tedesca certamente restituiscono la statura di un soldato da ammirare (The Liberator è basato su una storia vera e su personaggi realmente esistiti), ma quasi sminuiscono l’orrore della guerra nella sua interezza.
Probabilmente è una questione di sensibilità di chi scrive, ma ridurre le violenze subite dalle minoranze e le efferatezze messe in essere da tutti gli agenti coinvolti nel conflitto a un singolo caso virtuoso rischia di fuorviare la percezione che dovremmo avere di una vicenda orribile quale è stata la Seconda Guerra Mondiale, e rischiamo di perdere di vista il quadro generale, arrivando ancora una volta a “celebrare” l’esercito americano, vincitore integerrimo.
Su questo la serie vacilla, perché se è certamente bello vedere casi come quello di Sparks, The Liberator fatica a mettergli intorno la giusta quantità di orrore a fargli da contraltare e a ricordarci come si è trattato di un’eccezione attorno al quale c’erano macerie, morali e figurate.
Passiamo ora alla questione che sicuramente avrà colpito chiunque abbia visto anche un solo frame di The Liberator: la scelta di realizzare la serie con una tecnica che richiama l’animazione, e più precisamente il rotoscope. Anche qui alti e bassi, perché il Trioscope Enhanced Hybrid Animation (così si chiama la tecnica utilizzata per The Liberator) offre un impatto più realistico del classico rotoscope, pur avvicinandoglisi nel risultato, ma sembra perdere qualcosa sotto il profilo artistico.
Ovviamente non sappiamo se la questione è legata all’utilizzo nel caso specifico, o è proprio una caratteristica del TEHA, ma ad ogni modo il risultato vira eccessivamente verso il realismo nei volti, mentre perde molto in alcuni fondali, eccessivamente statici e troppo poco coesi con i personaggi che li abitano.
Nulla di drammatico, certamente il risultato non è sgradevole, ma la scelta dell’animazione non ci sembra perfettamente allineata con il tono della serie, e certamente non aggiunge valore al risultato finale, non servendo effettivamente come strumento narrativo come in Undone o Dov’è il mio corpo, per fare un paio d’esempi recenti.
Come sarà ormai chiaro, The Liberator di Netflix vive di alti e bassi, raccontando una storia virtuosa ma dimenticandosi di porla nel giusto contesto, e utilizzando una tecnica innovativa senza però mettere il giusto accento sull’aspetto artistico della stessa. Non irrinunciabile, insomma.